E' uscita l'ultima parte di un racconto nato intero e poi spezzettato. Il sito che lo ospita è L'Unidici - Informazione pura, mentre il racconto, che ha come protagonista un personaggio che NON si chiama Ted, ha il titolo molto originale di Non mi chiamo Ted.
Potete leggere la quarta e ultima parte a questo indirizzo:
Non mi chiamo Ted - Parte IV
Per chi non lo avesse ancora fatto è forse il momento migliore per ricomporre i vari pezzi e leggerlo tutto intero come era stato concepito.
martedì 28 gennaio 2014
lunedì 27 gennaio 2014
Non so niente di te
Forse sentivo il bisogno, per veder meglio, di allontanare gli oggetti e poi di avvicinarli.
Era il preferito, lui lo sapeva benissimo, non c’era bisogno di tante parole. E crescere con questa certezza gli aveva dato qualcosa d’impagabile nella vita, che ben pochi ricevono: la fiducia che, comunque andassero le cose, per quanto il mondo fosse vasto e complicato, c’era una persona, foss’anche quella sola, che tra tutti i milioni e milioni di esseri umani, senza condizioni né ricatti, lo amava più di tutti, lo anteponeva a qualsiasi altro. Che meraviglia.
Ecco, è appunto questo: nessuno può dire niente perché nessuno sa mai niente! Lo capisci questo?
Così va il mondo, a volte. Che quel che uno s’aspetta non succede, e quel che non ci si aspetta invece sì.
Si sentiva bene, leggera, come quando nuotando ci si ferma a fare il morto e ci si lascia galleggiare, così, per il gusto di sentire che il corpo si abbandona, ma l’acqua lo sostiene.
Amava talmente quel ragazzo che pensava di sapere tutto di lui. Come se l’amore fosse conoscenza… che ingenuità!
Non capiamo mai bene coloro che amiamo, proprio perché li amiamo. Molto più facile capire chi non amiamo, chi ci è più distante, magari antipatico. Lì riusciamo ad avere un occhio lucido perfetto. Mettiamo a fuoco meglio, quando il cuore non frappone filtri al nostro sguardo diretto.
Con quanti filtri davanti agli occhi vediamo gli altri? E un essere tanto amato, siamo in grado di vederlo per quel che è, senza rivestirlo degli abiti che noi vorremmo avesse?
Non voleva più aver fretta, andar veloce. L’aereo ti sposta, ti cambia di luogo che manco te ne accorgi, non ti dà modo di capire, di renderti conto, di sentirla dentro di te, la vita che ti passa. Lui voleva accorgersene, invece, della vita. Erano troppo belle le ore lunghe. Non saper che fare, mettersi su un sedile, distendere le gambe, chiudere gli occhi. O tenerli aperti a guardare la gente, leggere, camminare un po’, andare fuori, fumarsi una sigaretta, prendere qualcosa al bar. Le sale d’attesa. La bellezza estenuatane delle sale d’attesa. Oh, se la vita fosse questo: una gigantesca sala dove aspetti, e intanto giri, e fai, e pensi. E il tempo passa, e tu te lo prendi.
- E… come passa il tempo?
- È lui che passa, non io.
Se mi fai una domanda, lasciami il tempo di pensare, no? Cos’è, una gara al cronometro? Cosa vuoi da me, che capisca le cose, che ci pensi, o solo che sia veloce?
Perché i libri sono il tempo. E leggere, poi, è solo questo: vedere il tempo mentre passa.
Si era commossa di fronte a quel signore distinto che non trovava le parole, che non finiva neanche una frase. Pensò che era una cosa bella, un uomo che non finisce le frasi. Vuol dire che ha dentro un grumo di dolcezze che non si sono ancora sciolte.
Paola Mastrocola
Era il preferito, lui lo sapeva benissimo, non c’era bisogno di tante parole. E crescere con questa certezza gli aveva dato qualcosa d’impagabile nella vita, che ben pochi ricevono: la fiducia che, comunque andassero le cose, per quanto il mondo fosse vasto e complicato, c’era una persona, foss’anche quella sola, che tra tutti i milioni e milioni di esseri umani, senza condizioni né ricatti, lo amava più di tutti, lo anteponeva a qualsiasi altro. Che meraviglia.
Ecco, è appunto questo: nessuno può dire niente perché nessuno sa mai niente! Lo capisci questo?
Così va il mondo, a volte. Che quel che uno s’aspetta non succede, e quel che non ci si aspetta invece sì.
