venerdì 31 dicembre 2010

Una guerra fredda

e gli strascichi delle nostre ombre lunghe
come tutta via XX settembre
avevi ancora le tue nausee
e noi respiravamo forte con le transenne tra le costole
che il nostro ridere fa male al presidente

mi parlavi di risorse limitate, della tua pelle rovinata
di eclissi per non rivederci
che a forza di ferirci siamo diventati consanguinei

e dici questa città non ci morirà tra le braccia
e dici questa città non ci morirà tra le braccia

e gli strascichi delle nostre ombre lunghe
come tutta via XX settembre
non c'è un cazzo da piangere
spareremo dei forse da tutte le finestre
venderemo le nostre ore a 6 euro
lasceremo delle scie elettroniche

e di notte le esalazioni di monossido di carbonio del nostro amore
e le cicatrici sui volti dei magrebini distrutti
come dei paracarri, ronzio del lavoro di tutti
dei nostri tribunali aperti tutte le notti
dei processi di tre anni sui letti dell'Ikea distrutti
esplosi come le stazioni
come quella sera che ti eri sciolta i capelli
come le portiere sbattute che da lontano ti sembravano degli applausi

e posso darti degli altri nomi stupidi
degli altri campi gelidi
e mi urli che il tuo cuore non è un bilocale da 300 euro al mese
andremo a Roma a salvare le balene

gli strascichi delle nostre ombre lunghe
come tutta via XX settembre
vogliamo anche le rose delle stelle tra le costole
tra le tue occhiaie azzurre, perchè preferiamo perdere
le luci di Dicembre delle raffinerie di Ravenna
perchè è una guerra fredda
perchè è una guerra fredda

gli altri sono svenuti sotto i portici
sotto i nostri cieli indecifrabili
altre eclissi per non rivederci
che a forza di ferirci siamo diventati consanguinei

e dici questa città non ci morirà tra le braccia
e dici questa città non ci morirà tra le braccia

Performed by Le luci della centrale elettrica

giovedì 30 dicembre 2010

All'orizzonte coccodrilli e fuochi appena accesi

guardando fuori dalla finestra, dopo aver alzato gli avvolgibili bianchi e vecchi, vedo l'orizzonte vestirsi di nuvole scure, gonfie più di rabbia che non di pioggia. mi chiedo se durante la notte verrà giù il diluvio o se tutta quella violenza nera sia solo una facciata, apparenza, come la mia. magari le nuvole che vedo sono solo tante disordinate parole scarabocchiate una sopra l’altra, annodate tra le lettere, scritte così fitte e serrate da non distinguerle neppure più. avrebbe poco senso allora continuare a scrivere, ripassarci sopra. sarebbe più saggio posare la penna e aspettare che l'inchiostro si disperda sopra il cielo, o che cada giù in basso, in una pioggia che saprebbe di petrolio e di frasi pensate in fretta e buttate giù alla rinfusa per dire qualcosa che poi si perde o si complica maggiormente.
guardo l'orizzonte e penso che le nuvole grigio scuro sono un po' come l'istinto, quell'animale mica tanto domestico che ti spinge a fare dire scrivere cose di cui poi ti penti. ogni nuvola è la brutta copia di un discorso, con tanto di ripensamenti, freghi sulle parole, scarabocchi e cancellature andate male, quasi a rovinare il foglio. ti dici: lo riguardo prima di consegnare, lo ricopio, cerco di non affrettare troppo la calligrafia che altrimenti si fa illeggibile e brutta e per niente arrotondata, anzi piena di spigoli sui quali è facile picchiare e farsi male; rileggerò tutto quanto, ti dici con i fogli ancora in mano, cancellerò le frasi che hanno poco senso o che di senso ce ne hanno pure troppo; risistemerò alcuni periodi, dandogli un certo ordine temporale, in modo da tracciare un percorso sterrato e dritto e accessibile per chi volesse poi avventurarsi tra la selva dei miei pensieri. ma poi l'istinto, o le nuvole, o i fogli, scappano via sparpagliandosi tutti quanti giù per terra; inizia a piovere, e l'istinto corre così veloce che è talmente difficile stargli dietro per riacciuffarlo. alla fine ti dici che poco importa: quel che è scritto è scritto, quel che detto è detto. è inutile piangere sul latte versato. ecco cosa è l'istinto: un coccodrillo. ti dice cosa fare, cosa dire, e poi è il primo che ti punta il dito contro, dicendoti che hai fatto una gran bella cazzata a dire o fare quel che hai fatto o detto.
sono stato così tanto tempo oggi a guardarmi fuori che adesso mi fanno male gli occhi: me li sento gonfi, umidi sempre sul punto di lacrimare. i paesaggi, tutti quanti, sia quelli sfrecciati via veloci in movimento che quelli immobili quasi imbarazzati nell'esser colti impreparati quando non sono riusciti a mettersi in posa per tempo, si accavallano in nidi di rondine sulla pupilla, scendendo confusi verso la retina, e paiono trivellare quella parte del cervello che sta appena dietro le orbite. non è mal di testa, mi dico, perché la testa ciò che ho fatto non ce l'ha. è più una sensazione di bruciore, un fuoco basso zampillante che presto o tardi si spegnerà. è il pentimento, forse. di solito si accende giusto un attimo dopo aver commesso qualche cosa. un errore? mi chiede sogghignando il coccodrillo.
sono stanco, forse è solo questo. anche se magari riuscirei a stare sveglio ancora per diverse ore, ciò di cui avrei bisogno sarebbe soltanto un bel po' di sonno. dormire tranquillo, senza pensarci, lasciandosi alle spalle coccodrilli, focolai in spiaggia o dentro cassonetti dell'immondizia. tutto il fumo che ne esce puzza, come la spazzatura bruciata dentro i fuochi del pentimento.
chiudo gli occhi: sogno il sole.

mercoledì 29 dicembre 2010

Jack

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Il programma al-telefono-con-papà era un disastro. Mi teneva a parlare all’infinito, e anche se c’erano un sacco di cose da dirgli, magari persino da urlargli contro, in fondo avevo solo una cornetta bianca in mano. Camminavo avanti e indietro in cucina, avvolgendomi attorno il filo, aprendo e chiudendo ogni cosa – i mobiletti, il frigorifero, il barattolo di biscotti. Sentivo che lui cercava di tirarmi fuori le parole. Ma un telefono non era come un padre.

Ci sono persone che passano la vita a cercare di capire come essere felici.

“Ti va un dolce?” ha chiesto Bob. “C’è della torta di carote.”
Ora, siamo seri, la torta di carote secondo voi è un dolce? Non penso proprio. Cioè, non è male, ma volete mettere con una coppa di gelato alla vaniglia ricoperta di cioccolato fuso e una bella ciliegina in cima? Se uno ha in casa la torta di carote dovrebbe chiedere semplicemente: Ti va un po’ di torta di carote? Invece di crearti delle aspettative.

Le ragazze hanno la tremenda abitudine di ridurre la mia capacità oratoria a quella di un neonato. Mamma, pappa, sesso, sesso, è più o meno la portata del mio vocabolario. Mi rendo conto di essere totalmente inadeguato ai rapporti sociali, ma si spera che passi, prima o poi. Cioè si spera che crescendo sarà meno come sono ora. Si spera che da grande non diventerà un maniaco.

“Ho paura,” ha detto, guardando fuori dalla finestra senza vetri verso il retro della casa dei suoi. “Ho paura, “ ha ripetuto, più forte, come se pensasse che non l’avevo sentito la prima volta.
“Anche io.” Mi ha guardato come se mi fossi trasformato da ragazzo in elefante e poi di nuovo in ragazzo. “Abbiamo tutti paura.” Me lo sono stretto forte al petto. E poi mi è dispiaciuto essere stato così onesto, perché Sammy era solo un bambino. “Vedrai che si risolve tutto.”

“Le cose possono andare avanti per un sacco di tempo, senza che nessuno se ne accorga. Poi si scopre qualcosa, e sembra improvviso, ma in realtà non lo è per niente.”

Le feste di compleanno mi infastidiscono da morire. Sono una di quelle cose in cui sei obbligato a esser felice. E anche se sei completamente depresso, devi fare finta che sei felice di essere nato, senza tener conto del fatto che crescere significa avvicinarsi alla morte.

Quando se ne è andata morivo dalla voglia di andarmene con lei.
“Ci vediamo domani,” ha detto, salutandomi con la mano. E avevo la sensazione che il domani non sarebbe mai arrivato.

