Ci sono un paio di cose da tenere ben presenti, quando si legge Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi.
Innanzitutto la sua “primogenitura”: quella tentata da D.T. Max
(DeeTee, per gli amici) è la prima ricostruzione completa di una
personalità umana e letteraria di straordinaria complessità come quella
di David Foster Wallace. È una grossa responsabilità da portare sulle
spalle: significa, in parte, tracciare un solco interpretativo con cui
gli eventuali tentativi futuri non potranno evitare di misurarsi. In
qualche modo, come per ogni biografia, significa riplasmare la figura
che si vuole descrivere: ma quando lo fai per la prima volta, devi avere
una bella mano ferma e un’autoconsapevolezza grande come una montagna.
Ma soprattutto, Ogni storia d’amore è una storia in cui alla
fine il protagonista muore. Lo sappiamo tutti: l’autore ancor prima di
cominciare a scrivere il libro, il lettore prima ancora di iniziare a
leggerlo. Nessuno può fare nulla per evitarlo. Chi scrive il libro,
però, parla per primo, il che ci mette di fronte a un altro curioso
dilemma: come possiamo essere sicuri che la conoscenza anticipata del
finale non rischi di indurre l’autore a sovrainterpretare la realtà che
dovrebbe limitarsi a registrare? Esempio: lungo tutto il corso della
parabola esistenziale di Wallace, Max semina fuggevoli ma incisivi
accenni alla presenza latente del suicidio: nella sua narrativa, nel suo
pensiero, nella sua ironia. Tu sei lì che leggi, e ogni tanto te lo
ritrovi davanti, come un monito, o una minaccia. Mi sono ritrovato a
chiedermi: e se DFW non si fosse suicidato? Ci sembrerebbero davvero
ancora così inquietanti, così onnipresenti, queste brevi e continuative
ricorsività? Lo so, è un paradosso accademico; ma anche un po’
wittgensteiniano. Cos’è la biografia di un suicida? La registrazione di
fatti, o la riscrittura di una storia a partire dal finale? Chissà cosa
ne avrebbe pensato DFW.
Mi ero fatto le stesse domande leggendo, anni fa, A Beautiful Mind di Sylvia Nasar, la biografia del matematico schizofrenico John Nash
(poi interpretato straordinariamente da un Russell Crowe non ancora
bolsissimo). In effetti la figura di Nash presenta anche alcune
coincidenze inaspettate con quella di DFW per come la tratteggia Max. Al
di là delle somiglianze caratteriali (ossessiva ricerca della novità
nei rispettivi campi, competitività, complessi di inferiorità sublimati
in senso di superiorità, egocentrismo, ambizione, rapporto di amore-odio
con l’insegnamento e la vita accademica), ciò che accomuna DFW e John
Nash è proprio il complesso rapporto che i due intrattengono con la
realtà. A entrambi si adatta benissimo il motto della terapia di
riabilitazione “A ridurmi così sono state le mie grandi idee”: menti
troppo complesse che cercano di interpretare e mettere in ordine realtà
troppo complesse. L’uno con i numeri, l’altro con le parole. Solo che –
DFW se ne accorge presto – è impossibile mettere ordine nella realtà,
“semplicemente perché è troppa!”. Un fragoroso e
costante mitragliare di input di informazione, stimoli cognitivi,
sensoriali, pubblicitari: un “Rumore Totale” di fronte a cui la mente
passiva si annulla, e la mente ricettiva implode per l’impossibilità di
elaborarli tutti.
Allo stesso modo è difficile elaborare tutta in una volta la
biografia di Wallace scritta da Max. Non per la quantità di dati che
fornisce: anzi, a differenza di altri testi del genere la butta molto
meno sull’erudito, e per nulla sul gossipparo (P.S.: grazie, DeeTee).
Semmai, per l’immediatezza senza sconti dell’impatto con l’esperienza di
vita di DFW a cui il testo di Max costringe il lettore. Rapporto con la
madre, confronto-scontro con la scrittura (sempre più travagliato e
impotente), sessuomania, droga, alcol e riabilitazione, donne
(tantissime donne), successo letterario vissuto come fallimento,
relazioni-rifugio con colleghi come Franzen e DeLillo: Max ci guida
attraverso la vita di DFW senza mai lasciarsi andare alla facile
tentazione di calare nel suo racconto l’esca del sentimentalismo.
