Con colpevole ritardo comunico che quasi una settimana fa è uscito online per L'undici - Informazione pura la prima parte di un racconto dal titolo "Non mi chiamo Ted".
Seguiranno altre tre puntate nel corso di Novembre/Dicembre.
Nell'attesa di vederlo completo potete tranquillamente leggere questa prima parte:
Non mi chiamo Ted - Parte I
giovedì 31 ottobre 2013
lunedì 28 ottobre 2013
Shosha
Quando l’avevo incontrata, Dora mi aveva detto che considerava il matrimonio un rimasuglio di fanatismo religioso. Come si poteva firmare un contratto che doveva durare tutta la vita? Solo i capitalisti e gli ecclesiastici erano votati a perpetuare un’istituzione tanto ipocrita.
Se non si prende sul serio, da sé, non lo farà nessun altro.
L’uomo moderno si può anche vergognare delle emozioni, tuttavia è tutto sentimento e temperamento. Brucia d’amore e diventa freddo come il ghiaccio; un momento si comporta con intimità e un momento dopo con indifferenza.
Dal momento che non credi nel matrimonio, la donna con la quale stai è tua moglie.
Ogni volta che andavo là, Sam si lamentava perché non volevo fare il bagno nel fiumiciattolo. Mi imbarazzava l’idea di spogliarmi davanti a gente estranea. Non mi ero mai liberato di un concetto ereditato da generazioni: il copro è un recipiente di vergogna e ignominia, polvere in vita e anche peggio nella morte.
Nessun nemico può fare a un uomo tanto male quanto può farsene da sé.
La voglia che hanno di uccidere è talmente grande che supera la paura di rimanere uccisi. È una verità che ci si dimentica di affermare, ma nondimeno vera.
La morte è troppo importante per assumerla tutto d’un colpo. È come un vino prezioso che va assaporato lentamente. Coloro che si suicidano vogliono sfuggire alla morte una volta per tutte. Ma coloro che non sono tanti codardi imparano a goderne il gusto.
Isaac Bashevis Singer
venerdì 25 ottobre 2013
Getaway
Everyone's a critic looking back up the river
Every boat is leaking in this town
Everybody's thinking that they'll all be delivered
Sitting in a box like lost and found
But I found my place and it's alright
We all searching for our better way
Got yours off my plate, it's alright
I got my own way to believe
Find a lighthouse in the dark stormy weather
We all could use a sedative right not
Holy rollers sittin with their backs to the middle
All hands on deck, sinking is the bow
And if you wanna have to pray, it's alright
We all be thinking with our different brains
Get yours off my plate, it's alright
I got my own way to believe
It's ok
Sometimes you find yourself
Having to put all your faith
In no faith
Mine is mine, and yours won't take its place
Now make your getaway
Science says we're making love like the lizards
Try and say that fossils ain't profound
Simon says that we are not allowed to consider
Simon says "Stand-up. Sit-down. You're out!"
But I found my place, and it's alright
Bearing witness to some stranger days
Get yours off my plate, it's alright
I got my own ways to believe
It's ok
Sometimes you find yourself being told to change your ways
There's no way
Mine is mine and yours won't take its place
Now make your getaway
It's ok
Sometimes you find yourself
Having to put all your faith
In no faith
Mine is mine, and yours won't take its place
Now make your getaway
It's ok
Sometime you find yourself
Being told to change your ways
For Gods sake
Mine is mine and yours won't take its place
Now make your getaway
Make your getaway
Performed by Pearl Jam
Every boat is leaking in this town
Everybody's thinking that they'll all be delivered
Sitting in a box like lost and found
But I found my place and it's alright
We all searching for our better way
Got yours off my plate, it's alright
I got my own way to believe
Find a lighthouse in the dark stormy weather
We all could use a sedative right not
Holy rollers sittin with their backs to the middle
All hands on deck, sinking is the bow
And if you wanna have to pray, it's alright
We all be thinking with our different brains
Get yours off my plate, it's alright
I got my own way to believe
It's ok
Sometimes you find yourself
Having to put all your faith
In no faith
Mine is mine, and yours won't take its place
Now make your getaway
Science says we're making love like the lizards
Try and say that fossils ain't profound
Simon says that we are not allowed to consider
Simon says "Stand-up. Sit-down. You're out!"
