venerdì 27 agosto 2010

Young Adult Friction

between the stacks in the library
not like anyone stopped to see
we came they went, our bodies spent
among the dust and the microfiche

dark winters wear you down
up again to see the dawn
in your worn sweatshirt
and your mother’s old skirt
it’s enough to turn my studies down

now that you feel, you say it’s not real
i never thought i would come of age
let alone on a moldy page
you put your back to the spines
and you said it was fine
if there’s nothing really left to say

you’re taking toffee with your vicodin
something sweet to forget about him
if you go your own way i will go my own way
and we’ll never speak of it again

don’t check me out!

Performed by The Pains Of Being Pure At Heart

martedì 24 agosto 2010

Carne e Sangue

More about Carne e sangue

"Giusto, " dice sua madre, così sottovoce che quasi non la si sentiva. "Bella cosa da insegnargli. Oh, bellissima."
Era passata alla sua voce sottile. Quando vi ricorreva, sembrava si rivolgesse a qualcuno che stava dentro di lei, un amico invisibile e altrettanto convinto che il mondo fosse lungo e largo, ma alla lunga troppo spossante perché qualcuno potesse viverci.

I ginocchi di suo padre davano un'idea della loro nodosa complessità attraverso i sottili calzoni grigi.

C'erano i suoi utensili appesi in ordine perfetto, a un pannello bianco. C'erano la sua falciatrice, la sua morsa, e le sue viti e i suoi chiodi in vasetti con le loro etichette.

C'era stata una lite. Poté sentirne il peso entrando dalla porta laterale.

Portava sfortuna volere troppo.

"[...] secondo me divertirsi è sempre una gran bella cosa, non trovi?"
"Non mi sembra che qui attorno ci sia qualcuno che si diverte," disse Susan. "Penso piuttosto che abbiamo imparato a fare un mucchio di rumore e a chiamarlo divertimento."

Un'anima rara e antica," disse l'uomo in tono meditativo. "Ho dovuto fermarmi per dirtelo. Non dovresti bere caffè, eccita il corpo ma uccide lo spirito. Il caffè ha una luce arancione che ti scoppietta addosso dappertutto."
Billy annuì. Sapeva che l'uomo era ridicolo, forse anche pericoloso, ma per ora non voleva che se ne andasse. Lo stava guardando con una così palese riverenza.
"A me piace l'arancione," disse Billy sorseggiando il suo caffè.
"Già, la giovinezza," disse l'uomo. "Bruciala e durerà per sempre. Ero così anch'io. Mi chiamo Cody."
"E' una tua abitudine rivolgere la parola agli estranei?"
"Non a tutti. Vedo in te qualcosa che riconosco, come vedo la luce che stai spegnendo. Arancione, ma con uno strato esterno del blu più bello e più puro. Come il colore della fiamma su una stufa a gas."

"Io vengo da Marte, bambino," disse Cody. I suoi occhi erano screziati di verde.

"Io voglio essere vecchio," disse. "E non vedo che cosa ci sia di male nell'essere furbi."
"Veleno," disse Cody. "Arguzia e furbizia ti fanno più male che trenta tazze di caffè. E' come circondarsi di elettricità statica."

Sentì una goccia d'umidità sul labbro inferiore.

Viveva in una lenta e massiccia confusione al centro di un suo caos personale di sbagli e di speranze.

La sorpendeva la sua capacità di correre di nascosto a Norwalk per vedere Joel pur continuando ad amare Todd. Aveva immaginato che le possibilità d'affetto fossero limitate. Aveva creduto che, se si fossero concentrate delle energie affettive su un'altra persona, se ne sarebbe dovuta sottrarre una quantità equivalente a quella che già si amava. Ma il suo amore per Todd rimaneva costante; a volte sembrava perfino cresciuto.

"Levon," disse, e fu contenta che lui non rispondesse. Cosa voleva dirgli? Che lo amava al punto che avrebbe voluto smontarlo, organo dopo organo, e conservare ogni parte con riverenza mentre sorgeva il sole sopra i caseggiati.

Voleva ciò che lui non poteva darle. La sua infanzia, le sue paure. Le sue spiegazioni. Non che fosse sgarbato, ma viveva in un suo mondo. E lei poteva impararne le regole solo violandole. Nel mondo di Levon i complimenti erano insulti e le storie bugie.

C'erano onde intricate d'amore e di odio, un sordo e complesso ronzio.

Zoe aveva la febbre quando arrivarono a casa. Per un po' le era passata, ed era stata una donna in una stanza che beveva una camomilla, guardava cadere la neve oltre la finestra, aspettava il ritorno del figlio. Poi la febbre tornò a divampare, e lei vi era dentro, era soltanto caldo e nausea e strani sfigolanti pensieri che volevano tramutarsi in sogni. La nausea era come una droga, ma con bordi più affilati, con una cattiveria particolare, e Zoe si batteva per mantenere l'ordine, un andamento normale in una stanza nella neve. Era New York ed era gennaio.

