lunedì 14 aprile 2014

Coraline

Più riguardo a Coraline

Come ti chiami? – domandò al gatto. – Senti, io mi chiamo Coraline. Okay? Il gatto sbadigliò lentamente e con attenzione, rivelando una bocca e una lingua di un rosa sorprendente. – I gatti non hanno nome – disse. - No? - No – disse il gatto. - Voi persone avete il nome. E questo perché non sapete chi siete. Noi sappiamo chi siamo, perciò il nome non ci serve.

Non era stato coraggioso perché non aveva avuto paura: quella era l’unica cosa che potesse fare. Ma quando era tornato a riprendersi gli occhiali, sapendo che lì c’erano le vespe, aveva veramente paura. Quello era stato vero coraggio.

- Perché – disse Coraline – quando hai paura di qualcosa, ma la fai comunque, quello è coraggio.

È sorprendente come ciò he siamo possa dipendere dal letto in cui ci risvegliamo al mattino, ed è sorprendente quanto tutto ciò possa rivelarsi fragile.

Nessuno che sia minimamente ragionevole crede ai fantasmi. Sono tutti dei gran bugiardi.

Neil Gaiman

mercoledì 9 aprile 2014

Perché la fantascienza non viene ancora considerata letteratura a tutti gli effetti?

Nel 1973 L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon ottenne il premio Nebula, il più alto riconoscimento esistente nel campo un tempo conosciuto come “fantascienza” – un termine che adesso è ormai quasi del tutto dimenticato.
Scusate, stavo solo fantasticando. Nel nostro mondo Lenny Bruce è morto, mentre Bob Hope tira avanti. E anche se L’arcobaleno della gravità fu davvero candidato al Nebula nel 1973, venne escluso in favore di Incontro con Rama di Arthur C. Clarke, che lo scrittore Carter Scholz, in una recensione, giustamente ritenne “più che un romanzo, uno schema strutturale in prosa”. La candidatura di Pynchon rimane adesso come una pietra tombale nascosta che segna la morte della speranza che la fantascienza stesse per fondersi con la letteratura di vasto consumo.
Quella speranza era nata nei cuori di scrittori che, senza alcun incoraggiamento particolare da parte del più vasto ambiente letterario, per un breve periodo trascinarono il genere sull’orlo della rispettabilità. La fantascienza di avanguardia degli anni Sessanta e Settanta spesso si ubriacava di parole, applicava per amore o per forza tecniche moderniste ai vecchi temi del genere, aggiungeva per compensazione manciate di alienazione e sessualità a personaggi che avevano appena messo da parte il loro regolo calcolatore. Ma l’avanguardia rese anche possibili libri come Dhalgren di Samuel Delany, Un oscuro scrutare di Philip K. Dick, I reietti dell’altro pianeta di Ursula LeGuin, e 334 di Thomas Disch – opere paragonabili alla migliore narrativa americana degli anni Settanta, a prescindere da etichette, categorie e generi. In un accesso di ambizione, la fantascienza vagheggiò perfino l’idea di ribattezzarsi “affabulazione speculativa”, un termine da critica letteraria che era al tempo stesso pretenziosamente stupido e perfettamente azzeccato.
Perché quello che rende la fantascienza stupenda e complicata è quel misto di speculazione e di favoloso: la fantascienza è al tempo stesso narrativa di pensiero e narrativa di sogno. Per i primi sessanta e passa anni del secolo la narrativa americana era stata carente proprio di quegli attributi che la fantascienza offriva in abbondanza, per quanto in modo rozzo. Mentre all’estero affabulatori come Borges, Abe, Cortazar e Calvino fiorivano, qui da noi una vena di puritanesimo letterario bandiva dall’ambito della rispettabilità la scrittura fantasiosa e surreale. Un altro riflesso tipico, quell’anti-intellettualismo che impone che i romanzieri non debbano pontificare, estrapolare o teorizzare, ma solo mostrare e percepire, significava che il romanzo di idee era stato per molti anni dominio pressoché esclusivo di, uhm, Norman Mailer. Per di più, una certa riluttanza da parte del mondo umanistico a riconoscere l’impulso tecnocratico che stava trasformando la cultura contemporanea aveva trascurato alcuni temi. Per decenni la fantascienza colmò questa lacuna, e nel corso di quei decenni i suoi scrittori vi aggiunsero caratterizzazione, ambiguità e riflessività, aiutandola a raggiungere qualcosa di simile alla maturità letteraria, o almeno alla capacità di tirare fuori un occasionale capolavoro.