But I found my place, and it's alright
Bearing witness to some stranger days
Get yours off my plate, it's alright
I got my own ways to believe
It's ok
Sometimes you find yourself being told to change your ways
There's no way
Mine is mine and yours won't take its place
Now make your getaway
It's ok
Sometimes you find yourself
Having to put all your faith
In no faith
Mine is mine, and yours won't take its place
Now make your getaway
It's ok
Sometime you find yourself
Being told to change your ways
For Gods sake
Mine is mine and yours won't take its place
Now make your getaway
Make your getaway
Performed by Pearl Jam
giovedì 24 ottobre 2013
Abbraccio
Stanotte mi volevi parlare ma io non c’ero. Quando ti ho risposto era tardi ed eri ormai arrabbiata, chiusa a riccio per difenderti dai miei tentativi di avvicinarti. Sei scappata, chissà dove, senza dire a nessuno quando saresti tornata. Sono venuto a cercarti per gole sconosciute che non erano le nostre. Gridavo il tuo nome e la mia voce si moltiplicava in echi lontane, senza ricevere però una tua risposta. Mi bagnavo, cadevo scivolando sulle rocce muschiose che usavo come strada lastricata per arrivare da te, e finivo culo a terra dentro il torrente gelido che scorreva tra le due pareti verticali. Non sapevo per quanto tempo avrei potuto continuare a gridare e camminare, camminare e cadere, cadere e rialzarmi, fino a quando non mi sono svegliato. Sembrava un’eternità, e altrettanta sembrava poter trascorrere prima di trovarti. Sei brava a nasconderti quando non vuoi farti vedere. Anche nei sogni ti perdi in luoghi dove non riesco a spingermi, neppure volando. Ed è il vagare, così, quasi senza meta, che rende la notte, o il giorno, tanto pesante da sopportare. Ogni minuto, ogni secondo. Un incedere costante che passa attraverso il collo ristretto di una clessidra. E passa, trascorre. Io ti chiamo, e tu non rispondi. Ti chiamo, ti chiamo. Urlo fino a lacerarmi da dentro la gola. Non importa che sia sogno, o realtà. Io ti chiamo e non rispondi. Ti chiamo e continuerò a chiamarti.
lunedì 21 ottobre 2013
In senso inverso
Lei scosse di nuovo la testa, questa volta in cenno di assenso; i suoi grandi occhi scuri brillavano di lacrime represse.
Vede – c’è una situazione di cui potrei approfittare. Ma a spese di qualcun altro. Ora, quale bene dovrebbe venir prima? Se il loro, perché? E perché non il mio?
Lei non ha paura di sbagliare; lei ha paura di fare del male e poi fallire, e che tutti lo sappiano. La ragazza che lei vuole, suo marito; lei ha paura di fallire e di trovare un fronte unito contro di lei, che la escluda.
Vedendo padre Faine che rientrava, Sebastian Hermes notò la sua espressione tetra e preoccupata, e disse: “Devi avere qualche problema.”
“Tutti ne abbiamo” rispose vagamente padre Faine, imperscrutabile.
In realtà ero molto più piccolo di quanto mi sembrasse. O di quanto fossi disposto ad ammettere. Mi piaceva pensare di essere più grande, con grandi ambizioni.
Una donna che ha smanie di potere suggerisce sempre che potrebbe esserci una reazione violenta se non fai quello che dice.
Philip K. Dick
Vede – c’è una situazione di cui potrei approfittare. Ma a spese di qualcun altro. Ora, quale bene dovrebbe venir prima? Se il loro, perché? E perché non il mio?
Lei non ha paura di sbagliare; lei ha paura di fare del male e poi fallire, e che tutti lo sappiano. La ragazza che lei vuole, suo marito; lei ha paura di fallire e di trovare un fronte unito contro di lei, che la escluda.
Vedendo padre Faine che rientrava, Sebastian Hermes notò la sua espressione tetra e preoccupata, e disse: “Devi avere qualche problema.”
“Tutti ne abbiamo” rispose vagamente padre Faine, imperscrutabile.
In realtà ero molto più piccolo di quanto mi sembrasse. O di quanto fossi disposto ad ammettere. Mi piaceva pensare di essere più grande, con grandi ambizioni.
Una donna che ha smanie di potere suggerisce sempre che potrebbe esserci una reazione violenta se non fai quello che dice.
Philip K. Dick
venerdì 18 ottobre 2013
Flowers Blossom
Someday you'll win by far
your evil side
that subtly makes you wild
when grows in thee
and leaves you lonely dear so lonely dear
you wait for a cure that won't come
Before then you thought you are too dark
well decided to go
but your love is there
your only love is there
Where the truth and his fluidity
accept the cruelty
of your bleak and darkened soul
Still my lover days
go on with stupid prayers
"Please make me happier, please make me happy"
But your only fear is to feel lonely dear
so you'd better come home
Cause any flower blossom you know?
towards the light, i mean
so follow my light, my dear
My love against your sorrow will heal all of your scares
i swear.