Racconta e descrive con l’obiettività analitica del vero biografo, e a
volte si ha quasi l’impressione straniante – quando le cose cominciano
ad andare per il verso giusto, i tasselli della vita di DFW sembrano
incastrarsi senza scosse, insegnamento, scrittura e riabilitazione vanno
a gonfie vele – che in fondo un finale diverso sia possibile, che forse
la corsa verso il buio non sai poi così scontata. Ma ovviamente
l’epilogo non poteva essere che un finale alla DFW: brusco, quasi
interrotto, in cui la parola sembra scomparire e lasciare una
sospensione a forma di spazio vuoto. Come in Infinite Jest, il vero finale è al di là del testo.
Questo per quanto riguarda il racconto della vita intesa come
successione di fatti. Ma quella di DFW è stata soprattutto una vita
letteraria, e a Max non sfugge mai di mano il doppio filo che intesse il
racconto. In parallelo con la propria riabilitazione, DFW intendeva
anche guarire la narrativa contemporanea: che gli sembrava anch’essa
malata di un solipsismo passivo utile solo a precipitare ulteriormente
gli uomini in una gabbia di solitudine ed esclusione. Le soluzioni
escogitate da chi lo aveva preceduto – postmodernisti, realisti,
minimalisti – si erano rivelate non solo inefficaci, ma
controproducenti: l’ironia con cui avevano cercato di scuotere i lettori
altro non era se non una forma alternativa, disincantata del male
stesso. L’intrattenimento insomma aveva fallito, ci voleva qualcosa che
andasse oltre. E proprio “Un intrattenimento fallito” doveva essere il
sottotitolo (poi rifiutato dall’editor Michael Pietsch) di Infinite Jest:
l’opera che doveva guarire il lettore distogliendolo dalla pura
passività del consumatore e sfiancandolo, costringendolo a continui
andirivieni, stordendolo con una trama distorta, enciclopedica,
vorticosa, forzandolo ad andare oltre il racconto stesso per
comprenderne davvero il significato.
Le pagine dedicate alla complessa lavorazione di Infinite Jest,
così come quelle in cui Max analizza il rapporto sempre problematico di
Wallace con la propria opera, con i suoi colleghi o le correnti
letterarie a cui aderiva contrapponendosi, sono tra le migliori del
libro. Perché ci mostrano, in fieri, la costruzione di un nuovo
concetto di narrativa ad opera di un uomo che, nel frattempo, andava
anch’egli costruendosi o disfacendosi di pari passo con la sua opera. E
che, nella propria esistenza quotidiana, sembrava riflettere come in uno
specchio distorto tutte le complesse problematiche del suo lavoro di
scrittore. Vista in questa luce, sembra assumere un significato del
tutto particolare anche la circostanza che DFW se ne sia andato
lasciando incompiuto il suo ultimo romanzo, Il re pallido, su
cui si era impantanato al punto da prosciugare del tutto le proprie
residue energie. Una vita incompiuta per un’opera incompiuta.
L’ironia ultima è che DFW sia diventato proprio ciò che aveva sempre
rifuggito: una rockstar. Un idolo incondizionato delle masse di lettori
(o, più spesso, di non-lettori) che hanno finito per trasfigurarlo in
una sorta di Kurt Cobain della narrativa, distorcendo completamente quel
messaggio che per tutta la vita aveva cercato di trasmettere. Proprio
per questo uno dei pregi migliori del libro di Max sta nell’intensità
con cui ci ricorda, ad ogni pagina, la sostanza di quel messaggio. Che è
semplice, guardate: ci vuole un libro intero a spiegarcelo, ma una
volta capito è proprio semplice.
Dice solo: non venerate gli idoli, non ingabbiate la vostra anima.
Dimenticatevi di me. Leggete. E lasciate che la letteratura cerchi di
insegnarvi cosa significa “essere un fottuto essere umano”.
Trovato qua: Holden & Company: Immaginari e contraddizioni a stelle e strisce
1 commento:
Ciao! Grazie per aver ripreso il mio post (e per aver citato la fonte); peccato solo che su Liquida come autore del post figuri tu... :P
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