Quando Magda entrò, Ben vide sua madre spostare lo sguardo dal pomodoro a lei e capì che tutto era la causa di ogni altra cosa, attraverso linee invisibili di colpa ed effetto. Magda era in un certo senso la colpa del pomodoro.

"Se ti dessi il mio numero di telefono, lo ricorderesti?"
"Certo."
"No che non lo ricorderai. Andiamo subito da me."
"Ti sembra una buona idea?"
"No. Ma andiamoci lo stesso."

Non avevano niente d'insolito da dirsi. C'era il senso di un'occasione fatta dei materiali più semplici, e i secondi che passavano erano altrettante aperture.

Disse: "Non ho avuto il coraggio di fare il musicista." Le pareti del ristorante erano decorate da vecchi manifesti di transatlantici ch enon navigavano più da trent'anni.
Will disse: "Ci vuole coraggio anche per fare il medico."
"Non proprio. Non dello stesso genere. Una volta che hai cominciato, vai avanti per forza d'inerzia, sullo slancio. Ci vuol molto più coraggio a smettere che a continuare."

Una volta sulla Second Avenue, vedendo una cieca che camminava verso di lei disse a se stessa: "Se mi supera a sinistra, starò meglio. Se mi supera a destra starò peggio." Quando la donna voltò per entrare in un negozio, Zoe si sentì prima benedetta e poi maledetta. Anche ammesso che auspici e presagi esistessero, si rese conto di non saperli interpretare.

Quando cominciavano ad ammalarsi, gli occhi conservavano ancora le loro liquide profondità

Ci fu solo un brutto momento con Zoe quando, un pomeriggio di settembre, lei staccò un pomodoro maturo da un viticcio.
"Bello, no?" Accovacciata nella plvere, lo tenne a coppa nel palmo, stringendoselo al seno come un uccellino.
"Una volta odiavi i pomodori," disse Constantine.
"Sono cresciuta."
"Già. Ne stanno maturando di belli qui." S'inginocchiò accanto alla figlia. Lei indossava un paio di jeans troppo larghi e una vecchia T-shirt a strisce cui aveva tagliato le maniche in modo approssimativo, proprio quel genere d'indumenti che lui non sopportava di vederle addosso, ma in quel momento era bellissima, come se ogni secondo della sua vita, ogni occasione in cui gli era mai capitato di vederla, avessero condotto a questo, a Zoe inginocchiata pallida e serena in questo orto a settembre, con l'Atlantico che sciabordava poco distante e un pomodoro maturo in mano.

Jamal viveva in lui. Ben pensò ai suoi occhi e alle sue labbra, al crepitio dei suoi capelli. Ogni volta che pensava a Jamal provava una sensazione abbietta, opprimente, che non assomigliava a nulla che avesse mai conosciuto, un apalla umida e rovente di sentimenti, impenetrabile, che sprigionava paura e speranza e vergogna pur non contenendo in sé nulla di tutto questo. Ruotava spessa nel suo ventre. Lo spaventava. Non era amore, non quello che aveva immaginato fosse l'amore.

Era una giornata mortalmente calma, soffocante come un respiro trattenuto

Zoe capì di aver raggiunto un equilibrio. Era qui, proprio in questo momento: il cuore dell'estate. Da mesi, le forze della maturazione e del deterioramento si erano mosse insieme in questa direzione: una quiete sconfinata, una sonnecchiante profondità azzurra e oro ch enon comportava né cambiamenti né contraddizioni.

Cassandra disse: "Non voglio dirti quante ore passo a vestirmi da donna. Tra l'andare a far spese e, be', gli altri modi di procurarmi il necessario, e truccarmi e sistemarmi i capelli, e mettere insieme tutto quanto. Me ne sto seduta nel mio appartamento per ore, e poi, finalmente, ta-ta, eccomi pronta. Non mi hai mai vista al meglio, posso essere splendida. O potevo esserlo, nei miei anni migliori. Una volta avvolsi una parrucca intorno a una gabbia d'uccelli e andai fuori con un canarino vivo sulla testa, era un omaggio a Madame de Pompadour. E, sai, c'è sempre un momento, quando ho finito di sistemarmi e sono andata anche oltre le mie aspettative, e mi trovo sola nel mio appartamento, be', c'è sempre un momento in cui mi sento incredibilmente bella. E naturalmente ho una voglia pazza di uscire di lì e di mettermi in mostra, perché è proprio questo il punto, immagina come sarebbe deprimente mettersi addosso tutta quella roba, stasene davanti allo specchio e poi togliersi tutto e andare a letto.