Il fatto è che quando compi sedici anni, non ne hai più quindici. Non c’è modo di sfuggire al fatto che stai crescendo, che probabilmente sotto le ascelle hai già tutti i peli che avrai nella vita, e così via. Me ne andavo in giro ossessionato dal dubbio: dimostravo sedici anni o no? E sono arrivato alla conclusione ch per certi versi ho sedici, diciassette, diciotto anni, ma che sono anche molto simile a un dodicenne.
Quello che sto cercando di dire è che il mio concetto di divertimento è uguale identico a quello che avevo da bambino, solo che sta diventando più difficile riuscire a metterlo in pratica. E mentre riflettevo su tutte queste cose avevo il pensiero ricorrente che in quel momento più che mai ero incastrato tra due mondi. Incastrato tra essere bambino ed essere adulto. Le cose che si fanno da piccoli non sono poi così divertenti, ma quelle che fanno gli adulti sembrano ancora troppo difficili e, per essere sinceri, una noia mortale.

Grazie è una parola meravigliosa perché puoi dirla anche quando non lo pensi davvero e di solito la gente non si accorge della differenza.

Ho pensato a come tutti mi avevano sempre detto che potevo diventare qualsiasi cosa desiderassi, che mi sarebbe bastato decidere cos’era e metter mici d’impegno. Era la parte del metter mici d’impegno che stavo appena cominciando a capire. Io ci avevo sempre creduto. Mi piaceva l’ida di poter essere qualsiasi cosa, che dovevo essere me stesso e non quello che qualcun altro pensava dovessi essere.
Ma proprio in quel momento, mentre passeggiavo con Max e Maggie, mi sono reso conto che dipendeva tutto da me, che la cosa che sceglievo poi la dovevo fare, e decidere era la parte più semplice. Cioè, mi sono reso conto che dovevo proprio prendere e farla, qualunque cosa fosse.

martedì 28 dicembre 2010

Oceani di rapporti

i rapporti sono così. strani. almeno quelli veri, non quelli di facciata, superficiali. iniziano con qualche timore, ti ci avvicini con dubbi e paure, titubante come quando al mare sembri assaggiare l'acqua con la punta del piede per sentire quanto sia calda prima di tuffarti. è un momento che può durare un'eternità, in una danza durante la quale ripeti questo gesto più e più volte, fino a quando non ti senti sicuro, così come fa allo stesso modo l'altra persona; perché i rapporti sono quelli che leghi, non quelli che ti fai nella testa. così nel ballo siete sempre in due, e alla stessa stregua dei principianti le prime volte vi pestate i piedi, sbattete la testa l'uno contro l'altra, e sembrate goffi, impacciati, sempre insicuri se quello che state facendo sia giusto oppure sbagliato. contate i passi a fior di labbra, quando invece bisognerebbe dimenticare tutto e farsi guidare dalla musica. poco male, verrebbe da dire: si tratta solo del primo rapporto, una volta legato con la prima persona i passi li conosciamo e non saremmo più così imbranati. invece cambia tutto, ogni nuovo partner è sempre una nuova sfida, legami da riallacciare, accordi da regolare, sicurezze da accettare. nei rapporti funziona in questo modo: siamo principianti in eterno.
superato il primo periodo si apre una diga. l'acqua scende a valanga, con violenza, senza ordine. entrambi non conoscete niente dell'altro, siete territori da esplorare nella loro totalità. per questo vi chiedete addosso, vi raccontate il più possibile, vicende, persone, fatti, aneddoti, ricordi, in modo da fornire o avere un quadro completo. c'è sempre quest'urgenza viscerale di farlo nel più breve tempo possibile, perché tutti vogliono smettere di essere per l'altro solo un'idea, la forma di una possibile persona, solo la faccio e il corpo, l'aspetto fisico, e trasformarsi in quello che sono davvero, o che vorrebbero essere. perché a volte conoscere qualcuno è una buona occasione per potersi reinventare, fare tabula rasa, partire da zero, mettere sul piatto il meglio e dimenticare il peggio. fare finta che non ci sia è impossibile, ma almeno non renderlo pubblico, perché fino a quando i propri peccati non sono confessati è un po' più facile fingere.
insomma c'è questa tempesta imperterrita di informazioni, talmente fitta da non fare vedere niente oltre un metro di distanza. e magari tu sei seduto dentro una macchina spenta, parcheggiata ai bordi della strada, ad ascoltare il ticchettio della pioggia sul tettino trasformarsi nel suono più rotondo della grandine, quando l'altra persona inizia - è un'eventualità - a parlare dei proprio sogni, delle proprie aspettative, speranze, paure, illusioni. fino a quando il temporale non cessa, fuori torna sereno. niente più nuvole grigie, il cielo si riapre chiaro con i raggi del sole timido a farsi largo sopra le vostre teste. all'orizzonte si può scorgere pure un accenno di arcobaleno, quasi trasparente, impalpabile appoggiato leggero sopra l'aria. sono i momenti migliori, quelli durante i quali non avete più niente da dirvi e potete dirvi qualsiasi cosa.
l'importante in certi casi è non permettere all'oceano di gonfiarsi. quando si è arrivati a questo punto basta un nulla è tutto si gela. quando si è in acqua non ti accorgi della marea che sale; ma da fuori, una volta uscito, la profondità si nota di più, quando devi rientrarci dentro e il mare ti arriva subito al petto senza neppure accorgersene. quando succede significa che è già troppo tardi, tra te e l'altra persona c'è un oceano nel mezzo, e questo oceano sono tutte le informazioni che ti sei perso, che avete perso a vicenda, quelle che se tutto fosse stato normale, se fosse stati entrambi in acqua, vi sareste scambiati tranquillamente, senza pressioni, una notizia alla volta. invece avete deciso di uscire dall'acqua, uno in america, l'altra in europa, e vi siete fermati a guardare l'orizzonte senza riuscire a scorgere la sponda opposta. da quel momento avete iniziato ad accumulare racconti, mettere da parte storie, avvenimenti, ogni giorno qualcosa di nuovo, di speciale o anche solo di normale, da prendere e conservare in una scatola. forse ci si illude basti tenere a mente tutti i fatti avvenuti, tutti i giorni trascorsi, gli eventi eccezionali così come la quotidianità più noiosa, per potere raccontare poi tutto caso mai si rincontrasse quella persona, il tuo rapporto. si pensa, male che vada si tratta di prendere di nuovo a studiare i primi passi della danza, saltando i momenti d'imbarazzo, partendo non da zero ma almeno da cinque, dieci, non importa su quale scala, ma essere comunque un poco più avanti rispetto alla linea di partenza. invece non è così, perché quando si hanno talmente tante cose da raccontare a una persona che si conosce così bene, non sai mai da quale iniziare, la successione logica si perde, ti rendi conto di trovarti tu stesso in un labirinto di informazioni da cui non riesci a uscire: hai perso la bussola, e rimettere in fila tutta la storia, la tua storia, in modo da renderla comprensibile anche ad altri, a lui a lei, a chissà chi, non è affatto facile quanto credevi. salti da un capitolo all'altro, inizi a parlare da quando vi siete lasciati, poi riprendi da un fatto qualunque successo due anni dopo il vostro ultimo incontro, ci metti dentro persone sconosciute, amicizie non in comune, ti sposti al giorno prima, il giorno prima il vostro attuale incontro, per descrivere la sensazione provata all'idea di rivederla, per tornare ancora indietro, di giorni, mesi, anni, e raccontare qualcosa di cui non credevi di ricordare. scavi buche temporali tra una frase e l'altra, tra un respiro e l'altro, abbassi la testa, distogli lo sguardo. il tutto a intermittenza, spezzettato da attimi di silenzio, o intervallato dallo stesso tipo di racconto balbuziente fatto dall'altra persona.
i rapporti buoni, e interrotti, ripresi, sono congegni arrugginiti che fanno fatica a muoversi. se si è fortunati niente si romperà quando riprenderanno a ticchettare scandendo i minuti, e i fatti, i racconti, e tutto ritornerà come prima, basterà solo rimettere l'ora regolandola nel modo giusto. ma se c'è un consiglio, banale ma quanto mai vero, è quello di non far mai crescere gli oceani, di non farli mai arrugginire, i rapporti, almeno quelli veri.

lunedì 27 dicembre 2010

Cambiare idea

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Ma vivere in modo vario non può essere semplicemente un dono, assegnato dalla casualità della nascita: dev’essere uno sforzo continuo e continuamente rinnovato.

Il suo sogno si nutre di strategie, non di illusioni.

ha mentito per entrare in casa, eppure è venuto per portare alla luce delle verità. È uno scrittore: uno che dice il vero mentendo.

Hollywood è volgare. Ogni inglese lo sa. Lo sa così come sa che in Germania non esiste la comicità, così come sa che gli italiani stanno messi bene in fatto di cucina, di matrimonio, di clima e di panorami, ma non in fatto di governo, di lavoro, di guida automobilistica e di Dio.

Alla nascita, due persone entrano in una stanza e ne escono in tre. Alla morte, entra una persona e non ne esce nessuna. Questa è una battuta a sfondo esistenziale di Martin Amis. Mi piace l’assurdità metafisica che ricava dall’evento della morte, il senso che la morte non avvenga affatto: che sia, anzi, l’esatto contrario di un avvenimento.

