giovedì 7 gennaio 2016

Non ci siamo mai baciati

E non abbiamo mai ballato in un campo, sotto la luna le stelle al buio per non vedersi ma solo sentirci quando ci toccavamo o essere bagnati d'argento nell'oscurità quel tanto che bastava per sfiorarci. Non ci siamo mai sdraiati su un prato, dopo aver ballato, per baciarci e baciarci e baciarci e baciarci solo baciarci all'infinito e anche oltre finché l'infinito non fosse diventato una linea tratteggiata da qualche parte, perso in un luogo che non ritrovavamo ma non cercavamo neppure. E non ci siamo mai baciati neppure per un secondo, altro che infinità e tempo che si ferma e non vuol passare; altro che sospensione momentanea dei sogni e della realtà in uno specchio congelato; altro che le nostre lingue a danzare in un nuovo spazio; altro che le braccia a stringerci più forte, più vicini, più stretti. Non ci siamo mai baciati di fronte ad un paesaggio che sapeva di desolazione, macerie di una guerra che aveva fatto solo rovine, palazzi sgretolati e muri rimasti solo per metà eretti. Non ci siamo mai baciati di nascosto o sotto i riflettori, su una astronave aliena mentre guardavamo le galassie danzare in un vortice di luce. Non ci siamo mai baciati al termine di un giorno, quando la notte scivola sul cielo freddo punteggiato di diamanti. Non ci siamo mai baciati sulla sabbia granulosa che attendeva il nostro ritorno dal mare scuro, freddo, di mezzanotte. Non ci siamo mai baciati su una spiaggia, al buio, mentre i rumori lontani delle macchine rendevano sonoro il traffico nelle strade, e le voci sempre più distanti delle persone, i passi delle scarpe sulle passeggiate, la musica delle onde nel rituffarsi in acqua. Non ci siamo mai baciati ad occhi chiusi, ad occhi aperti, ascoltando tutto questo, ascoltando anche altro, e la nostra saliva bagnarci la bocca, renderci umidi, renderci unici. Non ci siamo mai baciati quando la luce nei nostri sguardi si faceva sempre più simile, uguale, identica a quella che nascondevo io sotto le palpebre, a quella che nascondevi tu sotto le ciglia, quando gli altri dicevano che ci stavamo accarezzando con i nostri pensieri e che eravamo vicini non solo fisicamente e che eravamo affiatati accordati che suonavamo perfettamente. Non ci siamo mai baciati quando fuori pioveva. Non ci siamo mai baciati quando non faceva freddo e io sentivo freddo e tu mi misuravi la temperatura con le labbra sulla fronte e mi abbracciavi per riscaldarmi e io stavo già meglio. Non ci siamo mai baciati quando. Non ci siamo. Mai. Baciati.
E ora, adesso, proprio in questo momento, tutti questi baci che non ci siamo rubati, bisbigliano frasi come fossero fantasmi tutto attorno a noi. Spiriti trasparenti che ci tengono svegli. La loro voce è occasione. La loro voce è presente, passato, futuro. La loro voce dice: non vi siete mai baciati.

lunedì 18 maggio 2015

I racconti dell'Ohio

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Nelle strade di periferia del paese, al buio sotto gli alberi, le prendevano la mano e pensava che qualcosa di inespresso che era in lei venisse fuori e si mescolasse con qualcosa di inespresso, che era in loro.

Era uno di quegli uomini in cui la forza creatrice di vita è distribuita e non centralizzata.

Aveva gli occhi castani e da bambino aveva un modo di guardarle cose e le persone, a lungo, senza apparentemente dar segno di veder quello che stava guardando.

Lui non si preoccupa. È uno svitato. Non capisce abbastanza per essere preoccupato.

Se conosceste la campagna intorno a Winesburg, in autunno, quando le basse colline sono spruzzate di gialli e di rossi, capireste il suo stato d’animo.