E' questo che fanno i vivi, dice a se stesso. Noi sbrighiamo le piccole commissioni e visitiamo le lapidi.

Michael Cunningham

lunedì 23 agosto 2010

Rick Moody e la scrittura antipanico

Ho l'impressione che spesso - forse un troppo spesso - tendiamo a dimenticarci che uno scrittore, per quanto famoso e celebrato, è e resta un essere umano. Il problema è che a volte sono gli stessi scrittori a dimenticarselo. Ma questo, ovviamente, vale un po' per tutti. Poi succede che trovi un autore - uno che il New Yorker ha inserito tra i più significativi degli ultimi anni - felice di presentare il suo ultimo libro in un circolo Arci alla periferia di Milano, felice per quelle quaranta persone che, pur di sentirlo parlare, hanno sfidato la pioggia e il traffico all'ora di punta in un giorno feriale, quelle quaranta persone che fanno domande anche oltre il termine della presentazione e lui se sta lì, a chiacchierare amabilmente con ognuno. Be', trovi uno scrittore così e finisce che quasi ti stupisci. Ed è strano, no?
Questo accadeva un anno fa, e tra quelli che hanno provato a incrociare due parole in inglese con il suddetto scrittore c'ero anche io. Da quell'incontro fugace con Rick Moody (autore, tra l'altro, di La più lucente corona d'angeli in cielo) nasce, in qualche modo, l'intervista inedita che trovate qui sotto.

Perché scrivi? Da dove arrivano le tue storie?
Oh, la so! Domanda facile. Ho risposto a questa domanda (“perché scrivi?”) in molti modi diversi nel corso degli anni, e di solito la risposta era una cosa tipo: “Perché mi faccio prendere dal panico”. Dato che mi faccio prendere dal panico, scrivo per dare un senso alle cose che mi gettano nel panico, e per cercare di descriverle, e per ri-ordinare il mondo in modo che mi provochi un po' mendo d'ansia. Tuttavia, oggi, direi che questa è un po' un'esagerazione. Può essere che abbia iniziato a scrivere a causa del panico, ma ora vado meno nel panico e forse scrivo perché amo farlo, anche se è difficile e opprimente, in genere. A questo punto, molte delle cose da fare sono automatizzate. Non devo neanche mettere molti pensieri nelle idee. Le idee mi arrivano spontaneamente e io permetto al mio subconscio, o al mio preconscio, di fare la maggior parte del lavoro. La parte che mi viene lasciata è quella della prosa, la parte musicale, ed è quella che mi piace davvero. Mi piace pensare a come migliorare un paragrafo. Tutto questo per dire, quindi, che se sapessi davvero da dove arriva l'opera non sarebbe un grande mistero. E se non fosse in qualche modo un mistero, non sarebbe così piacevole. Almeno, in questo periodo è così che la vedo.

Qual è la responsabilità di uno scrittore nei confronti del lettore?
Non penso più di tanto a questa domanda. Don DeLillo, per esempio, ha detto che non pensa di avere un lettore ideale, ma una serie di modelli. Io penso che una serie di modelli sia qualcosa verso cui dovresti sentirti responsabile, mentre componi. Ma la mia idea di lettore è che lui abbia voglia di andare in qualsiasi posto mi senta di andare io, in qualsiasi direzione stia bene a me in un dato momento, sia essa la direzione del sacro o del profano. Questo significa chiedere molto al lettore, ma da lettore questo è il tipo di lavori che amo. Se Dostoevsky, per esempio, si fosse preoccupato di quanto fosse cupo I fratelli Karamazov mentre lo stava componendo (“Gesù, questa cosa è davvero cupa, e questi personaggi vogliono speranza, e tutto questo disgusterà un sacco di lettori”), noi non avremmo il romanzo. Una domanda migliore sarebbe questa: “Qual è l'irresponsabilità dello scrittore verso il lettore?”. E io risponderei: “Una grossa irresponsabilità”.