La cosa più assurda del morire è la richiesta che noi, i vivi, facciamo ai morenti: li imploriamo di renderci le cose facili.

un’infermiera mi offrì la possibilità di vedere il corpo, e io rifiutai. Fu un errore. Così sono rimasta in uno sketch di cattivo gusto in cui un uomo vivo si trasforma inesplicabilmente in due pinte di cenere e tutti si comportano come se questo non fosse affatto uno sketch, ma la cosa più logica del mondo. Un corpo avrebbe avuto un’assurdità utile, concreta. Avrei capito – o almeno così dice la gente – che la cosa distesa sul lettino non era mio padre. Così com’è andata, invece, mi sono persa la morte, mi sono persa il corpo, mi sono ritrovata in mano la cenere e da questi dati di fatto ho cercato di estrapolare una storia, come fanno gli scrittori, e mi sono scoperta, invece, bloccata in una specie di stasi. Un momento in cui non succede niente, e niente continua a succedere, per sempre.

La realtà è una faccenda molto soggettiva. Non saprei come definirla, se non come una sorta di graduale accumulo di informazioni; e come specializzazione. Se prendiamo un giglio, per esempio, o un qualsiasi altro oggetto naturale, un giglio è più reale per un naturalista che per una persona comune. Ma è ancora più reale per un botanico. E si arriva a un grado ancora più elevato di realtà se il botanico è uno specialista di gigli. Possiamo, per così idre, avvicinarci sempre più alla realtà; ma mai a sufficienza, perché la realtà è una successione infinita di passi, di gradi di percezione, di doppi fondi, ed è dunque inestinguibile, irraggiungibile. Di un particolare oggetto possiamo sapere sempre di più, ma non potremo mai sapere tutto: non c’è speranza. (Vladimir Nabokov)

Quello che è “ricorsivo” nei racconti di Wallace non è la sua voce narrativa ma il modo in cui scorrono le storie, e cioè come versioni verbali di processi matematici, in cui almeno una delle fasi del processo richiede una nuova esecuzione di tutto il processo in questione.

In genere, ciascuno di noi si rifiuta di essere l’altro. Le esperienze che facciamo ci sembrano per forza di cose più reali di quelle altrui, distorte come sono dalla nostra impressione di assoluta centralità.

Zadie Smith

venerdì 24 dicembre 2010

Merry X-Mas

Parlami, ti prego, non andare no
non penso di poterli reggere
Prenditi il diritto di sorprenderti
è proprio me che aiuti a non cadere qui
Merry Christmas

Ho l'universo in fiamme che mi lacera
le gambe rollano e non c'è da ridere
Ho il cuore in gola ed è quasi Natale ma
con tutta quella gente resto qua
Merry Christmas

Parlami, parlami molto di quello che vuoi
Chiedimi, chiedimi cento volte come mai
Che fosse il dubbio di me se non mi trovo piu'?
Ma non mi ridere e non mi trascinare, no
NO!

Performed by Marlene Kuntz

mercoledì 22 dicembre 2010

Il giorno del bucato

il sabato mattina era il giorno del bucato. ricordo ancora quanto ti arrabbiavi perché io non riuscivo a farmelo entrare in testa. lasciavo sempre i vestiti sporchi sparsi un po' ovunque per casa, quando invece avrei dovuto buttarli nel cesto dei panni da lavare, in modo da poterli prendere senza perdere tempo e andare tranquilli in lavanderia, sicuri di non avere dimenticato nulla. le urla poi, molto spesso trattenute per non farsi sentire dai vicini, una volta tornati nello scoprire che c'erano ancora delle mutande in bagno, o dei calzini nascosti in quello spazio ristretto tra il comodino e la parete della camera. mi davi dell'immaturo, infantile. mi chiedevi quando mi sarei deciso a crescere, a mettere la testa a posto, a concentrarmi su qualcosa - per dio, ripetevi, non mi importa cosa, basta che sia qualcosa! - invece di perdermi tra i mille pensieri che mi passavano per il cervello. ti lasci distrarre da qualsiasi minimo dettaglio, borbottavi mentre ordinavi dentro i cassetti la tua biancheria appena lavata.
non sono mai stato a mio agio nel mondo adulto. ho sempre pensato, sbagliando ovviamente, di essere rimasto ancora ai tempi di mia madre, quando ci pensava lei a lavare, stirare, e i vestiti riapparivano quasi per magia dentro l'armadio, puliti e pronti per essere di nuovo indossati. non me ne sono reso conto ora, anche se quando vado da solo in lavanderia a mettere dentro la lavatrice solo i miei panni sporchi, ho molto tempo a disposizione per pensare a quello che è stato, oltre ovviamente a ciò che è. forse farei più bella figura a dire che mentre vedo girare nell'acqua le mie maglie, le camicie, così come le mie vergogne, rifletto su quello che siamo stati, su come ci siamo attirati, ci siamo avvicinati, ci siamo annusati e poi allontanati. ma la verità è che non penso affatto a tutto questo. queste sciocchezze le sapevo già prima, non avevo bisogno di tempo per rifletterci. le nostre differenze erano più evidenti dei nostri interessi comuni. quando ci scontravamo con ciò che ci piaceva e ciò che detestavamo facevamo scintille capaci di appiccare incendi, era sotto gli occhi di tutti, figurati se non le avessi notato.
quello a cui penso mentre aspetto di riprendere i miei vestiti è come avremmo potuto continuare, quali impalcature avremmo dovuto costruirci attorno per tenerci in piedi. e quanto giusto sarebbe stato farlo. voglio dire: a volte capita, come è successo a noi, di incontrare una persona e di vederla magnifica, capire quanto sia straordinaria, intelligente, profonda, e di rimanerne ammaliati, sul colpo. poi, conoscendola, andando a esplorare tutta la sua personalità, scopriamo alcuni punti di contrasto, aspetti che non collidono alla perfezione con i nostri stessi risvolti. per stare insieme, per stare bene insieme, due persone dovrebbero essere un po' come un puzzle, di cui entrambi possiedono solo metà dei pezzi, e tutti gli aspetti delle proprie personalità si dovrebbero incastrare bene o male con le sporgenze e le concavità di ognuno, andando poi a formare il quadro completo. noi invece ci ritrovavamo a parlare male, a volte, avendo per lo stesso punto entrambi il pezzo con il braccio in rilievo, oppure anche un pezzo diverso di due puzzle differenti. il nostro errore forse è stato quello di non voler reputare straordinaria una persona senza volere farla propria. almeno per quanto mi riguarda. il mondo è pieno di persone interessanti, intelligenti, brillanti, il problema è che sono talmente rarefatte che quando ne incontro una, un ragazzo o una ragazza che sia, interessante, mi sento in dovere di avvicinarmi a essa il più possibile, entrare quasi dentro di lei, o fare entrare lei dentro di me. ho l'urgenza quasi fisica di fare parte del suo mondo, di intrecciare i miei aspetti con i suoi, di disegnare una fitta rete di strade e autostrade, sopraelevate, cavalcavia sopra binari ferroviari, passaggi a livello, capaci di unire me a lei e lei a me. invece dovrei trovare il modo di vederla straordinaria ma lasciarla andare, capire che per quanto bella e affascinante, non solo di aspetto fisico ma anche di bellezza e splendore interiore, non è adatta a me. sono così avido a volte da volere accumulare sempre più ricchezza, e bellezza, e tenerezza, e qualsiasi cosa una persona possa stringere dentro di sé, senza rendermi conto che l'importante in certe situazioni non è la quantità, quanto piuttosto la qualità.
so di essermi spiegato peggio della centrifuga che fa girare i miei panni in senso orario, da sinistra a destra, in su e in giù, ma penso che se avessimo davvero voluto fare funzionare le cose tra noi due dentro la lavatrice avremmo dovuto metterci i nostri giorni neri, quelli pieni di litigate, o di incomprensioni silenziose, le porte chiuse a tenerci lontani nella stessa casa, le passeggiate fatte da soli nel freddo di sere durante le quali nessuno dei due aveva voglia di mettersi a tavola per tirarci addosso veleni pieni di odio represso. se lo avessimo fatto magari saremmo riusciti a lavare via da quelle giornate lo sporco che alla fine ci ha stancato. perché via, non prendiamoci per il culo, se abbiamo alzato bandiera bianca non è stato certo per delle puttanate quali il giorno del bucato. quelle erano solo stupidate delle quali poi ridevamo. non avevano spigoli, non erano acide come succo di limone su ferite aperte. erano momenti durante i quali lasciavamo sbuffare via il vapore in eccesso, prima che questo ci facesse esplodere per la troppa pressione. erano interventi programmati, ne eravamo consapevoli, e quando succedevano ci attrezzavamo di conseguenza, indossando cappelli per proteggerci la testa, scarpe antinfortunistiche, così da non farci male. i momenti davvero pericolosi erano quelli che succedevano e basta, che non avvertivano del loro arrivo. le fughe di gas improvvise a insinuarsi tra di noi senza farsi notare, in attesa spasmodica, accumulata di minuti in minuto, che uno di noi due accendesse un fiammifero o un fuoco qualsiasi. quelli si che ferivano, tagliavano, sbranavano, dilaniavano. se non li abbiamo mai messi in lavatrice, questi momenti, un motivo ci sarà stato, e il dolore più grande è forse stato quello di rendersi conto di non averlo fatto non per dimenticanza o per chissà quale stupida cazzata, ma proprio per quell'unico singolo motivo. per me può essere stato uno e per te può esserne stato un altro, non voglio entrare dentro questo labirinto di complessità personali, ognuno ne aveva uno per il quale sarebbe stato pronto a sacrificare pure se stesso. chiamalo orgoglio o dagli il nome che ritieni più opportuno, fatto sta che né io né te abbiamo cercato di pulirci a vicenda, o da soli, da quei giorni sporchi, pur sapendo bene che a forza di ferite alla fine si muore.

