guardando fuori dalla finestra, dopo aver alzato gli avvolgibili bianchi e vecchi, vedo l'orizzonte vestirsi di nuvole scure, gonfie più di rabbia che non di pioggia. mi chiedo se durante la notte verrà giù il diluvio o se tutta quella violenza nera sia solo una facciata, apparenza, come la mia. magari le nuvole che vedo sono solo tante disordinate parole scarabocchiate una sopra l’altra, annodate tra le lettere, scritte così fitte e serrate da non distinguerle neppure più. avrebbe poco senso allora continuare a scrivere, ripassarci sopra. sarebbe più saggio posare la penna e aspettare che l'inchiostro si disperda sopra il cielo, o che cada giù in basso, in una pioggia che saprebbe di petrolio e di frasi pensate in fretta e buttate giù alla rinfusa per dire qualcosa che poi si perde o si complica maggiormente.
guardo l'orizzonte e penso che le nuvole grigio scuro sono un po' come l'istinto, quell'animale mica tanto domestico che ti spinge a fare dire scrivere cose di cui poi ti penti. ogni nuvola è la brutta copia di un discorso, con tanto di ripensamenti, freghi sulle parole, scarabocchi e cancellature andate male, quasi a rovinare il foglio. ti dici: lo riguardo prima di consegnare, lo ricopio, cerco di non affrettare troppo la calligrafia che altrimenti si fa illeggibile e brutta e per niente arrotondata, anzi piena di spigoli sui quali è facile picchiare e farsi male; rileggerò tutto quanto, ti dici con i fogli ancora in mano, cancellerò le frasi che hanno poco senso o che di senso ce ne hanno pure troppo; risistemerò alcuni periodi, dandogli un certo ordine temporale, in modo da tracciare un percorso sterrato e dritto e accessibile per chi volesse poi avventurarsi tra la selva dei miei pensieri. ma poi l'istinto, o le nuvole, o i fogli, scappano via sparpagliandosi tutti quanti giù per terra; inizia a piovere, e l'istinto corre così veloce che è talmente difficile stargli dietro per riacciuffarlo. alla fine ti dici che poco importa: quel che è scritto è scritto, quel che detto è detto. è inutile piangere sul latte versato. ecco cosa è l'istinto: un coccodrillo. ti dice cosa fare, cosa dire, e poi è il primo che ti punta il dito contro, dicendoti che hai fatto una gran bella cazzata a dire o fare quel che hai fatto o detto.
sono stato così tanto tempo oggi a guardarmi fuori che adesso mi fanno male gli occhi: me li sento gonfi, umidi sempre sul punto di lacrimare. i paesaggi, tutti quanti, sia quelli sfrecciati via veloci in movimento che quelli immobili quasi imbarazzati nell'esser colti impreparati quando non sono riusciti a mettersi in posa per tempo, si accavallano in nidi di rondine sulla pupilla, scendendo confusi verso la retina, e paiono trivellare quella parte del cervello che sta appena dietro le orbite. non è mal di testa, mi dico, perché la testa ciò che ho fatto non ce l'ha. è più una sensazione di bruciore, un fuoco basso zampillante che presto o tardi si spegnerà. è il pentimento, forse. di solito si accende giusto un attimo dopo aver commesso qualche cosa. un errore? mi chiede sogghignando il coccodrillo.
sono stanco, forse è solo questo. anche se magari riuscirei a stare sveglio ancora per diverse ore, ciò di cui avrei bisogno sarebbe soltanto un bel po' di sonno. dormire tranquillo, senza pensarci, lasciandosi alle spalle coccodrilli, focolai in spiaggia o dentro cassonetti dell'immondizia. tutto il fumo che ne esce puzza, come la spazzatura bruciata dentro i fuochi del pentimento.
chiudo gli occhi: sogno il sole.
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