Ma durante il percorso che conduceva alla rivoluzione accadde qualcosa di strano. Negli anni Sessanta, proprio mentre i migliori scrittori di fantascienza cominciavano a rendere superflua la domanda se la fantascienza potesse essere letteratura, il romanzo letterario americano cominciò ad aprirsi ai modi che aveva escluso. Scrittori come Donald Barthelme, Richard Brautigan e Robert Coover ridiedero una collocazione al fantasioso e al surreale, mentre altri come Don DeLillo e Joseph McElroy cominciarono a competere con la tecnocultura emergente. William Burroughs e Thomas Pynchon fecero un po’ entrambe le cose. Il risultato fu che la necessità di riconoscere le doti della fantascienza perse importanza. Perché cercare in quelle sgargianti edizioni economiche ciò che era a disposizione in vesti rispettabili? Perciò quello che ne derivò fu più che altro il rifiuto, o l’indifferenza, da parte della critica.
Nel frattempo, al di là delle mura del genere-ghetto, era in atto una riduzione. Anche se la posta in gioco non era proprio così decisiva, è difficile non vedere un’affinità fra i tentativi di autoliberazione della fantascienza e quelli di altri movimenti per l’uguaglianza che raggiunsero il massimo della loro forza politica nello stesso periodo, e poi si rifugiarono nella politica dell’identità. Temendo la perdita di una distintiva identità di opposizione e risentita per il mancato accesso alla torre d’avorio, la fantascienza fece un passo indietro, allontanandosi dalle sue più vaste aspirazioni letterarie. Non che negli anni seguenti non sia stata scritta della fantascienza di talento, ma con poche importanti eccezioni quei lavori vennero sopraffatti negli scaffali (e nelle votazioni dei premi) da una fantascienza reazionaria tanto orrenda artisticamente quanto comodamente familiare.
Negli anni Ottanta, il cyberpunk fu considerato un segno di speranza, per il suo vigore, la sua raffinatezza, la prontezza sensoriale con cui aveva recepito il cambiamento delle nostre concezioni del futuro. Ma anche i migliori scrittori cyberpunk per la maggior parte spacciavano per trascendenza fantasie di ribellione sorprendentemente machiste e regressive, e il vigore e la raffinatezza erano bazzecole per quelli che ricordavano la matura profondità delle migliori opere dell’avanguardia. In ogni caso, il meglio del cyberpunk fu presto sommerso a sua volta da sbiadite e lacere fotocopie di fantasie adolescenziali di potenza che erano già molto, molto vecchie.
E così siamo arrivati ai nostri giorni. In cui, nonostante tutto, viene ancora prodotta della fantascienza che meriterebbe maggiore attenzione da parte dei fruitori di letteratura. La sua visibilità, però, dopo il fallimento dell’idea che la fantascienza debba e possa identificarsi con la letteratura, è nella migliore delle ipotesi piuttosto scarsa. Gli autori letterari di fantascienza esistono adesso in un mondo marginale, né rispettabile né commercialmente vitale. Le loro opere annegano in un mare di spazzatura nelle librerie, mentre gran parte della promessa della fantascienza viene realizzata altrove da scrittori troppo intelligenti o incuranti per preoccuparsi della sua identità stigmatizzata. L’incapacità della fantascienza di presentare la sua faccia migliore, di guadagnarsi un rispetto adeguato, non è stato mai così tragica come adesso che dall’esterno ci si appropria tanto regolarmente dei suoi punti di forza. In una cultura letteraria in cui Pynchon, DeLillo, Barthelme, Coover, Jeanette Winterson, Angela Carter e Steve Erickson sono autorità in ascesa, la divisione non è forse priva di significato?
Ma le tradizioni letterarie che sostengono quella divisione non sono tutto. Tra i fattori schierati contro l’accettazione della fantascienza come scrittura seria, per un osservatore esterno nessuno è più evidente di questo: i libri sono maledettamente brutti. E il peggio è che sono tutti brutti allo stesso modo, così non puoi distinguere quelli destinati agli adulti da quelli destinati ai dodicenni. Purtroppo, questa confusione è intenzionale, e la spiegazione ci riporta alla metà degli anni Settanta.