martedì 21 dicembre 2010

Un giorno verrò a lanciare sassi alla tua finestra

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È una cosa che non ho mai sopportato, i tempi lenti e forzati che gli adulti usano come arma pedagogica per costringerti a capitolare e a umiliarti davanti a loro. Come se il valore delle tue scelte o delle tue idee fosse proporzionale alla quantità di merda che sei disposto a ingoiare per difenderle.

Quella sera sarebbe stato sbagliato dir cose del genere: erano lì per godersela e illudersi di poter fare tutto quello che volevano, in un futuro perfettamente negoziabile.

Ma quando amiamo qualcuno come io amo nonna Selma siamo disposti a farci carico anche del peso delle bugie, pur di non rompere l’illusione che rende i rapporti quello che sono.

Ogni ragazzo svolge un ruolo preciso nella cronologia della tua evoluzione sentimentale, ma lo scopri solo dopo aver messo tra te e lui una distanza ragionevole.

Acceleriamo il passo e io mi volto per vedere se Dana ansima o se i capelli le si sono appiccicati alla testa; cerco ogni segnale che possa farmi passare la voglia di toccarla, continuando a tenere il mio corpo a distanza. A un certo punto mi avvicino per sentire l’urto dei nostri fianchi e Dana mi scivola addosso con deliberata intenzione; poi mi ficca le mani in mezzo ai capelli e li solleva in piccoli ciuffi elettrostatici. A quel punto non posso fare a meno di precipitare in questo bacio e in questa crisi.

C’è qualcosa di irresistibilmente liquido e fatale che si scatena nel tuo stomaco quando baci un ragazzo che ti piace così tanto; non sai dove mettere le mani e poi quando non ne puoi più gliele affondi nei capelli, e senti tutta l’ansia contratta nella parte bassa del ventre, e sai perfettamente dove ti porteranno i tuoi gemiti e le tue gambe aperte, sai perfettamente quale sarà la conclusione di tutto questo, e più ci pensi e più affondi la lingua, e ti lasci reclinare sul letto nella posizione che lui preferisci, allungando le mani alla cieca per spostare i capelli che si infilano ovunque.

Claudia Durastanti

lunedì 20 dicembre 2010

Oblio

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aveva dimostrato (la scienza) che la presenza di un osservatore condiziona qualunque processo e perciò come logica conseguenza che anche i particolari più insigificanti ed effimeri dell'allestimento di un test Operativo possono avere un impatto sui dati risultanti.

Non ci sono suoni, pur essendo una strada trafficata, e l’assenza di suoni è al tempo stesso spaventosa e realistica – anche gli incubi raccontati da tante altre persone di solito sono privi di sonoro, con qualcosa che ricorda il vetro spesso o l’acqua profonda e l’effetto di questi elementi sul suono.

Per non parlare del classico problema di come un dio che dovrebbe essere amorevole possa permettere una fine così terribile, un problema che si pone sempre quando le persone alle quali siamo legati soffrono o muoiono (al pari del conseguente rigurgito di sensi di colpa sull’ostilità sommersa che spesso proviamo verso la memoria dei genitori quando sono morti

il dott. G. avrebbe detto in seguito che tutto il fenomeno “mi è balenata davanti la mia intera esistenza” alla fin fine somigliava più alla cresta di un’onda sulla superficie dell’oceano, nel senso che soltanto nel momento in cui ti lasci andare e cominci a essere risucchiato ti rendi per davvero conto che c’è un oceano. Quando sei lì che ti lasci portare come un’onda parli e agisci come se sapessi di essere un’onda nell’oceano, ma in fondo non credi affatto che ci sia un oceano. È quasi impossibile crederlo. O come una foglia che non crede nell’albero di cui fa parte ecc. Ci sono mille modi per esprimerlo.

Il fatto è che siamo tutti soli, naturalmente. Lo sanno tutti, è quasi un cliché. Ecco dunque che con un altro strato della mia fondamentale impostura mi davo a intendere che la mia solitudine fosse speciale, che fosse unicamente colpa mia perché ero in qualche modo particolarmente disonesto e vuoto. Mentre non ha niente di speciale, ce l’abbiamo tutti. Poco, ma sicuro.

Beverly aveva un caratteraccio unito a una notevole potenza di fuoco, non conveniva farla incazzare. Disse di non aver mai sentito uno sguardo altrettanto penetrante, perspicace, eppure totalmente privo di partecipazione, come se lei per me fosse un enigma o un problema da risolvere. Disse che grazie al sottoscritto aveva scoperto la differenza fra essere penetrata e conosciuta per davvero di contro a penetrata e soltanto violentata – un ringraziamento sarcastico, non c’è che dire. In parte era solo per schermirsi emotivamente – trovava impossibile chiudere per davvero un rapporto senza aver prima tagliato tutti i ponti e detto cose così atroci da non lasciare possibilità di riconciliazione a ossessionarla o a impedirle di andare avanti per la sua strada. Nondimeno era andata a fondo, non ho mai dimenticato cosa scrisse in quella lettera.

essere disonesti ed essere incapaci di amare di fatto erano in ultima analisi la stessa cosa

Non so se la cosa ha senso. Cerco solo di presentartela da varie angolazioni, è sempre la stessa cosa. O potresti pensarla più come una certa configurazione luminosa anziché come una somma di parole o anche una serie di suoni, dopo. Il che in effetti è vero. O come la dimostrazione di un teorema – perché se una dimostrazione è valida lo è sempre e comunque, non solo quando ti capita di formularla.

Il suicidio è così contrario a tanti nostri istinti e impulsi programmati che nessuno sano di mente va fino in fondo senza passare attraverso una marea di oscillazioni interne, con fasi in cui per poco non cambia idea ecc.

Un indizio che c’è qualcosa di non proprio reale nel tempo consecutivo come viene da noi esperito sta nei vari paradossi del tempo che apparentemente passa e di un cosiddetto “presente” che si srotola sempre nel futuro creando sempre più passato alle sue spalle. Come se il presente fosse questa macchina – bella macchiano a proposito – e il passato la strada appena percorsa, e il futuro la strada illuminata che non abbiamo ancora raggiunto, e il tempo il movimento in avanti della macchina, e l’esatto presente il paraurti anteriore che fende la nebbia del futuro, sicché è ora e poi un attimo dopo un ora completamente diverso, ecc. Solo che se il tempo passa per davvero, a che velocità va? Con che ritmo cambia il presente? Visto? Perché se usiamo il tempo per misurare il moto o la velocità – come facciamo, non c’è altro modo – 95 miglia all’ora, 70 pulsazioni al minuto, ecc. – come dovremmo misurare la velocità con cui si muove il tempo? Secondo per secondo? Non ha senso. Come fai per parlare di tempo che fluisce o si muove vai subito a sbattere contro il paradosso.

La realtà è che morire non è brutto, ma dura per sempre. E per sempre non rientra nel tempo.

Poi, in una fase prevedibile benché di gran lunga più inquietante dell’ondata di smarrimento, c’era l’apparizione di una strana, statica, allucinatoria immagine o “inquadratura” mentale, “scena”, fata morgana o “visione” di un telefono pubblico in un aeroporto o della fila ordinata o “schiera” di telefono pubblici in una stazione ferroviaria di pendolari, che squillava. I viaggiatori procedono spediti lateralmente oltrepassando la file di telefono, alcuni portano o trascinano il bagaglio “a mano” e altri effetti personali, comminando o procedendo oltre spediti mentre il telefono, che rimane al centro della visuale della scena o immagine, continua a squillare, ininterrottamente, ma nessuno risponde, mentre nessuno degli altri telefono nella “schiera” di telefoni viene utilizzato e nessuno dei passeggeri aerei o dei pendolari se ne accorge né lancia anche solo un’occhiata al telefono che squilla, e la cosa a un tratto ha un che di incredibilmente “commovente” o toccante, o sconsolato, malinconico e perfino premonitore, un telefono pubblico che squilla all’infinito senza che nessuno risponda, e tutto questo sembra avvenire all’infinito e, per così dire, in “assenza del tempo”, ed è accompagnato da un odore di zafferano che non c’entra niente.

