Giulia diceva spesso che non c'era bisogno di viaggiare per averne i ricordi. Io le prime volte le rispondevo: spiegati meglio, non credo di avere capito proprio bene. Vuoi dire, continuavo io con voce un po' incredula, che credi sul serio di poter avere dei ricordi di viaggi che non hai mai fatto?
Certe discussioni nascevano sempre davanti alla tv, quando incappavamo in un programma dove qualcuno di perfettamente normale, come potevamo essere noi, persone qualunque, raccontava il proprio viaggio, di nozze di vacanze o di semplice evasione. Io dicevo che sarebbe stato bello, magari un giorno, riuscire a partecipare a una trasmissione del genere, portare in studio il nostro filmato artigianale e poter dire: siamo stati qui, qua, quo; e tutta la gente in studio ci avrebbe fatto i complimenti.
Lei però smorzava i toni, e diceva appunto che i filmati che andavano in onda non erano per niente affatto artigianali, ma il risultato ultimo di un grande lavoro di regia, montaggio, fotografia. E le persone che lo commentano, controbattevo io, secondo te come la prendono di parlare su delle immagini non proprie? Loro non ci sono neppure stati fisicamente nei posti di cui parlano.
La guardavo con indecisione: non capivo se stesse dicendo sul serio oppure mi stesse semplicemente prendendo in giro. A volte lo faceva, e si giustificava dicendo che le piaceva troppo la faccia che facevo quando cercavo di districare la realtà dalla sua fantasia.
Vuoi dire, abbozzavo io a passi lenti, a tentoni, verificando di avere suolo sotto le scarpe prima di poggiarci il peso; vuoi dire, una specie di televisione del futuro?
La televisione del futuro l'avevamo inventata noi. Una sera stavamo guardando un programma di cucina, dove lo chef di turno ci istruiva su come preparare in modo squisito una torta, o un primo, un secondo, adesso non ricordo bene; e ci dicemmo, molto seri e affamati, che la nostra televisione aveva fatto ormai il suo tempo. Molto presto sarebbero arrivati nei salotti di tutte le famiglie degli apparecchi di nuova generazione. Non sarebbero stati schermi piatti o al plasma, alta qualità delle immagini o del sonoro; ma ci sarebbe stato un cambiamento radicale e profondo. Se avessimo guardando un programma di cucina, come per esempio nel nostro caso, con questi nuovi televisori sarebbe bastato premere un tasto per far apparire davanti ai nostri occhi il piatto pronto da mangiare. Altro che 3D, sarebbe stato un 4-5D. Basta fare accoppiare una tv con un forno, diceva Giulia, e oplà. Ecco cosa era la televisione del futuro.
Nello stesso modo, pensavo, l'evoluzione successiva sarebbe stata quella di permettere di usufruire di una opzione del genere non solo per i programmi di cucina, ma anche per i programmi di viaggio. Premendo un altro tasto del telecomando saremmo stati teletrasportati direttamente nei posti che si vedevamo nello schermo. O qualcosa del genere.
Ma Giulia non intendeva proprio questo. Secondo lei con del semplice esercizio si poteva evitare di spostarsi per viaggiare. Lei lo faceva, ogni sera da quando aveva sette anni. Ecco come: sdraiata a letto, prima di addormentarsi, chiudeva gli occhi e richiamava alla mente tutte le foto che aveva visto, magari nelle riviste sfogliate in sala d'aspetto dal dentista, o nei cartelloni pubblicitari sparsi per strada, oppure ancora i paesaggi di qualche film visto al cinema in una sala buia. Prendeva tutte queste immagini e ne costruiva un modello tridimensionale in cui ci piazzava in mezzo la sua figura astratta. In questo modo poteva visitare Parigi, Londra, Berlino, Dublino e Pechino; perdersi per le strade sconosciute di una chissà sperduta cittadina norvegese, a un passo dal mare freddo e dal vento gelido, e fare pure lunghi viaggi interstellari, quando si sentiva particolarmente fantascientifica. Poteva fare il giro del mondo in meno anche di ottanta giorni, alla velocità di un battito di ciglia.
Guarda che Kerouac il libro lo a scritto a casa, mica fisicamente per la strada, diceva lei in base alla leggenda secondo cui l'autore di On The Road non avesse neppure la patente.
Ma a me la cosa non quadrava poi molto. Mi domandavo che senso avesse viaggiare sottraendo al verbo il suo stesso significato, ovvero il viaggio; cosa volesse dire vedere le cascate del Niagara senza però sentirne gli spruzzi bagnati sulla pelle; o passeggiare per le strade di Barcellona senza avere nel naso l'odore spagnolo dell'asfalto. E ancora: quanto si potesse definire viaggio un viaggio che mancava di strade percorse, o di cieli sorvolati, mari salpati: era ancora un viaggio, arrivare dritti a destinazione, o era qualcosa di simile ma diverso?
Le avrei voluto davvero chiedere tutte queste cose, perché in fondo ero sicuro sarebbe stata capace di dissipare ogni mio minimo dubbio, perplessità, interrogativo; ma ogni volta che ero lì lì vicino a farle presente ciò che non mi tornava, lei mi afferrava la mano, distesa sotto le coperte con ancora gli occhi chiusi, un sorriso disegnato felice sulle labbra, e diceva: guarda! ora siamo in cima alla Tour Eiffel; oppure: abbiamo scalato l'Everest; siamo in Tibet. E tutto quanto veniva spazzato via, non mi importava più di niente, né dei ricordi, del viaggiare o del semplice arrivare; perché ero comunque contento di essere là, qualunque posto fosse, in cima insieme a lei. In un modo o in un altro.
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