Performed by Thony
your evil side
that subtly makes you wild
when grows in thee
and leaves you lonely dear so lonely dear
you wait for a cure that won't come
Before then you thought you are too dark
well decided to go
but your love is there
your only love is there
Where the truth and his fluidity
accept the cruelty
of your bleak and darkened soul
Still my lover days
go on with stupid prayers
"Please make me happier, please make me happy"
But your only fear is to feel lonely dear
so you'd better come home
Cause any flower blossom you know?
towards the light, i mean
so follow my light, my dear
My love against your sorrow will heal all of your scares
i swear.
Performed by Thony
giovedì 17 ottobre 2013
Zigomi che parlano
“Secondo te sta parlando sul serio?” Lei si era lasciata cadere all’indietro, in un delicato planare verso di lui, per potergli parlare. Lo aveva usato come un cuscino, sul quale adagiarsi semi sdraiata. Aveva appoggiato la testa sul suo petto, voltandosi un poco di lato, e lo aveva guardato dal basso verso l’alto.
Qual era la domanda?
La prima cosa a venirgli in mente, senza alcun motivo apparente, furono i suoi zigomi. Quella parte di lei anticipò qualsiasi altra cosa. Solo dopo vennero gli occhi, le orecchie, le labbra, i denti. Un ritratto di lei si disegnò da solo dentro la sua testa partendo dagli zigomi. Per quei brevi attimi iniziali gli zigomi furono l’unica parte di lei a sua disposizione, una ciambella di salvataggio alla quale lui si aggrappò immediatamente. Come spiegare: nel breve lasso di tempo, tra quando lui avvertì il peso della nuca di lei sul suo petto a quando realizzò in modo conscio che quel peso era lei e che quella testa era la sua, lei cessò di esistere nella sua mente come figura intera. Non era più un viso, un corpo, dei capelli, bensì solo e soltanto quegli zigomi. O meglio: un piccolo rettangolo regolare posto all’altezza degli zigomi, una specie di censura al contrario. A velocità accelerata rivide ogni giorno passato insieme a lei ritagliato in quella porzione del suo viso, in tutte le sfumature delle sue mille espressioni. La vide allegra, con il sorriso che si poteva intuire anche solo scorgendo appena gli zigomi; la vide triste, con due tenere lacrime a bagnarle le guance nell’unica volta che l’aveva vista piangere; la vide annoiata, arrabbiata, assonnata; mentre dormiva, mentre leggeva, mentre beveva. Era incredibile con quale facilità potesse capire il suo stato d’animo a partire da solo i suoi zigomi. Lui si rese conto, in quel momento, di quanto il corpo di lei parlasse in ogni sua parte. Gli occhi, i suoi occhi, volevano dire qualcosa, così come le sue labbra, la fronte; oppure le mani, quando lo toccava o non lo taccava, faceva gesti e disegnava qualcosa di astratto nell’aria. Non c’erano solo le sue parole, era lei tutta a costruire un discorso.
Qual era la domanda?
La prima cosa a venirgli in mente, senza alcun motivo apparente, furono i suoi zigomi. Quella parte di lei anticipò qualsiasi altra cosa. Solo dopo vennero gli occhi, le orecchie, le labbra, i denti. Un ritratto di lei si disegnò da solo dentro la sua testa partendo dagli zigomi. Per quei brevi attimi iniziali gli zigomi furono l’unica parte di lei a sua disposizione, una ciambella di salvataggio alla quale lui si aggrappò immediatamente. Come spiegare: nel breve lasso di tempo, tra quando lui avvertì il peso della nuca di lei sul suo petto a quando realizzò in modo conscio che quel peso era lei e che quella testa era la sua, lei cessò di esistere nella sua mente come figura intera. Non era più un viso, un corpo, dei capelli, bensì solo e soltanto quegli zigomi. O meglio: un piccolo rettangolo regolare posto all’altezza degli zigomi, una specie di censura al contrario. A velocità accelerata rivide ogni giorno passato insieme a lei ritagliato in quella porzione del suo viso, in tutte le sfumature delle sue mille espressioni. La vide allegra, con il sorriso che si poteva intuire anche solo scorgendo appena gli zigomi; la vide triste, con due tenere lacrime a bagnarle le guance nell’unica volta che l’aveva vista piangere; la vide annoiata, arrabbiata, assonnata; mentre dormiva, mentre leggeva, mentre beveva. Era incredibile con quale facilità potesse capire il suo stato d’animo a partire da solo i suoi zigomi. Lui si rese conto, in quel momento, di quanto il corpo di lei parlasse in ogni sua parte. Gli occhi, i suoi occhi, volevano dire qualcosa, così come le sue labbra, la fronte; oppure le mani, quando lo toccava o non lo taccava, faceva gesti e disegnava qualcosa di astratto nell’aria. Non c’erano solo le sue parole, era lei tutta a costruire un discorso.