Un nostro autore, Giorgio Fontana, nel suo Babele 56 a un certo punto chiede al lettore e a se stesso: “La parola salva o condanna?”. Cosa ne pensi?
Questa è una sorta di contrapposizione religiosa, e dato che io non sono immune dalle consolazioni della religione, amo la poesia che contiene. Ad ogni modo, non penso che queste siano le uniche possibilità per “la parola”. Umberto Eco ha scritto un grande saggio a proposito del linguaggio nel Giardino dell’Eden, nel quale sostiene che il linguaggio non sarebbe mai esistito se Eva non avesse mangiato la mela, dando così un senso all’ordine di non mangiarla. Cioè, non hai bisogno del linguaggio finché non ti manca qualcosa, finché non sei incompleto e ti riconosci come tale. Sono affamato, sono solo, quella mandria di bufali indiani può travolgerci ecc. Il linguaggio articola questo desiderio, e articola i problemi associati a questo desiderio. Anche nei casi più complessi, è fondamentalmente un motore per la risoluzione del conflitto. Di conseguenza, se la parola condanni o salvi è una stratificazione di questa capacità programmatica piuttosto semplice. Secondo me c'è una tendenza della “parola” a non funzionare correttamente. Cioè, nel linguaggio c'è una percentuale di fallimento. Non ho le cifre esatte davanti a me questa mattina (sono le 5.41), ma possiamo dire che il linguaggio ha un tasso di fallimento del venti per cento. Questo significa che il linguaggio salva quattro volte su cinque e che condanna in tutti gli altri casi. Che fare di questa tendenza perché salvi e condanni allo stesso tempo? Forse l'unica conclusione logica è quella di arrivare a una contrapposizione migliore e più efficiente. La parola trasmette un significato? O è puramente decorativa?

Quando ci siamo incontrati in Italia, alcuni mesi fa, ti ho chiesto quale fosse, secondo te, il tuo miglior libro, e tu mi hai risposto una cosa tipo: “Credo che nessuno dei miei libri sia buono”, e che odiavi tutto quello che avevi scritto. Credi davvero che un bravo scrittore non possa essere soddisfatto dalla sua scrittura? Perché?
Dire che non sono soddisfatto di nessuno dei miei libri è un po' una vanteria. Odiarli lo è ancora di più. Non voglio che suoni così. Ma se hai una serie di modelli, devi essere onesto circa la tua incapacità di raggiungere il livello di quei modelli. Credo che Racconti di demonologia sia ok, e che Rosso americano sia abbastanza buono, e ci sono dei passaggi in Il velo nero che mi piacciono ancora, e il racconto “Albertine” (contenuto nella raccolta Tre vite, ndr) ha una purezza di cui sono sicuro e di cui ancora godo, le rare volte in cui la incontro. Ma se avessi scritto un libro perfetto probabilmente riterrei davvero difficile scriverne un altro altrettanto buono, e proverei, di nuovo, quel senso di panico che mi ha spinto a scrivere all'inizio.

Di cosa parlerà il tuo prossimo libro? A cosa stai lavorando in questo periodo?
Sto lavorando a un nuovo romanzo, provvisoriamente intitolato Le quattro dita della morte, ed è una sorte di folle ripresa per libera associazione di un vecchio film horror dei primi Anni 60, “The crawling hand” (La mano strisciante, ndr). Dentro c'è di tutto e anche di più, ed è ambientato principalmente nel deserto a sudovest degli Stati Uniti (e del Messico). Sto lavorando anche su alcuni saggi sulla musica contemporanea, e probabilmente quando avrò finito pubblicherò un volume con tre saggi, se il mio editore non mi sbatterà fuori dalla stanza ridendomi dietro.


Davide Musso [24 giugno 2009] su Le parole necessarie

venerdì 13 agosto 2010

Cera

un venerdì notte o era l’alba, non so
mi si avvicina questa specie di strega
o il fantasma di lei, qualche secolo fa
bruciata davanti a schiere di buffoni
ha una proposta allettante da farmi
non chiede, non vende, m’offre la sua merce
arrivano a frotte, fin troppo sicure
truccate e vistose si appoggiano al muro
rifiutarle è difficile, mi faranno impazzire
accettare è tortura, se desideri solo far loro del male
“dai, scegline una, non costa, è carina
vedrai se è poi vuota, dentro, veramente
son di cartapesta, di plastica, ghiaccio
ma in serbo per te ho una sorpresa di cera”
sorride, sorride, sorride serena
annebbiata da cose che non riesco a intuire
per gioco, per noia, per rabbia perversa
d’un tratto l’alcova, ma solo nella mia testa
per darla alle fiamme diventa un altare
è cera e vedrò se è vuota veramente
vedrò se è poi vuota, dentro, veramente
“signora, e se poi griderà?
che dovrei fare io, non fosse finta?”
“è tardi, ormai un po’ tardi, ma non disperare
domani non avrai cenere da buttare
non esser crudele mia cara cliente
in fondo non hai cenere da smaltire
e per mezzora, senza chieder nulla
io ti avrò persino fatta divertire”