È ormai un luogo comune nella critica cinematografica dire che George Lucas e Steven Spielberg insieme hanno condotto a un arresto rovinoso il decennio più progressista e interessante del cinema americano dagli anni Trenta in poi. La cosa strana è che il medesimo duo riveste il ruolo dei “cattivi” pure nella tragedia della fantascienza, anche se possiamo aggiungervi un terzo nome, quello di J.R.R. Tolkien. Il vasto successo popolare delle immagini e degli archetipi forniti da questi tre dotti della letteratura per l’infanzia ha moltiplicato per mille il mercato della Sci-Fi, una versione fumettificata, castrata e profondamente nostalgica della nascente letteratura. Quella che era stata una nicchia editoriale trascurabile ed eccentrica, alla quale era stato consentito di proseguire per il suo cammino inoffensivo, era adesso una potenziale gallina dalle uova d’oro. (Ricordate quando “Star Trek” venne resuscitato dall’oggi al domani, un cult televisivo moribondo improvvisamente al centro della cultura popolare?) Man mano che la posta in gioco saliva, gli operatori di mercato piantavano le tende sul territorio: per un comodo paragone, pensate ai cloni del grunge rock dopo i Nirvana. Furono prodotti libri capaci di venire incontro a questo nuovo appetito vasto e superficiale – libri scadenti, a milioni – e i libri di qualità vennero riconfezionati per adeguarsi al paradigma. Via le copertine hippie-surrealiste degli anni Sessanta, con le loro promesse di astrazioni e ambiguità da adulti. Avanti con quello stile plumbeo e banale così perfettamente detestabile per l’acquirente di opere letterarie. La perfetta copertina-tipo di un libro di fantascienza dal 1976 in poi è suppergiù la copia esatta, direi, del manifesto originale di Guerre stellari. Gli uomini del futuro tornavano a pensare con le spade – beninteso, con le spade laser. Questo tradimento passivo avrebbe avuto più senso se il tipico scrittore di fantascienza letteraria ci avesse guadagnato davvero qualcosa in termini di denaro. Invece, questo atteggiamento è ancora ripagato troppo spesso da compensi che somigliano a quelli di un poeta, un poeta senza cattedra universitaria, intendo.
Altri ostacoli all’accettazione sono nascosti nella cultura della fantascienza, un po’ come agguati su una strada dove non passa nessuno. Oltre a essere un genere letterario o una moda, la fantascienza è anche un terreno ideologico. Chiunque l’abbia percorso ha familiarità con i suoi dogmi: la colonizzazione dello spazio è auspicabile; il razionalismo prevarrà sulla superstizione; il cyberspazio ha la capacità di trasformare la coscienza individuale e collettiva. Ingolfarsi nei meandri di questa eredità ha avuto come risultato opere di genio – Barry Malzberg che appanna il fascino dell’astronautica, J.G. Ballard che gongolando distrugge la presunzione che la tecnologia derivi dal razionalismo, James Tiptree Jr. (nata Alice Sheldon) che sostituisce il corpo e i suoi istinti in un discorso fin troppo disincarnato. Ma la pressione contro gli eretici può essere sorprendentemente forte, in quanto riflette la sete emotiva di solidarietà all’interno di gruppi emarginati. Perché la fantascienza può anche fungere da club, i cui membri condividono il risentimento degli esclusi e una passione protettiva per le storie che fioriscono nell’immaginazione di un dodicenne ma avvizziscono al primo contatto con un cervello adulto. Con il suo amore incondizionato per il proprio strato di paccottiglia, la fantascienza può essere tanto postmoderna quanto i sogni di Frederic Jameson, ma è anche tanto sentimentale nei propri confronti quanto una combriccola di vecchi amici o una famiglia.
La marginalità, va detto, non è sempre il male peggiore per gli artisti. Il silenzio, l’esilio, l’astuzia restano gli alleati di uno scrittore, e i generi disprezzati sono stati una fonte abbondante di esilio per intere generazioni di narratori americani iconoclasti. E naturalmente al pubblico alternativo dà sempre fastidio vedere che il loro culto preferito sta diventando troppo popolare. Ma un’arte emarginata rischia di cadere in una ricercata autoreferenzialità se resiste troppo energicamente all’inserimento. I rimasugli del jazz che rifiutarono la trasformazione del bebop sono quei tizi in completo gessato che suonano il dixieland, e il campo della fantascienza separata-ma-disuguale successiva agli anni Settanta, che si compiace del proprio lignaggio e feticizza il proprio ripudio, a volte somiglia terribilmente al dixieland – altrettanto raffinato, altrettanto calcificato, altrettanto dolcemente irrilevante.