Il suo era il genere di pelle lattea infantile che bastava sfiorare per lasciare il segno.

L’unica cosa visibile al momento era il temporale che si abbatteva contro il parabrezza come una specie di autolavaggio forsennato

I rapporti tra pubblico e celebrità. La consapevolezza repressa del fatto che l’unica ragione per cui le persone comuni trovano le celebrità affascinati è che non sono esse stesse celebrità.

Quello che né Ellen Bactrian né altri a “Style” sapevano era che la capostagista aveva attraversato un periodo buio durante le scuole superiori in cui si faceva decine di taglietti nella pelle morbida all’interno della parte superiore delle braccia e poi spremeva il succo di limone liofilizzato sui tagli come penitenza per una lunga lista di manchevolezze personali, lista che aveva annotato quotidianamente nel suo diario in uno speciale codice numerico impossibile da decifrare a meno di non sapere esattamente in quale pagina della Campana di vetro era racchiusa la chiave dei numeri in codice. Quei giorni se li era ormai lasciati alle spalle, ma avevano comunque contribuito a fare della capostagista la persona che era.

È un dato di fatto che certe persone corrodono l’autostima di altre limitandosi semplicemente a essere chi e quello che sono.

David Foster Wallace

venerdì 17 dicembre 2010

Senza le dita

ti sto cercando e sono al fuochino
trovo solo la neve
e di fronte ti vedo negli occhi
un qualcosa da ninete
poi da solo m'ammazzo paziente
a colpetti di vino

ti sto cercando tra il fuoco e il fuochino
tu non ami chi beve
ti ho cercata anche in mezzo ai pidocchi
con lo shampoo all'aceto
ed appena ti sembro indiscreto
mi lasci da solo

certo amore che capisci al volo
quando il fiato m'odora di una notte
che dura mezz'ora o ancor più di una vita
ti ho trovata seduta in poltrona
eri senza le dita

come puoi leggere il libro del mio cuore
senza le dita per tenere il segno?
come puoi rendere decente il mio cuore
senza le dita per farci un disegno?

mi credevo nei presi del fuoco
ma ora dicono acqua
non ho colpe tesoro se sono
sbronzo tutte le sere
questo andare dal quasi al mai più
mette voglia di bere

ti sto cercando da questo mattino
trovo solo la neve e in silenzio
ti vedo negli occhi dove hai messo le dita
mi domando se a stare con me
ti sei mai divertita

come puoi leggere il libro del mio cuore
senza le dita per tenere il segno?
come puoi rendere decente il mio cuore
senza le dita per farci un disegno?

Performed by Alessandro Fiori

giovedì 16 dicembre 2010

La musica che canti

poi successe, un po' come succede sempre in certi casi, ovvero quando hai delle illuminazioni improvvise e ti rendi conto di una determinata cosa sulla quale pensavi di avere le idee perfettamente chiare e che invece dopo quell'attimo di chiarimento ti pare tutt'altra cosa, quasi un triangolo ti apparisse dopo come un quadrato. dicevo: era sdraiato a letto ad ascoltare la musica, e visto che abitava in un condominio non si poteva permettere di tenere lo stereo acceso con il volume alto a uscire dalla casse, come invece poteva fare quando era adolescente e ancora stava con i suoi genitori, in una casa propria persa tra la periferia della città; allora si che poteva fare uscire le chitarre e le voci, le batterie, i bassi, così potenti da fare vibrare i vetri alle finestre, all'epoca non erano ancora di quelli fatti apposta per non far disperdere la temperatura, non erano fissati molto bene alla struttura in legno, tant'è quando passava una macchina fuori lo si poteva capire molto prima dal rumore delle finestre che non da quello del motore. ma questa è un'altra storia.
se ne stava, dicevo, sdraiato a letto, con gli auricolari ben ficcati dentro le orecchie, e come spesso accadeva quando si metteva in quel modo, al buio in una specie di stanza di privazione sensoriale se non per il suono, chiudeva gli occhi e si lasciava trasportare dalla musica, lasciando che questa lo rilassasse, lo accudisse, lo cullasse, tanto che a volte riusciva pure a immaginarsi la musica prendere forma umana - non capiva se maschile o femminile - sedersi sul bordo del letto sul quale era steso e accarezzargli la testa, quasi a pettinargli i capelli, arruffati o stropicciati, in un gesto che secondo lui, cercando di capirne le implicazioni psicologiche, voleva aiutarlo a districare i suoi pensieri, a rendere meno tortuose le idee che molto spesso si accavallavano una sopra le altre finendo per diventare una massa informe di gomitoli di lana annodati con i quali i gatti immaginari dei suoi mal di testa si divertivano a giocare.
visto che era da solo in casa non si sentiva in obbligo di mantenere un certo contegno. i muri che separavano il suo appartamento, e nella fattispecie la sua camera, dall'appartamento e dalla camera del suo vicino, si era auto convinto fossero troppo sottili da non permettere alla musica dello stereo di oltrepassarli andando a disturbare la privacy del suddetto vicino, ma allo stesso tempo abbastanza spessi da non lasciare alla sua voce, per quanto urlata o perlomeno non sussurrata, di fare la stessa cosa andando a disturbare sempre la stessa privacy dello stesso vicino di cui sopra. per questo, in modo naturale, senza pensarci troppo, un gesto spontaneo, dopo alcune canzoni passate in religioso silenzio, a occhi chiusi, immerso nel buio sia della camera che delle sue palpebre abbassate, iniziò forse senza neppure rendersene conto a cantare pure lui, insieme al cantante vero e proprio, le canzoni che stava ascoltando.
non accadde subito, perché all'inizio i riff di chitarra e la sezione ritmica, unito al volume alzato al massimo del lettore mp3, non gli permettevano di sentire altro se non i suoni che uscivano dagli auricolari. il tutto avvenne quando in un passaggio lento di una canzone percepì, come una cosa lontana, la sua stessa voce. fino a quel momento era riuscito a immergersi talmente tanto bene nella musica da non accorgersi di stare cantando. o meglio: sapeva di cantare, ma credeva che la sua voce non fosse la sua vera voce quanto invece la voce del cantante, che in fin dei conti alle sue orecchie superava e nascondeva la sua, di voce, rendendola per così dire invisibile. perciò, quando sentì di nuovo dopo tanto tempo la sua voce, quello strano gracchiare arrugginito di parole che solo per caso sembravano essere le stesse cantate dalla voce del cantante, ebbe una sensazione di vertigini, uno specie di messa a fuoco sbagliata, quasi il suono fosse diventato una fotografia dentro la quale per qualche motivo gli oggetti ritratti uscivano dai loro contorni, si sovrapponevano uno sopra gli altri, si confondevano, non risultavano netti e delineati come invece di solito, o almeno fino a poco prima, erano sempre stati. quando si calibra uno strumento si deve sempre tenere conto di un margine di errore, insito nell'atto della misurazione o preesistente nello strumento primario con il quale si calibra lo strumento oggetto a calibratura. questa precisione impossibile viene identificata dalla frase di più o meno, tipo, dieci millimetri, o dieci centimetri. bene, lui, quando si accorse della sua voce, si trovava in quell'intervallo di più o meno dieci centimetri, e si sentiva spaesato. ecco, giusto per rendere l'idea di come si sentisse in quel momento.
ma non fu quella la vera illuminazione che lo sconvolse. no. il fatto di avere una voce alquanto brutta, anche se non l'ascoltava mai registrata e per questo la percepiva sempre viziata dalla propria cassa di risonanza, che ne alterava per lui il risultato finale, era una realtà con la quale ormai conviveva da tempo. ne era conscio, non era necessaria nessuna folgorazione. quello che lo sconvolse, ma in positivo, che gli permise in senso figurato di trovare la soluzione a un rompicapo matematico, o di scovare la via sicura per uscire da un labirinto dentro il quale ormai vagava da mesi, fu la possibilità di sovrapporre questa banale situazione a situazioni ben più complicate che lo circondavano dallo stesso numero di mesi per i quali si era perso dentro il labirinto di cui sopra.
fino a poco prima la sua voce gli appariva perfetta, intonata come non mai, calata dentro le canzoni che stava ascoltando. solo in quel momento, quando la sentì davvero durante un momento di silenzio, se così si può definire, musicale, silenzio musicale, si accorse di quanto non fosse per niente perfetta, anzi, stonata come sempre, indecisa nel pronunciare le parole, mangiandosi pure lettere intere, quelle iniziali o le finali. capì, per la prima volta, e questa fu la vera illuminazione che lo accolse a braccia aperte, quasi con un sospiro di sollievo per quanto tempo ci avesse impiegato a realizzarla, che le situazioni, quelle reali, quelle immerse nella verità di tutti i giorni, presenti nel mondo esterno e non solo in quello suo interno, erano proprio come le canzoni che cantava. la musica ad alto volume nelle orecchie poteva abbellirgli un po' tutto quanto, appendere coccarde alle finestre, ridipingere le ciminiere delle industrie all'orizzonte, e poteva pure renderlo intonato. ma questo era solo un artificio, un effetto speciale che gli permetteva di vedere cose che in realtà non esistevano, quali per esempio alieni verdi che respirano elio e cagano uranio, per esempio, oppure edifici giganteschi di una bellezza incredibile ma che fuggono via da qualsiasi legge della fisica o dell'edilizia.
quello che sentiva lui, ovvero la sua voce perfetta che cantava intonata sopra le note delle canzoni, non era la realtà, era solo quella che lui per errore percepiva come realtà. solo lui si sentiva cantare bene, tutti gli altri, le persone che non avevano gli auricolari alle orecchie e non ascoltavano la sua stessa musica, lo sentivano gracchiare in modo odioso, tanto da far strizzare gli occhi dal disprezzo, nel tentativo magari di chiudere per simpatia pure le orecchie senza doverci appoggiare sopra le mani.
ecco l’illuminazione vera e propria, quella capace di fargli aprire gli occhi e guardare le situazione dentro le quali si era calato sotto tutto un altro punto di vista.