“L’amore è come il vento che smuove l’erba sotto gli alberi, in una notte scura”, le aveva detto. “Non devi cercare di definire l’amore. È la parte divina della vita. se cercherai di definirlo, di assicurartene e di vivere sotto gli alberi, dove soffiano i dolci venti della notte, il lungo giorno caldo della delusione presto sopraggiungerà e la polvere, sollevata dal passaggio dei carri, inaridirà le labbra infiammate e addolcite dai baci.”

Le ultime parole, quasi, che gli aveva detto suo padre, riguardavano il suo comportamento, una volta giunto in città. “Sii in gamba.”

Sherwood Anderson

lunedì 11 maggio 2015

Versioni di me

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I ricordi accettano fin troppo facilmente la corruzione dei rimpianti.

Ho sempre creduto che se non eri bravo, che diritto avevi a fare arte?

Era attraente in un modo che pareva incompiuto.

Tutti gli errori portano a errori ulteriori: non possiamo fare altro che offrire resoconti plausibili e consequenziali.

Anche lo scherzo più stupido può diventare esilarante se ripetuto con sufficiente puntiglio.

La memoria non risiede nelle date.
La memoria risiede in ciò che noti, ciò che senti, ciò che ti resta impigliato in mente.

Le persone investono eventi esterni qualunque del peso spirituale della propria vita emotiva in modo da provare certe emozioni senza nemmeno doverle comprendere.

In qualche modo, mentre crescevamo, il nostro diritto liberato e irresistibile alla spensieratezza ci era sfuggito di mano.

Nessuno dei due voleva parlare della nostra litigata- è che le nostre litigate consistevano nel mio incazzarmi per qualcosa e nel suo tentativo di placarmi fino a sgonfiare la cosa.

Siamo tutti bravissimi a fingere di essere una famiglia normale, e in qualche modo la nostra finzione collettiva è una gran parte di ciò che ci fa sentire una famiglia. È un autoinganno volontario. O forse a se stessi si può mentire, è un autoinganno, ma se un inganno comprende diverse persone, se condividiamo tutti l’illusione, non è un autoinganno, no? È una famiglia.

Dana Spiotta

venerdì 8 maggio 2015

Hanging tree

She brings her friends so we won't have to be alone
I fear I might lose composure without warning
I am a child of fire, I am a lion
I have desires and I was born inside the sun this morning

This dizzy life of mine keeps hanging me up all the time
This dizzy life is just a hanging tree
This dizzy life of mine keeps hanging me up all the time
This dizzy life is just a hanging tree

They say good evening when they don't know what to say
They say good morning when they wish you would go home
You open windows and you wait for someone warm to come inside
And then freeze to death alone

This dizzy life of mine keeps hanging me up all the time
This dizzy life is just a hanging tree
This dizzy life of mine keeps hanging me up all the time
This dizzy life is just a hanging tree for me

She calls the waitress when it's time for her to go
And I know everyone's eventually leaving
I got a pair of wings for my birthday, baby
And I will fall down through the sun this evening

This dizzy life of mine keeps hanging me up all the time
This dizzy life is just a hanging tree
This dizzy life of mine keeps hanging me up all the time
This dizzy life is just a hanging tree for me
For me, for me, for me, for me
This dizzy life is just a hanging tree for me

Hey, this dizzy life is just a hanging tree for me, f-f-for me
This dizzy life is just a hanging tree for me
For me, for me, for me, for me
This dizzy life is just a hanging tree for me