Si sentiva bene, leggera, come quando nuotando ci si ferma a fare il morto e ci si lascia galleggiare, così, per il gusto di sentire che il corpo si abbandona, ma l’acqua lo sostiene.
Amava talmente quel ragazzo che pensava di sapere tutto di lui. Come se l’amore fosse conoscenza… che ingenuità!
Non capiamo mai bene coloro che amiamo, proprio perché li amiamo. Molto più facile capire chi non amiamo, chi ci è più distante, magari antipatico. Lì riusciamo ad avere un occhio lucido perfetto. Mettiamo a fuoco meglio, quando il cuore non frappone filtri al nostro sguardo diretto.
Con quanti filtri davanti agli occhi vediamo gli altri? E un essere tanto amato, siamo in grado di vederlo per quel che è, senza rivestirlo degli abiti che noi vorremmo avesse?
Non voleva più aver fretta, andar veloce. L’aereo ti sposta, ti cambia di luogo che manco te ne accorgi, non ti dà modo di capire, di renderti conto, di sentirla dentro di te, la vita che ti passa. Lui voleva accorgersene, invece, della vita. Erano troppo belle le ore lunghe. Non saper che fare, mettersi su un sedile, distendere le gambe, chiudere gli occhi. O tenerli aperti a guardare la gente, leggere, camminare un po’, andare fuori, fumarsi una sigaretta, prendere qualcosa al bar. Le sale d’attesa. La bellezza estenuatane delle sale d’attesa. Oh, se la vita fosse questo: una gigantesca sala dove aspetti, e intanto giri, e fai, e pensi. E il tempo passa, e tu te lo prendi.
- E… come passa il tempo?
- È lui che passa, non io.
Se mi fai una domanda, lasciami il tempo di pensare, no? Cos’è, una gara al cronometro? Cosa vuoi da me, che capisca le cose, che ci pensi, o solo che sia veloce?
Perché i libri sono il tempo. E leggere, poi, è solo questo: vedere il tempo mentre passa.
Si era commossa di fronte a quel signore distinto che non trovava le parole, che non finiva neanche una frase. Pensò che era una cosa bella, un uomo che non finisce le frasi. Vuol dire che ha dentro un grumo di dolcezze che non si sono ancora sciolte.
Paola Mastrocola
mercoledì 22 gennaio 2014
Caffettiera rossa su sfondo bianco
Nella foto c’è una caffettiera rossa, su sfondo bianco. Lo sfondo è così
bianco da trascendere il significato stesso della parola bianco, del
colore. Lo sfondo diventa più bianco del bianco superandone il confine.
Diventa un non colore. Un non colore talmente impalpabile che sembra
essere infinito, con prospettive tanto sfuggenti da oltrepassare
l’orizzonte e correre ancora più lontano.
C’è questa caffettiera, ed è rossa. Panciuta, con il profilo simile a quello di una persona grassa. Ha il manico ricurvo posto sul lato superiore, fatto di legno, mentre il beccuccio si allunga in verticale uscendo da un lato.
La caffettiera è la chiave di tutto, anche se può non sembrare. È una chiave che fa di tutto per distogliere l’attenzione da se stessa. Ma come ogni chiave è inutile se non viene usata in combinazione con una serratura. Una chiave che non entra in nessuna toppa di nessuna porta di nessuna casa o stanza, è un oggetto che non serve a nulla. È una chiave, così come il bianco dello sfondo, una chiave non chiave.
La serratura in questo caso è proprio lo sfondo bianco. Uno sfondo che può sembrare non contenere niente, non essere niente, e che invece contiene quella che potrebbe essere definita una porta. È lì, se non ben visibile almeno non tanto nascosta da risultare invisibile. Siamo noi a non vederla, ma solo per il semplice motivo che non la vogliamo vedere. Non la scorgiamo nel bianco del bianco, nonostante questo esiste benissimo, ed è lì, proprio dietro la caffettiera rossa. Se decidiamo di aprirla usando la caffettiera, e varcarne la soglia, bisogna fare una serie di ragionamenti che potrebbero essere alquanto appesi a esili fili sottili.