lunedì 14 ottobre 2013
Le vergini suicide
Il dottor Armonson suturò le ferite dei polsi. Dopo cinque minuti di trasfusione dichiarò che la ragazza era fuori pericolo. Le diede un buffetto sotto il mento. “Che ci fai qui, piccola? Non puoi sapere quanto è brutta la vita, giovane come sei.”
Fu allora che Cecilia espresse verbalmente ciò che doveva rappresentare l’unica parvenza di una lettera d’addio, superflua, tra l’altro, dato che non era morta. “Dottore” disse, “è evidente che lei non è mai stato una ragazza di tredici anni.”
Intorno a noi, nei loro nascondigli, gli insetti diedero inizio a un coro vibrante nell’esatto momento in cui voltammo le spalle all’edificio. Tutti dicevano che erano grilli, ma non ne avevamo mai trovati, nei cespugli irrorati o nei praticelli livellati, e non avevamo la minima idea di che aspetto avessero. Erano una presenza di puro suono.
Non avevamo mai visto nessuno che come lei sembrasse nudo anche con i vestiti.
Trip non aveva mai avuto neanche bisogno di comporre un numero telefonico. Per lui era una novità assoluta: i discorsi strategici imparati a memoria, le possibili conversazioni provate e riprovate, la respirazione profonda dello yoga, tutto per prepararsi al tuffo cieco, a capofitto, nel mare crepitante delle linee telefoniche. Non conosceva l’agonia dello squillo interminabile che qualcuno avrebbe interrotto sollevando la cornetta, non sapeva cosa fosse il colpo al cuore nell’udire quella voce incomparabile che all’improvviso era collegata alla tua, la sensazione di essere troppo vicini persino per vederla, quella persona, di essere addirittura dentro il suo orecchio.
Provare dolore è naturale. Superarlo è una questione di scelta.
Per tutto il tragitto Lux non fece che girare la manopola della radio alla ricerca della sua canzone preferita. “È una cosa che mi fa diventare matta” disse. “Sei sicura che la stanno trasmettendo da qualche parte, solo che la devi trovare.”
A quel punto non le conoscevamo più, e le loro nuove abitudini, l'aprire una finestra, ad esempio, per gettare via un asciugamano di carta appallottolato, ci inducevano a chiederci se le avessimo mai conosciute davvero, o se invece la nostra vigilanza fosse stata una caccia alle impronte digitali dei fantasmi.
Aspettavamo che le ragazze ci inviassero un segnale, e intanto la nostra immaginazione lavorava a pieno ritmo.
Sapevamo che Cecilia si era uccisa perché era una disadattata, perché l’aldilà la chiamava, e sapevamo che le sorelle, una volta abbandonate, avevano percepito il suo richiamo. Ma appena tiriamo queste conclusioni ci viene un nodo alla gola, perché sono vere e ingannevoli al tempo stesso.
Non riuscivamo a immaginare il vuoto interiore di un essere umano che si accostava un rasoio al polso e si apriva le vene: il vuoto e la calma.
Jeffrey Eugenides
Fu allora che Cecilia espresse verbalmente ciò che doveva rappresentare l’unica parvenza di una lettera d’addio, superflua, tra l’altro, dato che non era morta. “Dottore” disse, “è evidente che lei non è mai stato una ragazza di tredici anni.”
Intorno a noi, nei loro nascondigli, gli insetti diedero inizio a un coro vibrante nell’esatto momento in cui voltammo le spalle all’edificio. Tutti dicevano che erano grilli, ma non ne avevamo mai trovati, nei cespugli irrorati o nei praticelli livellati, e non avevamo la minima idea di che aspetto avessero. Erano una presenza di puro suono.
Non avevamo mai visto nessuno che come lei sembrasse nudo anche con i vestiti.