Performed by Counting Crows

mercoledì 6 maggio 2015

Non scrivere di me


Feltrinelli ha pubblicato il libro Non scrivere di me di Livia Manera Sambuy, giornalista che scrive di letteratura anglo-americana per il Corriere della Sera ed è autrice di due documentari su Philip Roth. Nel libro l’autrice racconta i suoi incontri con scrittori nord americani, fra i quali Philip Roth, Richard Ford, Paula Fox e James Purdy, e il suo rapporto con alcuni dei libri scritti da loro.
Il libro verrà presentato a Milano alla Galleria Antonia Jannone il 6 maggio.
In questo estratto, la prima parte del capitolo sull’incontro fra Livia Manera e David Foster Wallace.
***
Ho incontrato scrittori in tanti posti: luoghi accoglienti come casa loro o casa mia, freddi come gli uffici dei loro agenti, banali come caffè e ristoranti, e bizzarri come – per un’intervista a un autore indiano particolarmente impegnato – un treno che lo stava portando da Salisburgo a Monaco. Ma nessuno mi aveva mai chiesto di trovarci in un McDonald’s. E non un fast food qualunque in una città qualunque: un desolatissimo McDonald’s nella stazione di servizio di un’autostrada, due ore a sud-ovest di Chicago.
Ci voleva uno scrittore torturato come David Foster Wallace per scegliere un luogo tanto ostile. Credo che fosse il suo modo di dirmi: va bene, visto che insiste tanto accetto di incontrarla, ma guardi che lo faccio a malincuore, e non si aspetti niente di piacevole, dovrà accontentarsi di un cartoccio di patatine unte e di una generosa boccata di gas di scarico. Era il luglio del 1999, Foster Wallace aveva trentasette anni e aveva appena pubblicato negli Stati Uniti la raccolta di racconti Brevi interviste con uomini schifosi: quindi, sei anni dopo la clamorosa uscita del suo romanzo fiume Infinite Jest, e nove anni prima che Wallace si suicidasse nella sua casa di Claremont, in California.
A due giorni dall’incontro non avevo ancora trovato un mezzo per raggiungere l’area di servizio nella sterminata pianura dell’Illinois dove Wallace mi aveva dato appuntamento alle sette di sera. Mi trovavo a Chicago grazie a una fellowship dello United States Information Service che mi aveva permesso di viaggiare per un mese e mezzo incontrando persone e organizzazioni che avrebbero completato la mia conoscenza della società americana: un regalo generoso e inatteso che mi aveva portato a Seattle, Atlanta, Anchorage, Washington e ora Chicago, ad affrontare una media di cinque appuntamenti al giorno tra uffici governativi, associazioni di volontariato, organizzazioni non governative e riserve indiane, dove mi aspettavano sindaci, funzionari, attivisti di vario genere, bianchi, neri, inuit e indiani di diverse tribù. Partivo la mattina con la mappa della città davanti agli occhi e arrivavo a sera stremata. Ma mai abbastanza stanca da rinunciare a infilarmi in qualche ristorante affollato a mangiare un boccone, guardandomi intorno per cercare di capire che aria tirasse in quel momento. Ricordo che a Washington avevo scoperto davanti al mio albergo un ristorante frequentato dai lobbisti, dove lo scandalo Lewinsky era ancora l’argomento del giorno. Il ristorante si chiamava The Palm e aveva una forte personalità, con dozzine di coloratissime caricature di politici e uomini e donne d’affari alle pareti, e mobili di noce scuro con tovaglie bianche. Mi piaceva sedermi al banco del bar e fare due chiacchiere con i miei vicini, come la bionda quarantenne in tailleur nero che una sera aveva attaccato bottone cercando di convincermi di quanto spregevole fosse Hillary Clinton, che non aveva chiesto la testa di quel bastardo di Bill su un piatto d’argento. Guardavo il barman in giacca bianca agitare il suo shaker luccicante e servire decine di Martini a signori vestiti di grigio con le guance rubizze, ascoltavo opinioni che non condividevo e mi divertivo.
Tra gli appuntamenti che l’Usis mi aveva organizzato a Chicago ce n’era uno con un’organizzazione non profit che impiegava giovani sotto copertura per investigare casi di corruzione e inefficienza nel governo. L’organizzazione si chiamava Better Government Association e occupava un ufficio relativamente modesto, dove a ricevermi avevo trovato un signore di mezza età in jeans e scarpe da ginnastica su una sedia a rotelle, e accanto a lui un assistente, un ragazzo in giacca e cravatta con l’aria timida del neolaureato che cerca di darsi un aspetto professionale. Il più vecchio si chiamava Bob e il più giovane Dan.