Performed by Simona Gretchen

martedì 10 agosto 2010

Songs for lovers

è difficile cantare una canzone per gli innamorati, perché loro sono sempre così distratti e incuranti. le parole per esempio non contano, perché di parole loro possono anche fare a meno. guardarsi negli occhi e sfiorarsi, farsi male sognando il bene, ecco cosa conta per loro, a cosa le loro orecchie prestano la sola ed unica attenzione. le note, queste cose distorte o ben suonate: sono orpelli da schivare, qualcosa che non ha il senso di esistere. è inutile fermarsi a studiare arpeggi o rime, baciate o meno, schivate oppure sputate: loro non le sentano neppure.
è difficile cantare una canzone per gli innamorati, cucinare un pranzo, lavarli per bene passando il sapone su tutte le parti del loro corpo, perché loro non sono persone normali ma hanno quattro braccia, tre polmoni; vertebre infinite che arrivano fino al tramonto e anche oltre, strade asfaltate dipinte sul ventre, e ventri che si attorcigliano gli uni sugli altri; gambe lunghe chilometri, con tornanti e viali di circonvallazione attorno tutta quanta la testa. gli innamorati non hanno un prezzo, un costo: hanno l'aria da respirare e da ricacciare fuori non come anidride carbonica ma come vapore cristallino di piccole schegge di sogni. sono persi nei loro mondi, gli innamorati, chiusi dietro porte che gli altri non riescono a capire, che non vedono neppure. si spogliano, si sdraiano, gli innamorati, si intrecciano non solo le mani nelle mani, ma le gambe le braccia, si uniscono sporchi di quello che la loro volontà spinge loro a fare.
è difficile cantare una canzone per gli innamorati, con tutte quelle milioni di parole possibili che grondano glassa dalle loro bocche, così zuccherose, e il miele colante tra le dita che appiccica ogni frase a quello stupido concetto di romanticismo ridicolo. guarda la luna, sogna la luna; prendo un lazzo e la catturo tirandola giù dal cielo. mi sento così scemo da poter partecipare ad un rodeo della stupidità, con altri mille concorrente tutti quanti vestiti da cretini, tutti quanti agghindati uguali a me. ti vorrei credere amore, ma quando sono così sono fatto di te e di tutte quelle sostanze che mi pompano nelle viscere la volgarità di parole vuote, cave, circoncise con un tagli netto e crudo.
è difficile cantare una canzone per gli innamorati, perché anche nel silenzio loro ballano male, vanno fuori tempo anche se non c'è musica. si muovono lenti, sbagliando i passi, camminano seguendo le luci illuminate sul pavimento o sul marciapiede, con la testa per aria, scrutano il cielo, pestando merde, stringendo la mano a merde, salutando merde, diventando merde, con la testa tra le nuvole, alla ricerca di stelle cadenti da poter sfruttare, da cui spremere il succo di un desiderio scialbo e infantile.
è difficile cantare una canzone per gli innamorati: qualsiasi cosa tu dica o faccia per loro non ha importanza. e non cambierà di una virgola la loro ovattata visione del mondo, perché il mondo per loro è rosa e non c'è altra tinta che possa importare, se non la luce dei loro occhi e altre stronzate del genere.