venerdì 10 dicembre 2010

Fuori Piove

stai qui
ti sembra il caso di andare via?
vieni qui che rifacciamo il letto
e stiamo ad ascoltare
che fuori piove

stai qui
ti sembra il caso di buttare via gli anni?
e poi non hai l'ombrello
perché ti vuoi bagnare
che fuori piove?

non andar via
perché c'è un topo su in soffitta
che non mi fa dormire bene

Performed by Alessandro Fiori

mercoledì 8 dicembre 2010

Risveglio

quanto belle e sensuali sono certe mattine d'autunno, quando ti svegli ancora stropicciato dentro le lenzuola, e il sole filtra tra le finestre chiuse, con una certa insistenza, quel tanto che basta per proiettare ombre distorte sul pavimento. il letto è ancora caldo dentro i tuoi contorni. il calore del tuo corpo ti avvolge in un abbraccio, e tu sorridi piano agli angoli della bocca, con gli occhi ancora chiusi. non dormi più ma non sei ancora del tutto sveglio. ti trovi in quel limbo morbido di sogni rappresi, dei ricordi facilmente influenzabili con la propria volontà, un luogo e un tempo dove tutto, proprio tutto, può succedere, dal fuoco al ghiaccio, dalla neve al gelo, il colore delle foglie cadute in tempi diversi, i laghi ghiacciati sui quali pattinare, gli ombrelloni aperti sulla spiaggia, i gelati ai gusti di crema vaniglia e nocciola, i sandali o le infradito, i piedi appoggiati sulle panchine di legno per riuscire ad abbracciarsi le ginocchia. gli scenari sono come tende tirate sulle finestre. il freddo fuori combatte contro il caldo del termosifone appena sotto il davanzale, fa condensa, bagna il vetro di piccole gocce d'acqua, tenere in rilievo. paiono le palline di quei giochi del luna park, quando da bambini giocavamo per qualche spicciolo, pensando che la sera non sconfinasse mai nella notte, e la notte fosse solo un terreno fertile per il sonno, rotolano verso il basso, andando a scontrarsi con altre perle d'acqua, oppure schivandole con movimenti rapidi, zig zag indecifrabili, l'imprevedibilità del loro percorso, lasciando dietro di sé scie bagnate destinate a fare la stessa fine.
fuori non piove, non fa freddo. c'è solo un tempo mite che pare non decidersi a sfociare nell'inverno, né rimanere ancora nell'estate. resta nella terra di nessuno, le mezze stagioni, quelle che non esistono più da un po'. ti rigiri ancora con la voce impastata da sbadigli che cerchi di trattenere, sia mai che il primo suono sia ancora ancorato al giorno prima, a gesta ormai passare. bisogna dimenticare tutto quanto, lasciarsi andare come un palloncino gonfiato a elio che scappa di mano a un bambino. non bisogno essere il bambino, perché lui rimane a terra e si lamenta, piange tutte le lacrime che in quel momento crede di possedere, per un palloncino comprato per quattro soldi, una cosa da niente, una sciocchezza. quando piangerà lacrime ben più dure, più spigolose, salate tanto quasi da bruciare nei solchi della pelle, formare canyon dei loro percorsi, quando piangerà per fatti assai più gravi, o pesanti, quando piangerà per ferite che gli altri non riusciranno a vedere e per le quali nessun dottore riuscirà a curarlo, quando piangerà tutte quelle lacrime che inconsciamente aveva messo da parte, in riserva per momenti per i quali non sapeva di attrezzarsi, non voleva, sperava di non, allora non si ricorderà neppure di quel palloncino sfuggitoli di mano durante una giornata d'autunno. perché è un fatto futile, si cancella con un soffio, o con un gelato alla crema, vaniglia, nocciola. non dobbiamo essere il bambino, dobbiamo essere il palloncino che vola via, si disperde nell'atmosfera, sempre con la testa fra le nuvole, senza appigli, dobbiamo scappare al vento, utilizzare le correnti, perderci sopra le città. i monumenti saranno i nostri punti cardinali, nuove destinazioni sempre in mente, mai fermarsi, posare i piedi a terra, sentire il suolo duro deciso pungerci la suola delle scarpe. saremo nudi e non ci stancheremo mai di viaggiare, sempre in movimento, mai una dimora fissa. fermarsi significherà diventare grezzi, irrigidirsi come pezzi di argilla ai quali sarà privato qualsiasi movimento. dobbiamo tenere i muscoli in allenamento, rinforzarci, sbattere le braccia come se fossero ali, come se noi fossimo farfalle e vivessimo molto più di un giorno. pisceremo addosso ai nostri nemici, guardandoli dall'alto senza che loro riescano a vederci, imprecheranno per avere lasciato a casa l'ombrello, si lamenteranno della pioggia, del brutto tempo, diranno governo ladro ma poi continueranno sempre a votare per la stessa merda. invece noi saremo lontani da tutti i loro problemi, saremo esenti da tasse e da malumori. ogni notte faremo l'amore con gli angeli e scoperemo da dio facendoli gridare di piacere in lampi tuoni e fulmini che illumineranno di frastuoni gioiosi il cielo scuro. ci delizieremo di novelle storie raccontate bene, alla perfezione, quelle dove ogni singola parola risuona di un'armoniosa essenzialità, il bisogno fisico, viscerale che quell'ammasso non di stelle ma di lettere vadano a occupare proprio quel preciso punto della frase, mai in eccesso mai in difetto. visiteremo i posti che hanno creato il mondo come oggi lo conosciamo, quello civile che molto spesso si confonde con quello incivile, ma anche quello deserto dove nessun essere animale si azzarda a mettere piede, dove l'unico appiglio di vita è pura e semplice immaginazione, dove saremo solo e soltanto noi a guardarci negli occhi per vederci disegnati sulle pupille dell'altro. ci bagneremo di galassie luminose, vortici splendenti dentro i quali verremo risucchiati dalle forze di gravità che tengono in equilibrio i pianeti. la via lattea, le stelle cosmiche, andromeda e le costellazioni tutte.
poi infine ti svegli del tutto assaggiando l'aria tiepida della mattina. sei ancora tutto intorpidito, le ossa fragili, cartilagini come cartapesta. ti svegli aprendo bene gli occhi, tiri un sospiro per raccogliere il primo respiro della giornata. ti alzi in piedi, stirandoti verso l'alto. ogni movimento brucia energie, ti porta da un posto all'altro ma con fatica, seppur microscopica.
ti guardi allo specchio stanco, stravolto, confuso tra le occhiaie scure della sera precedente, e ti accorgi di avere smesso di sognare, se non per sempre almeno per questo giorno.

martedì 7 dicembre 2010

Di inizi e fondamenta

tutto ha un inizio. prendi questa storia.

quale storia?

questa qui. per quanto banale e storpia possa essere puoi identificarne bene bene l'inizio, così come poi ne potrai identificare allo stesso modo bene la fine.

non ti seguo.

noi ora siamo qui, stiamo parlando, no?

si.

questo è l'inizio di una storia.

una storia? questa non è una storia. siamo solo noi due che parliamo.

dipende da che punto di vista ti metti a guardare tutta la faccenda. se ti metti nei tuoi o nei miei panni sono d'accordo con te, siamo solo io e te che parliamo. ma se ti alzi un po', se ti metti a osservare noi due da un livello più alto, se ci guardassi da una nuvola, magari, tutto questo sarebbe una storia.