Trip non aveva mai avuto neanche bisogno di comporre un numero telefonico. Per lui era una novità assoluta: i discorsi strategici imparati a memoria, le possibili conversazioni provate e riprovate, la respirazione profonda dello yoga, tutto per prepararsi al tuffo cieco, a capofitto, nel mare crepitante delle linee telefoniche. Non conosceva l’agonia dello squillo interminabile che qualcuno avrebbe interrotto sollevando la cornetta, non sapeva cosa fosse il colpo al cuore nell’udire quella voce incomparabile che all’improvviso era collegata alla tua, la sensazione di essere troppo vicini persino per vederla, quella persona, di essere addirittura dentro il suo orecchio.
Provare dolore è naturale. Superarlo è una questione di scelta.
Per tutto il tragitto Lux non fece che girare la manopola della radio alla ricerca della sua canzone preferita. “È una cosa che mi fa diventare matta” disse. “Sei sicura che la stanno trasmettendo da qualche parte, solo che la devi trovare.”
A quel punto non le conoscevamo più, e le loro nuove abitudini, l'aprire una finestra, ad esempio, per gettare via un asciugamano di carta appallottolato, ci inducevano a chiederci se le avessimo mai conosciute davvero, o se invece la nostra vigilanza fosse stata una caccia alle impronte digitali dei fantasmi.
Aspettavamo che le ragazze ci inviassero un segnale, e intanto la nostra immaginazione lavorava a pieno ritmo.
Sapevamo che Cecilia si era uccisa perché era una disadattata, perché l’aldilà la chiamava, e sapevamo che le sorelle, una volta abbandonate, avevano percepito il suo richiamo. Ma appena tiriamo queste conclusioni ci viene un nodo alla gola, perché sono vere e ingannevoli al tempo stesso.
Non riuscivamo a immaginare il vuoto interiore di un essere umano che si accostava un rasoio al polso e si apriva le vene: il vuoto e la calma.
Jeffrey Eugenides
lunedì 7 ottobre 2013
Settembre 2013
"Può anche darsi che io faccia finta di non sperarci proprio perché ci spero troppo."
Banana Yoshimoto
giovedì 3 ottobre 2013
Soprattutto, un fottuto essere umano. Vita di David Foster Wallace
Ci sono un paio di cose da tenere ben presenti, quando si legge Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi.
Innanzitutto la sua “primogenitura”: quella tentata da D.T. Max (DeeTee, per gli amici) è la prima ricostruzione completa di una personalità umana e letteraria di straordinaria complessità come quella di David Foster Wallace. È una grossa responsabilità da portare sulle spalle: significa, in parte, tracciare un solco interpretativo con cui gli eventuali tentativi futuri non potranno evitare di misurarsi. In qualche modo, come per ogni biografia, significa riplasmare la figura che si vuole descrivere: ma quando lo fai per la prima volta, devi avere una bella mano ferma e un’autoconsapevolezza grande come una montagna.
Ma soprattutto, Ogni storia d’amore è una storia in cui alla fine il protagonista muore. Lo sappiamo tutti: l’autore ancor prima di cominciare a scrivere il libro, il lettore prima ancora di iniziare a leggerlo. Nessuno può fare nulla per evitarlo. Chi scrive il libro, però, parla per primo, il che ci mette di fronte a un altro curioso dilemma: come possiamo essere sicuri che la conoscenza anticipata del finale non rischi di indurre l’autore a sovrainterpretare la realtà che dovrebbe limitarsi a registrare? Esempio: lungo tutto il corso della parabola esistenziale di Wallace, Max semina fuggevoli ma incisivi accenni alla presenza latente del suicidio: nella sua narrativa, nel suo pensiero, nella sua ironia. Tu sei lì che leggi, e ogni tanto te lo ritrovi davanti, come un monito, o una minaccia. Mi sono ritrovato a chiedermi: e se DFW non si fosse suicidato? Ci sembrerebbero davvero ancora così inquietanti, così onnipresenti, queste brevi e continuative ricorsività? Lo so, è un paradosso accademico; ma anche un po’ wittgensteiniano. Cos’è la biografia di un suicida? La registrazione di fatti, o la riscrittura di una storia a partire dal finale? Chissà cosa ne avrebbe pensato DFW.