Mettiamo che lo sfondo sia talmente bianco da non essere bianco, proprio come dicevamo prima. Mettiamo che chi ha posto lo sfondo dietro la caffettiera abbia strofinato così tanto lo sfondo stesso da toglierne dalla superficie tutto il colore che lo poteva ricoprire. Lo ha fatto diventare trasparente. È diventato uno sfondo che non è altro che un vetro: pulito, lucido; perfetto. Nel caso in cui fosse davvero trasparente ecco che si compie la magia. Ciò che si sta guardando, la caffettiera rossa su sfondo bianco, non è più la caffettiera rossa su sfondo bianco, ma diventa invece lo sfondo bianco, solo e soltanto. La caffettiera rossa sparisce dall’immagine, diventa a sua volta trasparente. Questo non tanto perché il cervello non la avverte, quanto piuttosto perché nel percorso dello sguardo quest’ultimo la schiva; o se vogliamo parlare in termini prettamente più neurologici, e giusti, la figura della caffettiera è catturata dagli occhi, ma l’impulso che l’organo visivo invia al cervello si perde nel tragitto che dall’esterno porta all’interno. Quando l’informazione arriva al cervello, la caffettiera rossa è sparita, ferma magari da qualche parte lungo il nervo ottico. Il cervello si concentra sull’aspetto più interessante di quanto percepisce, scartando automaticamente il resto. In questo caso ciò che è più intrigante è lo sfondo, non un oggetto normalissimo e quotidiano quale la caffettiera. La caffettiera è solo la chiave; la porta è lo sfondo. Una volta aperta la porta la chiave diventa inutile, non è più così importante. A cosa serve una chiave che apre una porta già aperta (supponendo che quest’ultima non possa essere richiusa)? A niente, appunto. La caffettiera non è niente, e come niente scompare.
Si arriva perciò ad avere una foto che raffigura solo uno sfondo bianco infinito, un campo lunghissimo che non si pone confini, che non ha confini. È questo che attira l’attenzione in modo talmente esclusivo: lo sfondo non pare avere fine, ma all’interno della foto viene ugualmente racchiuso dentro dei confini. Guardi la foto e la foto non si ferma sulla carta sulla quale è stampata, va oltre. La foto ha una tridimensionalità verso l’interno, quella che si è abituati a chiamare una percezione di profondità, nonostante non abbia nessun punto di riferimento da usare come paragone. Questo fa scattare definitivamente la serratura. La porta si apre, magari scricchiolando un po’ sui cardini, e mostra quanto deve essere mostrato, ovvero il significato della foto della caffettiera rossa su sfondo bianco.
La foto si intitola proprio così: Caffettiera rossa su sfondo bianco. Ma chi la guarda non osserva la caffettiera, si sofferma in modo maniacale sullo sfondo. Questo perché lo percepisce irreale, ne vuole capire il senso, quasi fosse il trucco di un prestigiatore: è spinto a scoprirne il trucco. Quando un oggetto (o una persona) reale viene calato in un contesto che non è reale, o che per lo meno non viene riconosciuto come reale, l’oggetto (o la persona) perde la sua caratteristica concreta e diventa finto, palesemente artificiale.
Per quanto ti possa affannare ad arricchire l’oggetto della tua attenzione di particolari sempre più dettagliati, tutto per rendere la rappresentazione della realtà quanto più vicina possibile alla realtà stessa, non è l’oggetto della tua attenzione a dover essere davvero oggetto della tua attenzione. È il contorno che dovrebbe ricevere quanta più attenzione possibile, anche più dell’oggetto che più ti interessa. Più reale e completo è il contorno, lo sfondo, tanto più visibile diventa la caffettiera.
C’è questa caffettiera, ed è rossa. Panciuta, con il profilo simile a quello di una persona grassa. Ha il manico ricurvo posto sul lato superiore, fatto di legno, mentre il beccuccio si allunga in verticale uscendo da un lato.
La caffettiera è la chiave di tutto, anche se può non sembrare. È una chiave che fa di tutto per distogliere l’attenzione da se stessa. Ma come ogni chiave è inutile se non viene usata in combinazione con una serratura. Una chiave che non entra in nessuna toppa di nessuna porta di nessuna casa o stanza, è un oggetto che non serve a nulla. È una chiave, così come il bianco dello sfondo, una chiave non chiave.
La serratura in questo caso è proprio lo sfondo bianco. Uno sfondo che può sembrare non contenere niente, non essere niente, e che invece contiene quella che potrebbe essere definita una porta. È lì, se non ben visibile almeno non tanto nascosta da risultare invisibile. Siamo noi a non vederla, ma solo per il semplice motivo che non la vogliamo vedere. Non la scorgiamo nel bianco del bianco, nonostante questo esiste benissimo, ed è lì, proprio dietro la caffettiera rossa. Se decidiamo di aprirla usando la caffettiera, e varcarne la soglia, bisogna fare una serie di ragionamenti che potrebbero essere alquanto appesi a esili fili sottili.