Se la scrittura di qualità viene trascurata a causa delle barriere fra i generi, pazienza – la scrittura di qualità resta non letta per un mucchio di ragioni. Il vero peccato è che tante pagine restino non scritte, che tanti artisti interiorizzino il pregiudizio trasformandolo in disastrosa insicurezza. La grande arte si realizza per lo più quando i creatori vengono incoraggiati a credere che le loro opere possano avere un valore. Forse un Phil Dick avrebbe imparato a rivedere le sue prime stesure invece di scaraventarle alla disperata sul mercato se La svastica sul sole fosse stato riconosciuto dai critici letterari del 1964? Forse altri cinque o dieci Phil Dick appena usciti dal nido sarebbero apparsi poco dopo? Non lo sapremo mai. E vi sono costi artistici anche sull’altro lato della frattura. Prendiamo Kurt Vonnegut, che cercando di schivare le umiliazioni dell’etichetta di fantascienza ha apparentemente rinunciato al carburante iconografico che aveva alimentato le sue opere migliori.
Quale potrebbe essere un modello meno prevenuto su cui impostare il rapporto della fantascienza con il più ampio contesto della letteratura? Be’, a nessuno piace essere etichettato come scrittore sperimentale, eppure la scrittura sperimentale prospera in tranquille sacche del panorama letterario – e, per quanto abbia pochi lettori, le è riconosciuto il suo posto. Quando viene rivendicata maggiore attenzione verso questo o quello scrittore sperimentale – Dennis Cooper, diciamo, o Mark Leyner – queste rivendicazioni non vengono respinte con argomenti che sono, letteralmente, categorici.
La fantascienza potrebbe chiedere questo: che i suoi scrittori più ermetici o intransigenti vengano rispettati perché accontentano la loro ristretta platea di appassionati, che i suoi astri nascenti ottengano pari opportunità di comparire sulla scena principale. Un’altra cosa che manca è una teoria dei Grandi Libri per la fantascienza post-anni Settanta, che imponga uno scaffale di Disch, Ballard, Dick, LeGuin, Samuel Delany, Russell Hoban, Joanna Russ, Geoff Ryman, Christopher Priest, David Foster Wallace – oltre a libri come The Heat Death of the Universe di Pamela Zoline, Futuro in trance di Walter Tevis, L’occhio insonne di D.G. Compton, Memories of Amnesia di Lawrence Shainberg, Easy Travel to Other Planets di Ted Mooney, Il racconto dell’ancella di Margaret Atwood, e Dream Science di Thomas Palmer, come modello di riferimento. Una teoria del genere dovrebbe anche gettare nella spazzatura molti dei “classici” del genere, votati all’autocelebrazione ma ormai arcaici.
I lettori di domani, nati in città distopiche, istruiti sui computer e imbevuti di ricorsività mediatiche dell’iconografia della fantascienza, non faranno caso se i romanzi che leggono sono ambientati nel futuro o nel presente. Scaltriti loro stessi, non gli interesserà se alcuni personaggi blaterano in gergo hi-tech e altri no. Alcuni di questi lettori, tuttavia, passeranno gradualmente dalla voglia di romanzi che lusingano e assecondano le loro fantasie a quella brama per i romanzi che provocano, turbano e creano complessità mediante una manipolazione di quelle stesse voglie narrative. Impareranno ad apprezzare la differenza, diciamo, tra Terry McMillan e Toni Morrison, tra Tom Robbins e Thomas Pynchon, tra Roger Zelazny e Samuel Delany – distinzioni sempre troppo ambigue per essere operate nelle categorie degli editori, o sugli scaffali delle librerie.
Naturalmente, in mancanza di una riconfigurazione utopica dell’apparato editoriale, librario e recensorio, la barriera – quantunque sempre più contestata e assurda – resterà dov’è. Tuttavia, possiamo sognare. Il Premio Nebula del 1973 sarebbe dovuto andare a L’arcobaleno della gravità, quello del 1977 a Ratner’s Star di DeLillo. Di lì a poco, il concetto di fantascienza avrebbe dovuto essere delicatamente e amorosamente smantellato, e gli scrittori avrebbero dovuto disperdersi: da una parte i visionari per bambini, da un’altra gli scrittori di thriller con la fissazione delle macchine, da un’altra ancora gli adattatori di film sia reali che immaginari. E, soprattutto, un lacero manipolo di affabulatori speculativi eroicamente resistenti e ambiziosi si sarebbero dovuti imbarcare per gli ardui regni della narrativa che è fuori dalle classifiche e dalle categorie. E là – non svegliatemi adesso, questa mi piace proprio – sarebbero stati i benvenuti.

Jonathan Lethem 
(trovato su minima & moralia) 

lunedì 7 aprile 2014

Marzo 2014



"Le nostre paure sono molto più numerose dei pericoli concreti che corriamo.
Soffriamo molto di più per la nostra immaginazione che per la realtà."

Seneca