Facevano un lavoro straordinario, quei due. Indagini lunghe e complesse, spesso anche pericolose, che una volta terminate consegnavano gratuitamente alla stampa perché le pubblicasse additando alla giustizia corruttori e malversatori. Per un paio d’ore mi avevano raccontato gli ultimi casi che avevano seguito, poi, visto che si era fatta l’ora di colazione, si erano offerti di ordinare un sandwich da fuori anche per me. A quel punto ci eravamo messi a parlare d’altro e la conversazione era diventata più informale. “Per caso sapete dirmi come potrei arrivare al chilometro 225 della statale N.55, dopodomani, senza spendere una fortuna?” avevo chiesto. Affittare un’automobile era fuori questione, all’epoca non guidavo. Mi avevano guardato un po’ sorpresi. Perché mai dovevo andare in un posto simile? “Devo incontrare uno scrittore che vuole vedermi lì, pare ci sia un’area di servizio,” avevo spiegato. E quando mi avevano chiesto chi fosse questo bizzarro scrittore, avevo risposto che si chiamava David Foster Wallace, e forse lo conoscevano come l’autore di La scopa del sistema, La ragazza con i capelli strani e Infinite Jest, tre libri di narrativa che sembravano molto lontani dal loro universo, ma di cui negli ultimi anni si era parlato parecchio. Bob era rimasto indifferente. Dan invece aveva reagito come a una scossa elettrica. “Ce la porto io con la mia macchina!” aveva detto, e quasi quasi si era messo a implorarmi di dirgli di sì. “Ma sono due ore di viaggio all’andata e due al ritorno,” gli avevo fatto notare. “Posso prendere il pomeriggio libero,” aveva insistito. Per carità: non chiedevo di meglio. E tuttavia non capivo se questo bravo ragazzo con l’aria da secchione fosse vittima di un fenomeno da celebrity culture, o se a spingerlo a offrirsi volontario fosse proprio l’amore per la letteratura. “Foster Wallace è il mio scrittore preferito, è il mio idolo,” aveva aggiunto con lo sguardo emozionato, senza sciogliere il mio dubbio.
Non era stato facile far accettare a Foster Wallace la presenza di un terzo estraneo all’intervista. Sembrava che questo scrittore timidissimo vedesse secondi fini e minacce ovunque. Ogni minimo cambiamento di programma aveva il potere di renderlo inquieto e metterlo in fuga. Ma, alla fine, con la mediazione della sua agente ero riuscita a convincerlo che senza un autista non sarei mai potuta arrivare a quell’area di servizio, e che quell’autista era un suo lettore appassionato, e non potevamo certo lasciarlo ad aspettare nel parcheggio. Così, il pomeriggio dell’appuntamento Dan era venuto a prendermi al mio albergo – stavolta in jeans e maglietta – e ci eravamo messi in viaggio.
Lungo il rettilineo piatto e triste dell’autostrada, tra centinaia di Tir e in una scia di gas che riusciva a scolorire anche il rosso del sole al tramonto, Dan mi aveva raccontato di avere scoperto Foster Wallace all’epoca di Infinite Jest, quel romanzo debordante di energia che malgrado la sua aggressiva prolissità – 1079 pagine – era diventato un cult tra i giovani americani e si stava diffondendo nel resto del mondo. Da come Dan me ne parlava, era chiaro che l’esuberanza visionaria di quel libro su un’America ossessionata dall’intrattenimento, un’America in cui un film ipnotico diventava una potenziale arma terroristica capace di uccidere la gente di piacere, lo aveva entusiasmato tanto da mettere in moto un meccanismo di identificazione culturale che era quasi una febbre. Sapevo già che quel giovane scrittore che sembrava destinato a un ristretto pubblico di intellettuali era diventato un fenomeno popolare, uno per cui la gente si metteva in coda davanti alle librerie. Ma questo non mi impediva di stupirmi di fronte al fatto che le acrobazie postmoderne di Infinite Jest avevano avuto il potere di azzerare la distanza culturale tra un nerd come Dan e un tipo straripante di disordine, intelligenza e autodistruttività come Foster Wallace – uno che diceva di portare una bandana intorno alla testa per paura che gli esplodesse.
Mentre Dan guidava concentrato tra automobili e camion che procedevano alla stessa velocità come giocattoli telecomandati, avevamo parlato dei racconti di La ragazza con i capelli strani. Il primo era talmente disturbante e perverso da avere messo a disagio sia lui che me con la storia di un ragazzo privilegiato che si associa a un gruppo di punk e si diverte a fare giochetti sadici come bruciare le persone o gli animali. Io avevo detto a Dan che tra i racconti di quella raccolta avevo preferito Lyndon, forse per l’intensità con cui Wallace era riuscito a descrivere un Lyndon Johnson volgare e pieno di energia che si trova a gestire il ciclone della morte di Kennedy governando l’America sotto shock con l’aiuto di un ragazzo gay cacciato da Yale in seguito a uno scandalo. Che questo ragazzo e il suo amante nero, alla fine del racconto, si ammalassero di Aids vent’anni prima che la piaga dell’Aids esplodesse tra gli omosessuali a New York, era uno dei modi di Foster Wallace di dire: sono uno scrittore d’avanguardia, e il mio compito è abbattere le convenzioni e le barriere della narrativa per ricostruirla alla mia maniera. Questa maniera rompeva la membrana della sintassi convenzionale per utilizzare acronimi, abbreviazioni, sms, allusioni alla televisione, ai film, ai fumetti, e una prosa discontinua fatta di continue aggiunte, sottrazioni, digressioni e note a margine, che invece di scoraggiare i lettori aveva fatto breccia in centinaia di migliaia di giovani come Dan, che si riconoscevano in quel linguaggio.