lunedì 9 agosto 2010

Sono voci sono stelle, né troppo buone né troppo belle

e non mi pento e non mi dolgo, né con il cuore né con la pancia. mi stendo ti stendo perché so di trovare non la verità o la presunta tale, quanto piuttosto la colpa vestita da fata, vestita di seta, vestita di sete: la mia che mi secca la bocca le labbra il naso che respira a fatica, l'aria porosa priva di ossigeno ricca di idrogeno, liquido o fuso, disperso confuso tra tutti i pensieri pensati così male così distorti già morti da credere nel reale regale tuo solido sorriso fasullo. non rispondi, mi sfondi, mi lanci profondo per lasciarmi sempre più in fondo, esausto, spirato, ed io sprofondo nell'acqua nel vino nella birra in casa per strada per caso, hai visto passare la mia testa la mia guancia la mia fetta di culo lustrata a dovere?
il dubbio rimane, permane, mi prende per mano e mi accompagna a passeggio. si siede distratto su panchine di legno, mi legge la storia, la storia infinita, il nulla che avanza, che è troppo che stroppia che scoppia in fragori bagliori di ricchi signori. l'esultanza soave di chi si è detto finito, completo, di chi alla fine dei conti delle giostre e delle fiere ha capito: capito di non cadere se non in piedi a quattro zampe rotte piegate male e stanche. chi ha capito alla fine distrutto, bollito, che la fine non è tanto la cosa più importante quanto piuttosto la carne la fame che è sempre più distante, lontana nello spazio immenso tra due dita vicine: il pollice e l'indice piegati quel tanto che basta per mostrare ai mostri i mostruosi risvolti, le coperte scoperte non stirate dal giorno alla notte; le botte e i lividi picchiati duri nei tuoi "giuri e spergiuri, sempre e comunque. non so più bene quale sia il bene ed il male, il bianco e la luce diversi dal nero e dall'ombra. non capisco quando menti o fingi o incroci le dita; non riesco a tradurti, ad indurti, condurti in peccato, liberati dal male, come in cielo e così in terra, darti oggi come ieri il nostro pane quotidiano." cerchi le soluzioni, le scorciatoie dei labirinti mentali, seriali, di seghe più seghe mai finite ma non finte.
è questo che conta? che lagna, che bagna, che guadagna terreno passato, crepato quanto morto nell'orto di casa, sepolto dietro un pino, sotto una pianta di pomodori non ancora maturi, verdi fritti alla fermata del treno. è il tempo che è tornato sereno o è la voce alta impregnata di veleno?
dimmelo tu, che questa cosa l'hai capita, a quanto pare. perché di tutti gli antidoti provati e vomitati non ce n'è stato uno di uno, nessuno, che abbia anche solo fatto finta di funzionare. leali se ne sono andati tutti quanti, via via nel cesso tirato con la cordicella con l'acqua, e mi hanno lasciato spossato, disidratato, disastrato, ancora morente e allo stesso tempo impaziente.
mi ripeto mi spreco, ogni giorno che passa. non conto più le volte che ti ho detto, ridetto, ripetuto, perduto, tra le parole le frasi le gambe le fasi, le sensazioni slegate slabbrate di labbra baciate, come fiocchi di nodi di petali o funghi, di lacci di scarpe calzate a dovere e scalzate con i pugni, violenti e febbrili, dettati dalla fretta, la furia, la bramosia tutta, di sdraiare i sospiri, distenderli bene, metterli a letto con uno sguardo ad effetto, salutarli beati, battuti sconfitti, spegnere la luce della camera e lasciarli: dormire, sognare, soffrire. da soli saranno più bravi, cresceranno violenti ma cresceranno distanti.

venerdì 6 agosto 2010

Heaven Can Wait



She's sliding, she's sliding
down to the dregs of the world
She's fighting, she's fighting
the urge to make sand of pearls

Heaven can wait
and hell's too far to go
somewhere between what you need
and what you know
And they are trying to drive
the escalator into the ground

She's hiding, she's hiding
on a battleship of baggage and bones
There's thunder, there's lightning
and an avalanche of faces you know.


Heaven can wait
and hell's too far to go
somewhere between what you need
and what you know
And they are trying to drive
the escalator into the ground

And you left your credentials
in a Greyhound station
with a first aid kit and a flashlight
going to a desert unknown

Heaven can wait
and hell's too far to go
somewhere between what you need
and you know
And they are trying to drive
the escalator into the ground