Mi ero fatto le stesse domande leggendo, anni fa, A Beautiful Mind di Sylvia Nasar, la biografia del matematico schizofrenico John Nash (poi interpretato straordinariamente da un Russell Crowe non ancora bolsissimo). In effetti la figura di Nash presenta anche alcune coincidenze inaspettate con quella di DFW per come la tratteggia Max. Al di là delle somiglianze caratteriali (ossessiva ricerca della novità nei rispettivi campi, competitività, complessi di inferiorità sublimati in senso di superiorità, egocentrismo, ambizione, rapporto di amore-odio con l’insegnamento e la vita accademica), ciò che accomuna DFW e John Nash è proprio il complesso rapporto che i due intrattengono con la realtà. A entrambi si adatta benissimo il motto della terapia di riabilitazione “A ridurmi così sono state le mie grandi idee”: menti troppo complesse che cercano di interpretare e mettere in ordine realtà troppo complesse. L’uno con i numeri, l’altro con le parole. Solo che – DFW se ne accorge presto – è impossibile mettere ordine nella realtà, “semplicemente perché è troppa!”. Un fragoroso e costante mitragliare di input di informazione, stimoli cognitivi, sensoriali, pubblicitari: un “Rumore Totale” di fronte a cui la mente passiva si annulla, e la mente ricettiva implode per l’impossibilità di elaborarli tutti.
Allo stesso modo è difficile elaborare tutta in una volta la biografia di Wallace scritta da Max. Non per la quantità di dati che fornisce: anzi, a differenza di altri testi del genere la butta molto meno sull’erudito, e per nulla sul gossipparo (P.S.: grazie, DeeTee). Semmai, per l’immediatezza senza sconti dell’impatto con l’esperienza di vita di DFW a cui il testo di Max costringe il lettore. Rapporto con la madre, confronto-scontro con la scrittura (sempre più travagliato e impotente), sessuomania, droga, alcol e riabilitazione, donne (tantissime donne), successo letterario vissuto come fallimento, relazioni-rifugio con colleghi come Franzen e DeLillo: Max ci guida attraverso la vita di DFW senza mai lasciarsi andare alla facile tentazione di calare nel suo racconto l’esca del sentimentalismo. Racconta e descrive con l’obiettività analitica del vero biografo, e a volte si ha quasi l’impressione straniante – quando le cose cominciano ad andare per il verso giusto, i tasselli della vita di DFW sembrano incastrarsi senza scosse, insegnamento, scrittura e riabilitazione vanno a gonfie vele – che in fondo un finale diverso sia possibile, che forse la corsa verso il buio non sai poi così scontata. Ma ovviamente l’epilogo non poteva essere che un finale alla DFW: brusco, quasi interrotto, in cui la parola sembra scomparire e lasciare una sospensione a forma di spazio vuoto. Come in Infinite Jest, il vero finale è al di là del testo.
Questo per quanto riguarda il racconto della vita intesa come successione di fatti. Ma quella di DFW è stata soprattutto una vita letteraria, e a Max non sfugge mai di mano il doppio filo che intesse il racconto. In parallelo con la propria riabilitazione, DFW intendeva anche guarire la narrativa contemporanea: che gli sembrava anch’essa malata di un solipsismo passivo utile solo a precipitare ulteriormente gli uomini in una gabbia di solitudine ed esclusione. Le soluzioni escogitate da chi lo aveva preceduto – postmodernisti, realisti, minimalisti – si erano rivelate non solo inefficaci, ma controproducenti: l’ironia con cui avevano cercato di scuotere i lettori altro non era se non una forma alternativa, disincantata del male stesso. L’intrattenimento insomma aveva fallito, ci voleva qualcosa che andasse oltre. E proprio “Un intrattenimento fallito” doveva essere il sottotitolo (poi rifiutato dall’editor Michael Pietsch) di Infinite Jest: l’opera che doveva guarire il lettore distogliendolo dalla pura passività del consumatore e sfiancandolo, costringendolo a continui andirivieni, stordendolo con una trama distorta, enciclopedica, vorticosa, forzandolo ad andare oltre il racconto stesso per comprenderne davvero il significato.
Le pagine dedicate alla complessa lavorazione di Infinite Jest, così come quelle in cui Max analizza il rapporto sempre problematico di Wallace con la propria opera, con i suoi colleghi o le correnti letterarie a cui aderiva contrapponendosi, sono tra le migliori del libro. Perché ci mostrano, in fieri, la costruzione di un nuovo concetto di narrativa ad opera di un uomo che, nel frattempo, andava anch’egli costruendosi o disfacendosi di pari passo con la sua opera. E che, nella propria esistenza quotidiana, sembrava riflettere come in uno specchio distorto tutte le complesse problematiche del suo lavoro di scrittore. Vista in questa luce, sembra assumere un significato del tutto particolare anche la circostanza che DFW se ne sia andato lasciando incompiuto il suo ultimo romanzo, Il re pallido, su cui si era impantanato al punto da prosciugare del tutto le proprie residue energie. Una vita incompiuta per un’opera incompiuta.