In verità non credo che a Dan importasse niente che Foster Wallace avesse preso da John Barth un certo modo di introdurre la voce dell’autore nel racconto, o una certa maniera di mescolare realismo e fabulazione da Richard Brautigan, o il permesso di scrivere frasi lunghissime da Donald Barthelme. Non penso nemmeno che sapesse che aveva assorbito il senso dell’intrigo e del complotto dai romanzi di Don DeLillo, o che aveva amato Thomas Pynchon al punto da arrivare a provare per lui un odio edipico. Ma so che, per paradosso, questo ragazzo mite che mi stava accompagnando, e che assomigliava a centinaia di migliaia di altri ragazzi americani dalle vite convenzionali, ritrovava nello humour grottesco di Foster Wallace l’America in cui si era formato. E riconosceva in questo scrittore ironico, disperato e brillante fino all’implosione, alcune caratteristiche estreme della sua generazione. Normalmente, l’imprevedibilità di questo successo avrebbe dovuto lusingare Foster Wallace. Ma lui era fuori della normalità. “Si vede che gli yuppy leggono,” aveva commentato sarcastico rispondendo alla lettera di un amico che si era congratulato con lui del successo di Infinite Jest. “L’ho sempre saputo di piacere ai nerd,” aveva detto a me dopo aver dato un’occhiata a Dan.
Parlando di libri e delle inchieste della Better Government Association, Dan e io eravamo arrivati alla stazione di servizio con una ventina di minuti di anticipo sull’appuntamento: ma Foster Wallace era già là ad aspettarci con l’aria di uno che non vede l’ora di andarsene. La prima cosa che avevo pensato vedendomelo davanti abbronzato, in bermuda, camicia azzurra, Timberland slacciate e bandana rosa, era stata quanto fosse più attraente di persona che in fotografia, dove di solito aveva un aspetto da orco triste e maleodorante. Non soltanto il ragazzo dalla peluria bionda che avevo davanti aveva un viso gentile con i lineamenti irrisolti da bambino, ma aveva anche un’aria educata e linda. Quando gli avevo chiesto cosa volesse ordinare dal menu che ci guardava illuminato da sopra il banco, mi aveva risposto stupefatto: “Mangiare qui? Non sono mica matto”.
“Ma allora perché ha voluto che ci incontrassimo da McDonald’s?”
“Perché questo McDonald’s è a metà strada tra Chicago e Bloomington. Quando i miei genitori si sono separati, è qui che ci incontravamo. E poi non potevo certo chiederle di venire a Bloomington, perché sapevo che si sarebbe persa e sarebbe stata uccisa e sarebbe stata colpa mia.”
Lo aveva detto senza ironia, con un’aria tristemente angosciata, mentre Dan si offriva di prendere delle bibite e una vaschetta di patatine al banco. E sempre senza sorridere, ma stavolta in modo sprezzante, aveva aggiunto: “Lei dev’essere una persona importante, perché dovevo alla mia agente tre favori: me ne ha abbuonati due, purché facessi quest’intervista”. Gli avevo spiegato che il suo editore italiano aveva un libro da lanciare – Brevi interviste con uomini schifosi, appunto e che era il mio giornale, il “Corriere della Sera”, a essere importante. Ma lui se ne fregava. Gli avevo anche detto che Einaudi aveva già pubblicato la raccolta La ragazza dai capelli strani. E che il libro era piaciuto moltissimo ad alcuni scrittori italiani che conoscevo. “Qualunque cosa abbiano pubblicato, non sono i racconti che ho scritto,” si era innervosito. “Niente contro i traduttori. Solo che quello che scrivo è molto idiomatico, molto americano, e a me sembra intraducibile. Brevi interviste, per esempio, è un libro che non si può assolutamente tradurre.”
“Be’, lo stanno traducendo…”
“Si vede che pubblicheranno una descrizione del libro, che non è il vero libro.”
Aveva lo sguardo talmente teso dietro gli occhiali tondi che veniva spontaneo cercare di farlo sentire a suo agio. “Guardi,” gli avevo spiegato, “io non sono venuta fino a qui per farle un interrogatorio o imbarazzarla. Non ho nessuna domanda insidiosa da porle e non intendo metterla in difficoltà. Vorrei solo parlare insieme di narrativa, la sua, e magari di quella di altri autori che trova interessanti.” Ma se speravo che il mio discorso sortisse un effetto tranquillizzante mi sbagliavo.