Performed by Charlotte Gainsbourg

giovedì 5 agosto 2010

Singolare e plurale

dici di non riuscire a capire. i desideri semplici, dici, non dovrebbero essere inconciliabili. questo dici.
io ti rispondo che sbagli già in partenza. non te lo dico ma in pratica lo faccio, sottintendendo tutta quanta la prima parte del mio discorso: ovvero che sbagli, sbagli già dai primi passi, ed è inevitabile poi tu cada. non inciampi tanto nei desideri semplici, quanto piuttosto nella convinzione iniziale. perché, ti rispondo io, semplicemente, chiaro come il cielo terso di una giornata serena d'estate, non esistono desideri semplici. esistono desideri, ma questi alla fine non sono mai semplici.
tu però giuri e spergiuri di averli visti, quasi fossero unicorni o chimere avvistante in una radura aperta tra gli alberi in mezzo ad una finestra.
voglio le prove, ti chiedo io. lo sai, non mi fido. sono come san tommaso. troppo spesso i sogni si possono confondere con la realtà, muri eretti per fermare bufere o piogge o pianti da una parte diventano facilmente fuscelli, cartapesta appesa tra una stanza e l'altra quando si aprono gli occhi e si abbandona l'onirico.
cosa? sei confusa. questo non c'era nel copione. quasi sorridi, indecisa se prendere sul serio questa mia improvvisa virata o prenderla come una semplice presa in giro.
no, ti tranquillizzo io. non c'era nel copione. ma quello che voglio dire, con questo slancio di improvvisazione, senza starci troppo a pensare perché altrimenti i pensieri diventano vecchi ancora prima di nascere e sai che tristezza assoluta questo sarebbe; quello che voglio dire è che i desideri non sono mai semplici, proprio perché sono desideri.
voglio andare in collina, mi fermi te. con voce sicura, ferma, che non ammette repliche. desidero andare in collina. è un desiderio semplice, basta prendere l'automobile e in un paio d'ore sarei lì. questo è un desiderio semplice.
mi guardi, convinta di avermi messo alle corde, ed aspetti una mai resa. mi dispiace.
a parte, dico io, che bisognerebbe capire quale altro desiderio questo desiderio nasconde.
nessuno, solo questo: la collina.
ma una collina è grande, sai quante cose può nascondere se vuole. questo però non te lo dico.
a parte questo, riprendo a voce, stai parlando di un desiderio, questo si, è semplice, ma stai parlando di un solo desiderio, non di desideri. non lo metto in dubbio, il singolo desiderio preso di per sé può essere semplice, questo è vero; ma è quando si inizia ad accumularli, a parlarne al plurale che inevitabilmente diventano complicati. sono un po' come dei gomitoli di lana buttati dentro una scatola, i desideri. ogni gomitolo un filo, un desiderio, appallottolato in ordine su se stesso; ma quando poi dentro la scatola si iniziano a buttare altri gomitoli, di colori diversi, di desideri diversi, l'ordine va a farsi benedire, come si direbbe dalle mie parti. i fili si ingarbugliano tra di loro, si legano e si intrecciano, formano nodi, arcobaleni così intricati che separarne tutto quanto lo spettro del visibile diventa assai arduo. per questo bisogna sempre fare attenzione, distinguere bene tra desideri e desiderio, perché anche se può sembrare strano sono due animali del tutto diversi, come può essere l'uomo, o anche una persona, presa in solitario e poi calata nel sociale.
da un certo punto di vista, continuo senza darti modo di parlare, mi piacerebbe poterti augurare di avere sempre e solo un singolo desiderio, un solo gomitolo di lana dentro la scatola, in modo da poterne prendere la natura vera di quel desiderio: quando è semplice è semplice, quando è complicato, pace. ma non è possibile, e questo è anche un bene. di desideri ce ne sono sempre tanti, dentro la testa, dentro la scatola, anche se poi non te accorgi. non ti augurerei di avere solo un desiderio alla volta, perché i desideri sono ciò che poi alla fine ti spingono, e più ne hai e meglio è, anche se poi tutti insieme appassionatamente diventano inevitabilmente difficili. avere tanti desideri significa vedere il mondo a colori, averne uno solo ti fa avere la vista monocromatica.
bisogna imparare a prendere un filo e a cercare di districarlo via da tutti gli altri, per quanto difficile questo sia. da quale partiamo? ti chiedo.
dal verde.
andiamo in collina. e ti prendo per mano.

mercoledì 4 agosto 2010

Ballando su un vulcano

questo valzer che danziamo da ubriachi, con passi maldestri a schiacciarci i piedi a vicenda, pare diventare di giorno in giorno sempre lo stesso identico modo, vecchio e bolso, di calpestare e spingere sempre più a fondo il vulcano sopra il quale giriamo. davvero crediamo speriamo preghiamo che un’eruzione, seppur sotterranea oltre la crosta del mondo, non ci spazzerebbe via bruciandoci tra i vapori dello scoppio?
i primi ad andarsene sarebbero i piedi, penso. scomparirebbero mentre ci suggeriscano di scappare, di andarsene il più veloce possibile il più lontano possibile. ma come raggiungere questo posto a riparo da qualsiasi pericolo quando non avremmo più i piedi per camminarci sopra?
subito dopo ci abbandonerebbero le caviglie. piedi e caviglie sono fratelli sorelle, sono gemelli e dove vanno gli uni ci vanno anche le altre. non è possibile separarli, neppure alla nascita. hanno questo legame, che è stretto di tendini, il malleolo, tutta quanta l'articolazione, che è talmente difficile da sciogliere. è inutile anche solo provarci. quando i piedi evaporerebbero bruciati, la seconda parte di noi ad andarsene sarebbero le caviglie.
dopo caviglie e piedi le cose comincerebbero a bruciare più lentamente. gli stinchi, per quanto insensibili e privi di nervi, impiegherebbero un po' più di tempo a scomparire. si consumerebbero piano piano, dandoci tempo di capire cosa diavolo stia succedendo: stiamo scomparendo, non morendo; saremmo semplicemente cancellati via. non resterebbe niente di noi, nessun corpo da seppellire, nessun tipo di resti da piangere, o da celebrare. diventeremmo cenere, cenere alla cenere.
poi via via tutto il resto: le gambe tutte, l'inguine con il quale ci siamo scontrati violenti di rabbia feroce e di tenera comprensione; il busto, le braccia, le mani che ci hanno accarezzati prima lente e poi sempre più veloci per prendere quanti più centimetri possibili da accumulare tra le impronte digitali; il collo, la testa, le spalle, poi ancora la schiena, la colonna vertebrale e le costole, una ad una. diventeremmo fossili in un batter di ciglia, combustibile, petrolio, benzina. faremo muovere i nuovi trasporti speciali lungo le autostrade che continueranno ad esserci, ignare e sorvolando qualsiasi tragedia nella quale saremmo stati dispersi al vento.
e pur sapendo questo continuiamo a ballare e ballare, ballare e ancora ballare. quanto stupidi saremo? possiamo sempre diventarlo di più, spingendoci al limite di tutto quanto credevamo possibile. offuscarci la vista con lenti rosa e gialle, alterare la realtà divaricando non tanto le gambe quanto invece le braccia.
ma in fondo è proprio questo: per un mare di braccia che si aprono ci vuole pur sempre qualcuno che si tuffi dentro di esse.