L’ironia ultima è che DFW sia diventato proprio ciò che aveva sempre rifuggito: una rockstar. Un idolo incondizionato delle masse di lettori (o, più spesso, di non-lettori) che hanno finito per trasfigurarlo in una sorta di Kurt Cobain della narrativa, distorcendo completamente quel messaggio che per tutta la vita aveva cercato di trasmettere. Proprio per questo uno dei pregi migliori del libro di Max sta nell’intensità con cui ci ricorda, ad ogni pagina, la sostanza di quel messaggio. Che è semplice, guardate: ci vuole un libro intero a spiegarcelo, ma una volta capito è proprio semplice.
Dice solo: non venerate gli idoli, non ingabbiate la vostra anima. Dimenticatevi di me. Leggete. E lasciate che la letteratura cerchi di insegnarvi cosa significa “essere un fottuto essere umano”.
Trovato qua: Holden & Company: Immaginari e contraddizioni a stelle e strisce
Innanzitutto la sua “primogenitura”: quella tentata da D.T. Max (DeeTee, per gli amici) è la prima ricostruzione completa di una personalità umana e letteraria di straordinaria complessità come quella di David Foster Wallace. È una grossa responsabilità da portare sulle spalle: significa, in parte, tracciare un solco interpretativo con cui gli eventuali tentativi futuri non potranno evitare di misurarsi. In qualche modo, come per ogni biografia, significa riplasmare la figura che si vuole descrivere: ma quando lo fai per la prima volta, devi avere una bella mano ferma e un’autoconsapevolezza grande come una montagna.
Ma soprattutto, Ogni storia d’amore è una storia in cui alla fine il protagonista muore. Lo sappiamo tutti: l’autore ancor prima di cominciare a scrivere il libro, il lettore prima ancora di iniziare a leggerlo. Nessuno può fare nulla per evitarlo. Chi scrive il libro, però, parla per primo, il che ci mette di fronte a un altro curioso dilemma: come possiamo essere sicuri che la conoscenza anticipata del finale non rischi di indurre l’autore a sovrainterpretare la realtà che dovrebbe limitarsi a registrare? Esempio: lungo tutto il corso della parabola esistenziale di Wallace, Max semina fuggevoli ma incisivi accenni alla presenza latente del suicidio: nella sua narrativa, nel suo pensiero, nella sua ironia. Tu sei lì che leggi, e ogni tanto te lo ritrovi davanti, come un monito, o una minaccia. Mi sono ritrovato a chiedermi: e se DFW non si fosse suicidato? Ci sembrerebbero davvero ancora così inquietanti, così onnipresenti, queste brevi e continuative ricorsività? Lo so, è un paradosso accademico; ma anche un po’ wittgensteiniano. Cos’è la biografia di un suicida? La registrazione di fatti, o la riscrittura di una storia a partire dal finale? Chissà cosa ne avrebbe pensato DFW.
Mi ero fatto le stesse domande leggendo, anni fa, A Beautiful Mind di Sylvia Nasar, la biografia del matematico schizofrenico John Nash (poi interpretato straordinariamente da un Russell Crowe non ancora bolsissimo). In effetti la figura di Nash presenta anche alcune coincidenze inaspettate con quella di DFW per come la tratteggia Max. Al di là delle somiglianze caratteriali (ossessiva ricerca della novità nei rispettivi campi, competitività, complessi di inferiorità sublimati in senso di superiorità, egocentrismo, ambizione, rapporto di amore-odio con l’insegnamento e la vita accademica), ciò che accomuna DFW e John Nash è proprio il complesso rapporto che i due intrattengono con la realtà. A entrambi si adatta benissimo il motto della terapia di riabilitazione “A ridurmi così sono state le mie grandi idee”: menti troppo complesse che cercano di interpretare e mettere in ordine realtà troppo complesse. L’uno con i numeri, l’altro con le parole. Solo che – DFW se ne accorge presto – è impossibile mettere ordine nella realtà, “semplicemente perché è troppa!”. Un fragoroso e costante mitragliare di input di informazione, stimoli cognitivi, sensoriali, pubblicitari: un “Rumore Totale” di fronte a cui la mente passiva si annulla, e la mente ricettiva implode per l’impossibilità di elaborarli tutti.