ok, ora ci sono. però se, metti caso mi sdraiassi su una nuvola, a pancia sotto, appoggiando il mento sulle mani e piegando le ginocchia, sorvoliamo sul fatto che dovrei essere morto per finire in una situazione del genere, ma mettiamo sia solo un fatto secondario, un banale effetto collaterale di tutta questa nostra fantasia, ok?

va bene.

se fossi davvero su una nuvola e mi mettessi a osservarci, ora, mentre parliamo, la tua affermazione non sarebbe più del tutto vera.

in che senso?

nel senso che questa storia non avrebbe un inizio. o almeno non sarebbe certo quello che intendevi tu. quando lo hai detto sottointendevi che per te l'inizio di questa storia fosse proprio te che dicevi: tutto ha un inizio, prendi questa storia. invece se io stessi osservando questa scena dall'alto, la tua frase sarebbe solo una frase qualsiasi tra tante altre frasi, una tra quelle successive ma anche una tra quelle precedenti.

ora sono io a non seguirti.

quando hai detto: tutto ha una storia, prendi questa storia, lo hai detto per iniziare un discorso, ma allo stesso tempo ne hai chiuso un altro. prima di dirlo avrai di sicuro detto altro, magari pure connesso all'inizio di questo discorso. potevi avere fatto un preambolo, affermando qualcosa che poteva anticipare tutto questo discorso. che ne so: eravamo seduti a prendere un caffè e io avrei potuto iniziare a parlare di storie sconclusionate, senza senso, delle quali non capivo il motivo per il quale una persona si potesse prendere la briga di raccontarle, storie senza capo né coda. al che tu avresti potuto interrompermi e dire: tutto ha un inizio, prendi questa storia. ma questa storia non inizia con la tua frase, questa storia magari nasce dalla tua frase, ma viene concepita ben prima che tu la pronunci. quindi l'asticella dell'inizio di questa storia dovrebbe essere spostata un po' più indietro. ma quello che dici, quello che fai, non può essere spezzettato, diviso in compartimenti stagni. è un flusso. non puoi dividere un flusso, altrimenti non è più un flusso. se ti guardassi dall'alto, sempre dalla stessa nuvola, è molto probabile che non solo ti avrei guardato ben prima del tuo falso inizio, ti avrei guardato di sicuro mentre saremmo stati seduti al caffè, ma ti avrei osservato anche quando a casa avresti pensato al tuo discorso sull'inizio di tutto, sulla possibilità di vedere l'inizio di qualsiasi cosa. allo stesso tempo, visto che guardo tutto dall'alto, avrei potuto vedere pure me che a casa rimango al telefono per un'ora di fila con un mio amico che non fa altro che parlare di cose sconclusionate e senza capo né coda, telefonata da cui poi sarebbe derivato il mio sfogo con te. e già qui le cose sfuggono notevolmente di mano, perché non abbiamo più un solo inizio, ma ne abbiamo già due: il mio e il tuo. poi potremmo continuare ad alzarci, a guardare tutta la situazione da ancora più in alto. in questo modo potrei vedere pure il motivo per cui il mio amico avrebbe deciso di chiamarmi, cosa lo avesse spinto a farneticare al telefono per tutto quel tempo e come mai in tutto quel suo raccontarsi non ci fosse alcun ordine logico. magari suo padre era stato male e si sentiva sconvolto, non ce la faceva a riordinare le idee per potersi esprimere al meglio, che ne so. sta di fatto che a questo punto gli inizi sono tre, se non di più.

non era proprio quello che intendevo dire.

lo so, capisco quello che volevi dire, ma il problema è che tu guardi a tutto quanto come se fosse un fiume, che ha una sorgente e una foce, quando invece sarebbe più giusto vederlo come un mare, un oceano, dove tutto si confonde.

hai ragione, ma devi concordare con me quando dico che tutto questo comporterebbe un casino di tempo, nessuno potrà mai permettersi di analizzare qualsiasi cosa. seguendo il tuo ragionamento niente ha un vero e proprio inizio, qualsiasi cosa deriva da qualche altra cosa che l'ha preceduta, che l'ha spinta a succedere.

è vero, è proprio così. ogni gesto, per quanto slegato magari dal contesto, non è mai frutto del caso. vedi, le azioni, le azioni di chiunque, hanno delle fondamenta. senza di queste crollerebbero in un momento. prendi gli ubriachi...

ma a volte abbiamo la necessità di dover porre dei limiti! non possiamo analizzare ogni gesto in base alle sue fondamenta, come le chiami te. questo ci porterebbe a dovere controllare anche le fondamenta delle fondamenta. senza contare la possibilità di dover esaminare anche le fondamenta che potrebbero avere influenzato in un modo o nell'altro le nostre fondamenta. sarebbe un circuito infinito che tende a ramificarsi in miliardi di miliardi di nodi.

proprio così.

ma è senza senso! non puoi pretendere che per capire il semplice gesto di una persona, o una frase di questa persona, debba prendere in esame ogni minimo particolare che lo ha toccato. il problema è proprio questo: qualsiasi cosa affrontata nella vita potrebbe averci influenzato, o non averci influenzato. ci potrebbero essere influenze interne e influenze esterne. dovremmo controllare quelle che abbiamo, per come dire, lasciato entrare, e quelle che invece non abbiamo lasciato entrare. e se quelle che ci hanno in qualche modo cambiato fossero delle influenze esterne dovremmo gioco forza analizzare anche cosa ha influenzato queste stesse influenze per far si che avessero luogo. è un sistema con un numero di variabili infinite. servirebbero un milione di vite solo per comprendere una semplice frase, magari anche solo un saluto. una sola persona! una sola! immagina quanto tempo sarebbe necessario se volessi interagire con più di una persona.

dipende da quanto tu tenga a voler capire questa persona, a quanto tempo tu sia disposto a dedicargli. non ho mai detto che sarebbe stato semplice. in fondo capire una persona non è mai semplice, proprio perché una persona, con tutti i suoi aspetti, non è un qualcosa di semplice.

venerdì 3 dicembre 2010

Italian dandy

Mia madre sfogliava Novella 2000
Ed io ai suoi piedi leggevo Prevert
Avevo dieci anni ma pensavo già alle donne
E chiuso nel mio bagno amavo Edwige Fenech

A scuola i ragazzi giocavano a calcio
Ed io sul muretto citavo Verlaine
Avevo 16 anni e pensavo solo al sesso
Poi vidi le sue labbra e me ne innamorai

Le scrissi più o meno duecento poesie
La prima diceva così..

Amami come se fossimo ancora
In quel bar di Berlino a fumare Pall Mall
Amami come quella volta all'Esselunga
Quando in preda alla fame rubammo una baguette

Mio padre voleva che facessi il ragioniere
Ma io impertinente risposi: "giammai!"
Avevo vent'anni e coi miei capelli lunghi
A guisa di dandy bevevo cognac

Avevo già scritto tremila poesie
La prima diceva così ..

Amami come se fossimo ancora
In quel bar di Berlino a fumare Pall Mall
Amami come quella sera a Marsiglia
Quando in preda al barbera mangiammo escargot

A Giugno mi chiese di amarla per sempre
Ma io impenitente risposi di no
Avevo trent'anni e vivevo da bohemien
Lei disse sottovoce: "vedrai, te ne pentirai..."