“Voi giornalisti siete tutti uguali,” mi aveva apostrofato lui con disprezzo quando avevo estratto un bloc-notes dalla borsa. “Dite di non essere preparati e poi tirate fuori gli appunti.”
Cominciavamo male. Oppure no. Cominciavamo bene. Senza volerlo, avevo toccato un nervo scoperto.
“Perché odia tanto le interviste?”
“Perché una delle ragioni per cui gli scrittori di narrativa diventano scrittori di narrativa è che nulla di veramente importante può essere detto in modo diretto.”
Su questo ero pronta a dargli ragione, ma sapevamo tutti e due che esistevano eccezioni.
“Alcuni scrittori si rifiutano di rispondere e basta,” aveva continuato, con l’aria di dire: ed è esattamente quello che dovrei fare, salire in macchina a tornarmene a casa. “Ma i miei genitori mi hanno educato in un certo modo e quindi non riesco proprio a essere scortese. Solo che poi se rimango qui comincio a preoccuparmi per lei, mi chiedo se riuscirà a tirarne fuori un buon articolo, se pensa che quello che dico funzionerà. Oppure…”
“Oppure?”
“Oppure mi metto a inventare le risposte di sana pianta, perché penso che una bugia potrebbe essere più interessante della verità. Insomma,” aveva sospirato cominciando a sudare, “è troppo stressante.”
Poi mi aveva guardata con gentilezza: “Pensa di fumare una sigaretta? Perché se pensa di fumarla vorrei vederla fumare. Io ho appena smesso”.
Mentre Dan ascoltava in silenzio in fondo al tavolo di fòrmica bianca, ci eravamo messi a parlare di fiction, ma anche quello era un percorso accidentato. Piano piano vedevo che Foster Wallace cominciava a rilassarsi, ma appena abbordavamo un argomento nuovo – la sua ammirazione per William Gaddis, o la fascinazione provata da ragazzino per i libri di Julio Cortázar – si comportava come un ustionato costretto a muoversi in un ambiente pieno di spigoli. Quando avevo menzionato che presto anche Infinite Jest avrebbe avuto un’edizione italiana, mi aveva interrotto con un gesto della mano abbronzata, come per dire: non voglio saperne niente. “A me dicono il meno possibile di quello che fanno i miei editori. Ho un’agente che è quasi una seconda madre, e lei mi dice solo il necessario, perché altrimenti do fuori di matto. La gente mi chiede, hai un mercato in Italia, o in Francia? Ma io non voglio sapere se ho un mercato in Italia o in Francia! Quella editoriale è una torta così piccola, e invece tutti ne parlano come se fosse Hollywood. Che libro scriverai, quanto è grande la tua quota di mercato, hai sentito di quell’editor che è stato licenziato perché i suoi libri non vendevano abbastanza? La gente non la smette mai… A tutti i literary party di questo paese, l’avrà notato anche lei, non si parla d’altro… Tutto questo non ha niente a che vedere con lo scrivere. È solo ego da liceali. È come chiedersi: chi esce con la ragazza più carina? Così almeno era al liceo che ho frequentato io, prima che a scuola iniziassimo a spararci addosso.”
Cominciavo a notare che chiudeva il cerchio di qualunque argomento con una nota acuta o dolorosa, come questa allusione alla strage di Columbine di pochi mesi prima, quando due teenager avevano massacrato a fucilate tredici ragazzini in una scuola del Colorado.
Parlava con un tono pacato, ma rimaneva terribilmente teso. “Non mi dica quello che scriverà o come lo scriverà. Non lo voglio sapere. Lei mi pare una persona affidabile, e ha una faccia gentile. Se comincio a pensare al lavoro che sta facendo, mi metto a cercare di indovinare i suoi pensieri, allora le rispondo in un certo modo… e insomma, la cosa si fa complicata… e alla fine mi viene da urlare, oppure da piangere, tanto è complicata. Mettiamola così: lei è una persona carina che è venuta a mangiare un po’ di patatine con me, e basta.”

