Eravamo giovani, e quando sei giovane pensi che esistano delle scorciatoie, e che tutto stia nel trovarle.
Ed era proprio questo a terrorizzarmi. Pensare a quei momenti di assoluta consapevolezza, in cui sapevamo che la barca stava andando a fondo, perché lo leggevamo l’uno nel volto dell’altro. Come sarebbe stata quella paura? Tangibile, come un pugno sul visto? O più pacata… quel genere di paura che ci avrebbe messi in ginocchio?
Non lo dissi mai a nessuno, ma era per questo motivo che pensavo che morire sarebbe stata la parte più facile. Chiudevi semplicemente gli occhi, e andavi a dormire.
E, sulla sedia del capitano, mentre fissavo le stelle, mi chiesi perché mai lo facessimo, perché accettassimo di correre un rischio simile. Ma la risposta già la conoscevo. Lo facevamo perché eravamo nati per questo. Perché era l’unico lavoro che sapessimo fare. Perché in esso si celava una semplice verità, che difficilmente si trova in questa vita. Eravamo uomini che uccidevano pesci. Non era nulla di più complicato. E, quando ci pensi in questi termini, riesci a comprendere il senso di libertà che deriva dal nostro mestiere. La libertà di conoscere la tua posizione, di vedere la tua relazione con le cose.
Pronunciai il suo nome a voce alta, perché volevo sentirlo rotolare sulla lingua.
Restammo lì seduti, in silenzio. Poco dopo, Hannah si alzò, prese i piatti e li portò dentro. Io volsi lo sguardo verso il punto in cui il sole cominciava la sua discesa. Il tramonto sarebbe stato magnifico. Il cielo si stava già tingendo di un rosso profondo. Alla mia sinistra c’era la luna, poco più di una traccia ai margini di tutto.
Poi, quando ebbi esaurito i miei aneddoti, Hannah mi disse dolcemente: “Puoi baciarmi, se vuoi.”
Un’altra giornata di sole in una sfilza di giornate di sole.
Era una bella giornata, e avevo il sole e l’acqua per nuotare. Se mi andava, potevo pescare. Non avevo bisogno di fare nulla. Così, pensai, questo è l’amore. Perché avevo il sole e l’acqua e tutto il tempo che l’estate poteva concedermi, e non volevo nessuna di queste cose. Tutto quello che desideravo era Hannah.
Poi Hannah emerse dall’ombra: era in piedi, accanto al punto in cui ero seduto, ma non la guardai. Sentii il cuore diventare più leggero, ma non volevo che lo vedesse, così continuai a osservare la marea.
“Mi dispiace.” Disse.
“Siediti.”
Si mise accanto a me, le gambe incrociate come un’indiana. “Tu non mi metti in imbarazzo.”
“No?”
“No.”
“Non ti credo.”
“Quelle ragazze non sono amiche mie.”
“Non m’importa.”
“La città è piccola, e non mi va che la gente sappia quello che faccio.”
“Non sarei dovuto venire, tutto qui.”
“Mi dispiace.” Ripeté.
“È tutto ok.” E dicevo sul serio. Adesso ero solo felice. Hannah era venuta a cercarmi. Per la prima volta, non ero io a correrle dietro.
Probabilmente tutti noi raggiungiamo un punto, nella nostra vita, in cui la memoria rappresenta tutto ciò a cui possiamo aggrapparci. In un certo senso smettiamo di vivere, tranne che nella nostra mente.
Rotolò lontano da me, perché non potessi vederla in faccia, e io riportai il mio sguardo verso la finestra; adesso, le gocce di pioggia sembravano barre d’argento.
La verità è che, talvolta, abbiamo bisogno che un’altra persona ci insegni a essere vivi.
Mi viene voglia di rispondergli: mi dica qualcosa che non so già. Ma non lo faccio. A che scopo? Abbiamo già avuto di queste discussioni, riguardo alla verità. Il dottor Mitchell pensa che sia un concetto assoluto: una cosa o è vera, o non lo è. Io gli dico che sarebbe bello se il mondo fosse così semplice, ma so che è un’illusione. Spesso, la verità è una questione di prospettiva. È possibile che io, dalla mia posizione, veda le cose in modo diverso da come le vede lui, dalla sua. E questo non rende la mia visione e la mia comprensione della realtà meno valide. Solo differenti.
Avrei voluto dire molto di più. Non avevamo mai litigato, prima. Mai veramente, come adesso. Non volevo che cambiasse nulla, tra noi. C’erano già tante cose nel mondo, fuori da quella stanza, che cospiravano per tenerci lontano, ventiquattr’ore su ventiquattro.