martedì 3 agosto 2010

Magnificenza

potremmo parlare di come in america considerino le sei del pomeriggio un orario tardi per preparare da mangiare. in america o nei libri che leggiamo. potremmo discutere all'infinito mentre i nostri amici ci chiamano al cellulare per sfogarsi o per lasciare sfogare noi. perché diamine continuiamo a credere di essere capaci solo noi di farsi vivi nel momento del bisogno, quando invece magari siamo noi ad aver più bisogno e gli altri ci chiamano e si palesano quando più ne abbiamo bisogno e noi prendiamo tutto questo come qualcosa di normale, quando invece una volta fermi per un istante a riflettere ti rendi conto che così normale non è. bisogna sapersi estraniare dalla situazione, dal film che ci siamo costruiti dentro, montato fotografato, prodotto noi, dove noi siamo i soli protagonisti, mentre invece la realtà è una produzione corale estesa fino all'inverosimile. non trovi?
potremmo parlare e parlare, capendo davvero quando annoiamo l'altro oppure quando scocciamo, o quando le pause di silenzio sono attimi in cui pensiamo a cosa dire, oppure riflettiamo su ciò che ci è stato appena detto. potrebbe davvero essere tutto così tranquillo, reale, così vero da far quasi impallidire il concetto di realtà. altro che verosimiglianza, il saper descrivere con le parole i fatti, dipingere un quadro che assomigli il più possibile a ciò che abbiamo vissuto: sarebbe nei termini più assoluti possibili il vero vissuto, sarebbe la realtà, sarebbe quanto di più reale potrebbe esistere in questa cazzo di faccia della terra. potremmo spingerci al di là di qualsiasi fantasia possibile, potremmo afferrare questo cubo di.. di ... di.. cazzo! non mi viene la parola, ma scommetto che tu, cazzo! hai capito.
e tu rideresti, rideresti davvero tanto perché ti ha sempre fatto sorridere quando inizio a parlare con le parolacce, anche se questo termine mi fa sembrare di nuovo all'asilo ad essere sgridato da una suora quando mi coglie in fragrante a sussurrare merda! oppure puttana eva! ti ha fatto sempre ridere e spero ti faccia ridere sempre, anche quando avrai capito che non sono quello stinco di santo che i miei discorsi possono far credere; quando avrai denaturato tutte le frasi della loro facciata e la avrai distillate via di tutte le apparenze, quando avrai messo da parte il come si comporta e come si agisce.
ricordi la prima volta? la prima volta che ho detto: stronza! quello ero io, io che affioravo dalle acque della mie molteplici personalità.
sono malato, vero? ma chi non lo è? dimmi, davvero: chi non lo è, in un modo o nell'altro?
potremmo parlare in salotto, seduti sul divano con il tavolino da caffè dove da adolescente ho inciso i testi delle canzoni che mi più mi sembravano adatte al momento, o magari dove ho inciso semplicemente delle cose perché in fondo pensavo fosse giusto in un momento come l'adolescenza incidere qualcosa da qualche parte, in modo da farlo rimanere impresso nel tempo.
potremmo parlare di tutto, di tutto tranne il tempo, ti prego. mentre appoggiato sul tavolino ci potrebbe essere una bottiglia di vino e due bicchieri, un posacenere sul quale appoggiare le tue sigarette consumate e i mozziconi; mentre nel lettore dvd collegato al dolby passano i belle and sebastian, e io mi maledirei di non aver avuto il tempo o la prontezza di spirito di fare in modo da poter proiettare sulla tv il video di get me away from here, i'm dying. solo perché mi hai detto di esserne felice.
questo, tutto qui.
potremmo parlare quando parlare sarebbe il più prezioso oro di questo mondo, terreste e del paradiso tutto. parlare e parlare e parlare. e parlare.
la magnificenza...

lunedì 2 agosto 2010

Luglio 2010


Ho paura di non conoscere il momento giusto per baciare. Chissà quanti baci ho perso, per colpa di quella mancata comunicazione.

Madame Psychosis