Mettiamo che lo sfondo sia talmente bianco da non essere bianco, proprio come dicevamo prima. Mettiamo che chi ha posto lo sfondo dietro la caffettiera abbia strofinato così tanto lo sfondo stesso da toglierne dalla superficie tutto il colore che lo poteva ricoprire. Lo ha fatto diventare trasparente. È diventato uno sfondo che non è altro che un vetro: pulito, lucido; perfetto. Nel caso in cui fosse davvero trasparente ecco che si compie la magia. Ciò che si sta guardando, la caffettiera rossa su sfondo bianco, non è più la caffettiera rossa su sfondo bianco, ma diventa invece lo sfondo bianco, solo e soltanto. La caffettiera rossa sparisce dall’immagine, diventa a sua volta trasparente. Questo non tanto perché il cervello non la avverte, quanto piuttosto perché nel percorso dello sguardo quest’ultimo la schiva; o se vogliamo parlare in termini prettamente più neurologici, e giusti, la figura della caffettiera è catturata dagli occhi, ma l’impulso che l’organo visivo invia al cervello si perde nel tragitto che dall’esterno porta all’interno. Quando l’informazione arriva al cervello, la caffettiera rossa è sparita, ferma magari da qualche parte lungo il nervo ottico. Il cervello si concentra sull’aspetto più interessante di quanto percepisce, scartando automaticamente il resto. In questo caso ciò che è più intrigante è lo sfondo, non un oggetto normalissimo e quotidiano quale la caffettiera. La caffettiera è solo la chiave; la porta è lo sfondo. Una volta aperta la porta la chiave diventa inutile, non è più così importante. A cosa serve una chiave che apre una porta già aperta (supponendo che quest’ultima non possa essere richiusa)? A niente, appunto. La caffettiera non è niente, e come niente scompare.
Si arriva perciò ad avere una foto che raffigura solo uno sfondo bianco infinito, un campo lunghissimo che non si pone confini, che non ha confini. È questo che attira l’attenzione in modo talmente esclusivo: lo sfondo non pare avere fine, ma all’interno della foto viene ugualmente racchiuso dentro dei confini. Guardi la foto e la foto non si ferma sulla carta sulla quale è stampata, va oltre. La foto ha una tridimensionalità verso l’interno, quella che si è abituati a chiamare una percezione di profondità, nonostante non abbia nessun punto di riferimento da usare come paragone. Questo fa scattare definitivamente la serratura. La porta si apre, magari scricchiolando un po’ sui cardini, e mostra quanto deve essere mostrato, ovvero il significato della foto della caffettiera rossa su sfondo bianco.
La foto si intitola proprio così: Caffettiera rossa su sfondo bianco. Ma chi la guarda non osserva la caffettiera, si sofferma in modo maniacale sullo sfondo. Questo perché lo percepisce irreale, ne vuole capire il senso, quasi fosse il trucco di un prestigiatore: è spinto a scoprirne il trucco. Quando un oggetto (o una persona) reale viene calato in un contesto che non è reale, o che per lo meno non viene riconosciuto come reale, l’oggetto (o la persona) perde la sua caratteristica concreta e diventa finto, palesemente artificiale.
Per quanto ti possa affannare ad arricchire l’oggetto della tua attenzione di particolari sempre più dettagliati, tutto per rendere la rappresentazione della realtà quanto più vicina possibile alla realtà stessa, non è l’oggetto della tua attenzione a dover essere davvero oggetto della tua attenzione. È il contorno che dovrebbe ricevere quanta più attenzione possibile, anche più dell’oggetto che più ti interessa. Più reale e completo è il contorno, lo sfondo, tanto più visibile diventa la caffettiera.
lunedì 20 gennaio 2014
Ogni storia d'amore è una storia di fantasmi
Ma a differenza dei compagni, che avevano successo con le ragazze, Wallace, in preda alla frustrazione, cercava di affrontare il complesso problema dell’attrazione fisica così come affrontava la traiettoria di un colpo sul campo da tennis: “Come si fa a caprie che è il momento di invitare una ragazza a uscire?” “Come si fa a capire quando la si può baciare?” i compagni gli consigliavano di non pensarci troppo. L’avrebbe intuito.