Allo stesso modo è difficile elaborare tutta in una volta la biografia di Wallace scritta da Max. Non per la quantità di dati che fornisce: anzi, a differenza di altri testi del genere la butta molto meno sull’erudito, e per nulla sul gossipparo (P.S.: grazie, DeeTee). Semmai, per l’immediatezza senza sconti dell’impatto con l’esperienza di vita di DFW a cui il testo di Max costringe il lettore. Rapporto con la madre, confronto-scontro con la scrittura (sempre più travagliato e impotente), sessuomania, droga, alcol e riabilitazione, donne (tantissime donne), successo letterario vissuto come fallimento, relazioni-rifugio con colleghi come Franzen e DeLillo: Max ci guida attraverso la vita di DFW senza mai lasciarsi andare alla facile tentazione di calare nel suo racconto l’esca del sentimentalismo. Racconta e descrive con l’obiettività analitica del vero biografo, e a volte si ha quasi l’impressione straniante – quando le cose cominciano ad andare per il verso giusto, i tasselli della vita di DFW sembrano incastrarsi senza scosse, insegnamento, scrittura e riabilitazione vanno a gonfie vele – che in fondo un finale diverso sia possibile, che forse la corsa verso il buio non sai poi così scontata. Ma ovviamente l’epilogo non poteva essere che un finale alla DFW: brusco, quasi interrotto, in cui la parola sembra scomparire e lasciare una sospensione a forma di spazio vuoto. Come in Infinite Jest, il vero finale è al di là del testo.
Questo per quanto riguarda il racconto della vita intesa come successione di fatti. Ma quella di DFW è stata soprattutto una vita letteraria, e a Max non sfugge mai di mano il doppio filo che intesse il racconto. In parallelo con la propria riabilitazione, DFW intendeva anche guarire la narrativa contemporanea: che gli sembrava anch’essa malata di un solipsismo passivo utile solo a precipitare ulteriormente gli uomini in una gabbia di solitudine ed esclusione. Le soluzioni escogitate da chi lo aveva preceduto – postmodernisti, realisti, minimalisti – si erano rivelate non solo inefficaci, ma controproducenti: l’ironia con cui avevano cercato di scuotere i lettori altro non era se non una forma alternativa, disincantata del male stesso. L’intrattenimento insomma aveva fallito, ci voleva qualcosa che andasse oltre. E proprio “Un intrattenimento fallito” doveva essere il sottotitolo (poi rifiutato dall’editor Michael Pietsch) di Infinite Jest: l’opera che doveva guarire il lettore distogliendolo dalla pura passività del consumatore e sfiancandolo, costringendolo a continui andirivieni, stordendolo con una trama distorta, enciclopedica, vorticosa, forzandolo ad andare oltre il racconto stesso per comprenderne davvero il significato.
Le pagine dedicate alla complessa lavorazione di Infinite Jest, così come quelle in cui Max analizza il rapporto sempre problematico di Wallace con la propria opera, con i suoi colleghi o le correnti letterarie a cui aderiva contrapponendosi, sono tra le migliori del libro. Perché ci mostrano, in fieri, la costruzione di un nuovo concetto di narrativa ad opera di un uomo che, nel frattempo, andava anch’egli costruendosi o disfacendosi di pari passo con la sua opera. E che, nella propria esistenza quotidiana, sembrava riflettere come in uno specchio distorto tutte le complesse problematiche del suo lavoro di scrittore. Vista in questa luce, sembra assumere un significato del tutto particolare anche la circostanza che DFW se ne sia andato lasciando incompiuto il suo ultimo romanzo, Il re pallido, su cui si era impantanato al punto da prosciugare del tutto le proprie residue energie. Una vita incompiuta per un’opera incompiuta.
L’ironia ultima è che DFW sia diventato proprio ciò che aveva sempre rifuggito: una rockstar. Un idolo incondizionato delle masse di lettori (o, più spesso, di non-lettori) che hanno finito per trasfigurarlo in una sorta di Kurt Cobain della narrativa, distorcendo completamente quel messaggio che per tutta la vita aveva cercato di trasmettere. Proprio per questo uno dei pregi migliori del libro di Max sta nell’intensità con cui ci ricorda, ad ogni pagina, la sostanza di quel messaggio. Che è semplice, guardate: ci vuole un libro intero a spiegarcelo, ma una volta capito è proprio semplice.
Dice solo: non venerate gli idoli, non ingabbiate la vostra anima. Dimenticatevi di me. Leggete. E lasciate che la letteratura cerchi di insegnarvi cosa significa “essere un fottuto essere umano”.
Trovato qua: Holden & Company: Immaginari e contraddizioni a stelle e strisce
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