Amami come se fossimo ancora
Fra calde lenzuola nel letto dei tuoi

Performed by Brunori Sas

giovedì 2 dicembre 2010

Big Bang

ci hanno insegnato che tutto ebbe inizio con una grande esplosione dopo la quale l'universo iniziò a espandersi per coprire sempre più spazio, andando a riempire le periferie più remote del - del cosa? - del niente. è difficile definire un posto quando questo posto ancora non esiste. noi ci muoviamo in un ambiente dove esistono tre distinte dimensioni: altezza, larghezza, profondità; ma l'universo ha a che fare con grandezze talmente vaste che forse le dimensioni aumentano: altezza, larghezza, profondità, e spazio ancora non esplorato.
mattia torna a casa da una giornata piena di lavoro. è stanco, vorrebbe solo potersi sedere sul divano, accendere la televisione e lasciarsi trasportare lontano dall'inutilità delle notizie e dal sonno. sa però di non poterlo fare. prima di rientrare si è fermato a un supermercato. ha preso della verdura, un po' di carne, una confezione di tagliatelle ai funghi da riscaldare al microonde, una bottiglia di vino rosso, una confezione da sei lattine di birra, un succo di frutta. per riposarsi davvero deve prima svuotare la buste della spesa e mettere tutto quanto a posto, poi prepararsi la cena, mangiare, e solo dopo, ammettendo di lasciare la cucina in perfetto disordine, solo dopo potrà permettersi di sedersi o sdraiarsi sul divano.
decide di iniziare con la verdura: un cesto di insalata, qualche carota, un finocchio. prende i sacchetti del reparto fai da te, scelti, selezionati, pesati e prezzati, andando verso il frigorifero, dalla parte opposta rispetto alla porta d'ingresso; ma il frigorifero non c'è, non ancora. è vuoto, perciò non esiste. quando mattia ripone la roba nello spazio che dovrebbe essere occupato dal frigorifero, questo come per magia compare, aperto, con già al suo interno il sacchetto con l'insalata dentro, lo stesso sacchetto che mattia ha posizionato sul primo scaffale interno e che ha permesso al frigorifero di apparire.
il frigorifero è lo spazio non ancora esplorato, il nulla, un ritaglio di luogo non ancora luogo, la quarta dimensione. la verdura, o qualsiasi altra cosa mattia avrebbe potuto utilizzare, parti di universo che vanno a creare universo laddove l'universo ancora non è arrivato.
quindi c'è questa nebulosa indistinta di particelle in espansione. si allarga a macchia d'olio, in modo casuale, e nel farlo si creano pianeti, stelle, galassie, mondi sempre nuovi. all'inizio lo fa a ritmo vertiginoso, uno scatto che le permette di occupare gran parte del nulla attorno a sé in un tempo microscopico, neppure il battito veloce di un occhio. mentre stai chiudendo le palpebre già l'universo è arrivato a te, ti ha penetrato, ti ha superato e ti ha lasciato con un vago senso di calore, correndo via lontano per andare oltre. e tu ancora non hai finito di chiudere le palpebre. quando finisci e le riapri l'universo ti ha quasi doppiato, da quanto è veloce a espandersi. poi però questa velocità diminuisce, via via che il tempo passa. l'universo si trasforma in un centometrista che corre però una maratona: i primi metri li divora con il suo ritmo, ma quando la linea del traguardo non arriva le forze iniziano a farsi meno, si sente stanco, spossato. rallenta cercando di non fermarsi del tutto. se non corre verrà squalificato.
dopo essersi riscaldato al microonde la porzione di tagliatelle ai funghi, mattia prende la confezione in cartone e la getta nell'immondizia. ripone la forchetta con la quale ha mangiato dentro il lavello, senza preoccuparsi di lavarla o pulirla. ci penserà il giorno dopo, dice a se stesso. il suo unico obbiettivo è quello di sedersi sul divano, mettersi di tre quarti, appoggiare la testa sul bracciolo e finire poi per addormentarsi su di esso. non gli piace molto come soluzione, preferirebbe il letto, almeno per non doversi poi alzare di nuovo per andarci a passare la notte, ma al momento il letto sembra essere troppo lontano. è stanco, sfinito, ma non riesce a riposarsi.
prima ancora di sedersi sul divano suona il telefono. è un suo amico, francesco, che non sente da molto tempo. la sua voce sembra un po' turbata, parla a vanvera, del più e del meno, senza però parlare sul serio di niente. affronta mille argomenti ma non ne approfondisce uno. gli propone di vedersi per bere qualcosa e fare due chiacchiere, raccontarsi cosa è successo nel tempo in cui non si sono visti. mattia è stanco, non ce la fa neppure a muovere un dito, ma sentendo la voce di francesco non riesce a dire di no. risponde: certo che ci possiamo vedere, fingendo una felicità solo superficiale capace di nascondere la sua debolezza. fissano per una determinata ora a un bar che molto probabilmente ancora non esiste.
l'universo continua a correre, imperterrito, solo lo fa un po' più lentamente. all'inizio era la frenesia a spingerlo, la voglia di riempire tutto con tutto se stesso, ma poi una volta bruciata l'urgenza rimane la curiosità di vedere cosa si va a riempire. si prende il suo tempo, non brucia le tappe. per ogni centimetro di niente impiega del tempo relativamente interminabile prima di passarlo e affrontare il centimetro successivo. un giorno si fermerà, ma ancora non sappiamo se lo farà perché sarà stanco da morire o se avrà finito la maratona, se non ci sarà più altro spazio di niente da riempire.
nel bar dove mattia e francesco si ritrovano c'è una sala poco illuminata con un biliardo. da adolescenti ci giocavano spesso a biliardo, immersi nei fumi di sigarette e progetti inverosimili sul loro futuro. francesco è un po' confuso, pare avere perso i punti cardinali, non riuscire più a orientarsi. per cercare di distenderlo mattia propone una partita, in ricordo dei vecchi tempi. al bancone prendono due bottiglie di birra, se le fanno stappare, e sorseggiandole si dirigono verso il bigliardo. dopo una manciata di minuti durante i quali sia mattia che francesco non fanno altro che parlare, ridere, sorridere, bere, respirare, prendono in mano le stecche e posizionano le palle sul tavolo. mattia mette la palla bianca di fronte al triangolo composto dalle altre colorate, si china sul tavolo e colpisce con la stecca. spacca. le palle si sparpagliano sul tavolo, prima in modo veloce, poi sempre più lentamente. questo è l'universo. poi si fermano e mattia si mette a girare attorno al tavolo per osservare la posizione delle palle. questo è sempre l'universo.
qualcuno pensa che quando l'universo smetterà di allargarsi, di spingersi sempre oltre e oltre ancora, quest'ultimo si fermerà per un attimo, dopodiché comincerà a fare il percorso inverso, ovvero inizierà a rimpicciolirsi. sono solo teorie, ancora nessuno sa niente di preciso. prima di tornare però all'esplosione iniziale dovrà comunque passare molto molto tempo. l'universo si ritirerà come le acque di un fiume straripato che ritorna dentro gli argini.
quando mattia saluta francesco non ha capito molto bene cosa avesse per spingerlo a chiamarlo dopo un'eternità che non si vedevano. probabilmente aveva solo voglia di sfogarsi, parlare. a quel punto mattia non ha più sonno. prima di dirigersi verso casa decide di fare una passeggiata. è notte ormai. in giro non c'è più quasi nessuno. le strade sono illuminate dai lampioni che gettano sull'asfalto una strana luce arancione. dopo avere camminato per qualche minuto mattia si ferma, affonda le mani dentro le tasche del cappotto e si appoggia con la schiena contro il muro di una casa. guardando una finestra chiusa al primo piano del palazzo che gli sta di fronte si accende una sigaretta e comincia a pensare.
mattia sa che il suo frigorifero fa parte dell'universo in espansione, per questo prima di rientrare ha fatto la spesa: per poterlo riempire e farlo diventare reale, non vuoto, per investirlo in qualche modo con le acque dell'universo in espansione. sa anche che lo stesso movimento in avanti diventerà prima o poi un movimento contrario, spingendo l'universo a regredire. lo deduce sempre dal suo frigorifero, che appare, pieno, e scompare, non appena si svuota. poi riappare, per poi sparire di nuovo. una specie di respiro. mattia conosce la teoria del big bang, secondo la quale tutto quanto ha avuto inizio da una esplosione. lo ha studiato a scuola e a scuola ha imparato a dire: è vero, tutto è iniziato così. quello che si domanda, ora, fermo a guardare una finestra chiusa di una casa che è andato cercando con la scusa di una passeggiata, è questo: cosa c'era prima di questa grande esplosione? da cosa è scaturita questa detonazione? prima che l'universo iniziasse a espandersi, doveva essere in qualche modo qualcosa. è questo qualcosa che gli sfugge, che non riesce a catturare. se ce la facesse potrebbe cercare di capirlo, magari sezionandolo, o facendoci dei test. ma l'inizio dell'universo, come l'inizio di qualsiasi altra cosa, è un momento difficile da cogliere: succede e basta, capita e non te ne accorgi neppure. quando ti fermi un attimo a pensare è già troppo tardi, l'esplosione è già avvenuta, l'universo si sta già espandendo a una velocità tale che non ti permette di guardarti indietro. ciò che è stato prima dello scoppio è un puntino minuscolo indistinto che si perde tra le nebbie confuse di galassie infinite, anni luce oltre l'orizzonte dietro di te. per quanto ti possa sforzare aguzzando la vista, questo puntino è assai difficile da scorgere, immerso com'è in tutto quell'ammasso di stelle che si è venuto a creare un attimo dopo l'inizio di tutto. un attimo dopo, ma non quell'attimo. la verità è questa: quando inizia qualcosa di importante non te ne rendi mai conto, inizi solo a espanderti, ad allargarti, a esplorare lo spazio tutto intorno a te; ma l'inizio, quello vero, passa inosservato, e quando cerchi di ricordarlo, non ci riesci.
mattia questo lo sa. finisce la sigaretta, senza mai smettere di guardare la finestra chiusa del palazzo di fronte a sé, e poi inizia a camminare. casa sua è lontana. il divano lo aspetta. l'universo è in continua espansione, da miliardi di anni ormai, e cercare di vederne l'inizio è assai difficile.

mercoledì 1 dicembre 2010

Novembre 2010


"mi piacerebbe tanto un bel giorno riuscire a vivere facendo cose giuste invece di limitarmi a non fare quelle sbagliate."

Chuck Palahniuk