Nella logica si può avere o ragione o torto, e tutto ciò che può impedirti di avere ragione – fiacchezza, superficialità nel ragionamento – può essere superato con una spiccata capacità di concentrazione.
Barthelme non raccontava storie, ma tentava di incrinare la superficie dell’illusione letteraria per mettere a nudo i meccanismi.
Per McLagan il suicidio rappresentava l’uscita di scena ottimale – forse addirittura necessaria – per l’artista sensibile. Wallace, pur soffrendo di un malessere più profondo di quanto non sospettasse l’amico, non ne era altrettanto sicuro. Il suicidio gli pareva una scappatoia, piuttosto che una soluzione. Conosceva troppo bene la depressione per trovarla seducente.
Uno dei sintomi più terribili della depressione maggiore è l’impossibilità di fare qualcosa, o di non fare nulla.
Wallace aveva la sensazione, giustificata o meno, che qualcuno di cui si fidava lo stesse tradendo. Sia la madre sia Susan erano insomma responsabili del crimine di ridefinire la sua realtà
La donna deve prendere coscienza del fatto che la definizione di un comportamento degno di stima o accettabile è cambiata. Le persone colte e sensibili non suscitano più interesse, la nostra ammirazione va a chi esibisce la propria ignoranza e grettezza.
Wallace stava compiendo il passo decisivo: universalizzare le proprie nevrosi.
Proveniva da una famiglia di scettici, diceva che i suoi genitori si erano rifiutati di portare lui e la sorella in chiesa per evitare che la loro capacità di ragionamento venisse contaminata: i credenti avevano poco da invidiare ai creduloni.
Le novità della produzione narrativa contemporanea non lo interessavano granché, e i pochi libri che valevano la pena di essere letti, valevano anche la pena di essere scritti, dunque Wallace si struggeva di non averlo fatto di persona.
L’alcolista veniva definito come un forte bevitore che non riconosceva di essere alcolista, dunque credere di non essere un alcolista costituiva un sintomo della dipendenza, che tu fossi alcolista o meno.
L’angoscia, scrisse, aveva molteplici cause, dalla paura del successo alla paura del fallimento. E le paure più ordinarie celavano inoltre il timore di essere a sua volta ordinario.
Non c’era motivo di credere che fotografare una condizione disperata equivalesse a indicare una via d’uscita, anzi, l’operazione rischiava di rendere l’imprigionamento più gradevole.
Se le parole sono tutto ciò che abbiamo, sono dio e il mondo, allora dobbiamo trattarle con attenzione e rigore: dobbiamo venerarle.
Se il cuore fremeva, a chi importava cosa faceva la testa?
Gli chiesero espressamente un pezzo contraddistinto della sua voce narrante ormai peculiare, quel tono da genio sensibile e sincero col freno a mano tirato.
“Ti dirò che mi ero ripromesso di non guardarmi mai allo specchio durante quella festa, - spiegò poi in un’intervista, - perché sapevo che c’era tanta altra gente che mi stava guardando, e se mi fossi messo a pensare al mio aspetto fisico, sarei diventato pazzo.”
Il suo tentativo di condannare la seduzione si era dimostrato molto seducente.
Cerco sempre di ricordarmi di quanto sono fortunato di poter scrivere, e due volte, tre volte più fortunato perché tutti gli altri sembrano voler leggere quello che scrivo, per non dire della pubblicazione. Non sono una pollyanna: questa storia di tenersi su di morale è una faticaccia, e spesso non mi c’impegno abbastanza. Ma ci provo. […] La vita è bella.”
Come scrivere della noia senza risultare tediosi?
“Come fai a non esaurirti e a non sentirti l’ennesimo spacciatore di cose già dette?” “È come ascoltare una trascrizione della mia mente”, appuntò Wallace in calce alla lettera di risposta, in cui spiegava: “Sostanzialmente: mi identifico. Non ho risposte. So che mi viene più facile quando accetto quanto sono piccolo, e quanto è trascurabile il mio contributi in termini % al tutto. Ma nel > 60% del tempo non lo accetto/non posso accettarlo. Chissà perché.”
Non è difficile avere successo ubbidendo alle convenzioni; ciò che è difficile è dimostrarsi consapevoli della vita mentre la si vive.
D. T. Max
martedì 14 gennaio 2014
Dicembre 2013
"Tenevo il conto dei giorni che passavano, nella convinzione ossessiva che, misurandolo, il tempo non sarebbe andato realmente perduto."
Jennifer Egan
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