Trovato qui: IlPost.it


lunedì 4 maggio 2015

Aprile 2015

"Quello che amiamo di un’altra persona
è la vita che ha dentro;
per questo non dobbiamo mai
cercare di possederla."
Janice Kulyk Keefer

lunedì 27 aprile 2015

L'arte di vivere in difesa

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Il burroso sole della Florida occhieggiava all’orizzonte.

Lo sbalordiva e lo affascinava il fatto che una mente potesse diventare talmente grande da far sembrare profondo ogni suo pensiero.

Per la verità non aveva mai desiderato togliersi la vita, anche se era facile dirlo ora che si sentiva un po’ meglio.

Se nessuno al vedeva, lei inclusa, l’aspetto non aveva nessuna importanza.

Aveva gli occhi bellissimi, si accorse Pella, stranamente luminosi, come l’ambra traslucida che conserva al proprio interno gli insetti preistorici.

Era bello, bellissimo, nel modo in cui potrebbe esserlo il reperto di un vaso Ming.

I sentimenti non hanno niente a che vedere con la razionalità.

Pella avvertì quel triste senso di esclusione che provava sempre alla fine di un viaggio all’estero.

Se un tempo era stata una ragazzina precoce e promiscua, ora di certo non lo era più. Il mondo l’aveva raggiunta e superata.

Schwartz sapeva che le persone amano soffrire, se la sofferenza ha uno scopo. Tutti soffrono. Il segreto sta nello scegliere la forma di sofferenza più congeniale.

Mi chiedevo come ci si sentisse a essere bravi in qualcosa e a sapere di esserlo.

Nella sua esperienza più vicina a un’epifania che avesse mai osato provare, Affenlight comprese quanti modi di vivere esistessero.

Amare qualcuno non implicava talvolta la necessità di spiegarsi.

In fondo sei sempre prigioniero dei tuoi pensieri, e devi farci i conti per forza.

Un minuto prima si sentiva bene, o almeno lo credeva, ora però la possibilità di sbagliare gli era entrata in testa, e il confine tra errore possibile ed errore inevitabile era pericolosamente sottile.

La gente non ti perdonava per aver fatto qualcosa che ti rendeva felice.

Chad Harbach