Qualche volta è più semplice smettere di combattere.
Ed era proprio questo a terrorizzarmi. Pensare a quei momenti di assoluta consapevolezza, in cui sapevamo che la barca stava andando a fondo, perché lo leggevamo l’uno nel volto dell’altro. Come sarebbe stata quella paura? Tangibile, come un pugno sul visto? O più pacata… quel genere di paura che ci avrebbe messi in ginocchio?
Non lo dissi mai a nessuno, ma era per questo motivo che pensavo che morire sarebbe stata la parte più facile. Chiudevi semplicemente gli occhi, e andavi a dormire.
E, sulla sedia del capitano, mentre fissavo le stelle, mi chiesi perché mai lo facessimo, perché accettassimo di correre un rischio simile. Ma la risposta già la conoscevo. Lo facevamo perché eravamo nati per questo. Perché era l’unico lavoro che sapessimo fare. Perché in esso si celava una semplice verità, che difficilmente si trova in questa vita. Eravamo uomini che uccidevano pesci. Non era nulla di più complicato. E, quando ci pensi in questi termini, riesci a comprendere il senso di libertà che deriva dal nostro mestiere. La libertà di conoscere la tua posizione, di vedere la tua relazione con le cose.
Pronunciai il suo nome a voce alta, perché volevo sentirlo rotolare sulla lingua.
Restammo lì seduti, in silenzio. Poco dopo, Hannah si alzò, prese i piatti e li portò dentro. Io volsi lo sguardo verso il punto in cui il sole cominciava la sua discesa. Il tramonto sarebbe stato magnifico. Il cielo si stava già tingendo di un rosso profondo. Alla mia sinistra c’era la luna, poco più di una traccia ai margini di tutto.
Poi, quando ebbi esaurito i miei aneddoti, Hannah mi disse dolcemente: “Puoi baciarmi, se vuoi.”
Un’altra giornata di sole in una sfilza di giornate di sole.
Era una bella giornata, e avevo il sole e l’acqua per nuotare. Se mi andava, potevo pescare. Non avevo bisogno di fare nulla. Così, pensai, questo è l’amore. Perché avevo il sole e l’acqua e tutto il tempo che l’estate poteva concedermi, e non volevo nessuna di queste cose. Tutto quello che desideravo era Hannah.
Poi Hannah emerse dall’ombra: era in piedi, accanto al punto in cui ero seduto, ma non la guardai. Sentii il cuore diventare più leggero, ma non volevo che lo vedesse, così continuai a osservare la marea.
“Mi dispiace.” Disse.
“Siediti.”
Si mise accanto a me, le gambe incrociate come un’indiana. “Tu non mi metti in imbarazzo.”
“No?”
“No.”
“Non ti credo.”
“Quelle ragazze non sono amiche mie.”
“Non m’importa.”
“La città è piccola, e non mi va che la gente sappia quello che faccio.”
“Non sarei dovuto venire, tutto qui.”
“Mi dispiace.” Ripeté.
“È tutto ok.” E dicevo sul serio. Adesso ero solo felice. Hannah era venuta a cercarmi. Per la prima volta, non ero io a correrle dietro.
Probabilmente tutti noi raggiungiamo un punto, nella nostra vita, in cui la memoria rappresenta tutto ciò a cui possiamo aggrapparci. In un certo senso smettiamo di vivere, tranne che nella nostra mente.
Rotolò lontano da me, perché non potessi vederla in faccia, e io riportai il mio sguardo verso la finestra; adesso, le gocce di pioggia sembravano barre d’argento.
La verità è che, talvolta, abbiamo bisogno che un’altra persona ci insegni a essere vivi.
Mi viene voglia di rispondergli: mi dica qualcosa che non so già. Ma non lo faccio. A che scopo? Abbiamo già avuto di queste discussioni, riguardo alla verità. Il dottor Mitchell pensa che sia un concetto assoluto: una cosa o è vera, o non lo è. Io gli dico che sarebbe bello se il mondo fosse così semplice, ma so che è un’illusione. Spesso, la verità è una questione di prospettiva. È possibile che io, dalla mia posizione, veda le cose in modo diverso da come le vede lui, dalla sua. E questo non rende la mia visione e la mia comprensione della realtà meno valide. Solo differenti.
Avrei voluto dire molto di più. Non avevamo mai litigato, prima. Mai veramente, come adesso. Non volevo che cambiasse nulla, tra noi. C’erano già tante cose nel mondo, fuori da quella stanza, che cospiravano per tenerci lontano, ventiquattr’ore su ventiquattro.
Qualche volta è più semplice smettere di combattere.
Thomas Christopher Green
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