Si conclude il racconto su SettePerUno:
Mi Credevo Diverso (Parte IV)
lunedì 28 febbraio 2011
venerdì 25 febbraio 2011
Niente più
L'abito in pelle affascinante
Pur senza averne le pretese
E dentro come un marinaio
Lei che si muove a un ritmo inglese
Niente più
Un Moody Blues canta la notte
E in questo porto senza mare
Lei che ondeggiando lentamente
Ora si viene ad ormeggiare
Niente più niente più niente più niente più
Una cascata di capelli
Suoni che vibran nelle reni
Il jazz che fa del jazz nel buio
E questo male che ci fa del bene
Niente più
Il suono dell' arcobaleno
Sulla chitarra della vita
Un grido perso negli acuti
Di una canzone mai finita
Niente più niente più niente più niente più
Lampi che squarciano la nebbia
Scoprendo pascoli proibiti
Mani che cercano altre mani
Come tra naufraghi sfiniti
Niente più
Un desiderio che si spezza
Come una corda troppo tesa
E questo corpo che si perde
Come una sigaretta accesa
Niente più niente più niente più niente più
L'abito in pelle che ricopre
Un qualchecosa di fugace
E dentro come un'alba grigia
Lei che ondeggiando adesso tace
Niente più
Il Moody Blues che s'addormenta
Chiuso nell'amplificatore
E nella voce del silenzio
Lei che ondeggiando se ne muore
Niente più niente più niente più niente più
Niente più
Pur senza averne le pretese
E dentro come un marinaio
Lei che si muove a un ritmo inglese
Niente più
Un Moody Blues canta la notte
E in questo porto senza mare
Lei che ondeggiando lentamente
Ora si viene ad ormeggiare
Niente più niente più niente più niente più
Una cascata di capelli
Suoni che vibran nelle reni
Il jazz che fa del jazz nel buio
E questo male che ci fa del bene
Niente più
Il suono dell' arcobaleno
Sulla chitarra della vita
Un grido perso negli acuti
Di una canzone mai finita
Niente più niente più niente più niente più
Lampi che squarciano la nebbia
Scoprendo pascoli proibiti
Mani che cercano altre mani
Come tra naufraghi sfiniti
Niente più
Un desiderio che si spezza
Come una corda troppo tesa
E questo corpo che si perde
Come una sigaretta accesa
Niente più niente più niente più niente più
L'abito in pelle che ricopre
Un qualchecosa di fugace
E dentro come un'alba grigia
Lei che ondeggiando adesso tace
Niente più
Il Moody Blues che s'addormenta
Chiuso nell'amplificatore
E nella voce del silenzio
Lei che ondeggiando se ne muore
Niente più niente più niente più niente più
Niente più
Performed by Colapesce
martedì 22 febbraio 2011
Visioni
Oggi, alle nove di sera, puntuale proprio come avevamo concordato, il mio io ha bussato alla porta. Ho aperto, e da bravo padrone di casa gli ho fatto cenno di entrare. Lui si è scrollato un po' di freddo di dosso e appoggiando la giacca sul termosifone di cucina si è messo a sedere davanti al tavolo.
Mentre gli davo le spalle e preparavo qualcosa da bere, stappando due bottiglie di birre e versandole nei bicchieri, lui ha iniziato a parlare.
"Oggi ho avuto delle visioni." Mi sono voltato e passandogli il suo bicchiere mi sono messo a sedere di fronte a lui.
"Visioni di che tipo?"
"Folletti, fate... gnomi. Cose di questo tipo."
"Ah, ok. - Ho fatto io. - Tutto bene?"
"Si, si. Non ho mica avuto paura. Erano tutti molto amichevoli. Piuttosto te come va? Non è che per caso ci hai ripensato?"
Ed eccomi qui, psicanalizzato dal mio stesso personaggio. Per due o tre secondi mi sono pure meravigliato che lui avesse notato qualcosa, come se solo io potessi leggere lui e non anche viceversa.
"Non ci ho ripensato, però..."
"Io questo viaggio lo voglio fare." La sua voce era ferma, tranquilla; non tradiva alcun segno di un eventuale ripensamento.
"E' che sono venuti fuori tanti di quei pensieri, non sono più convinto al cento per cento che il gioco valga la candela. Non so se mi spiego."
"Che tipo di pensieri ti sono venuti?"
"Abbiamo troppo poco tempo per organizzarci a modo. C'è il rischio che venga fuori una stronzata gigantesca. E un rischio ancora maggiore che non venga fuori proprio niente; o che alla fine rimanga una cosa solo tra di noi, che solo noi conosciamo."
"E cosa importa! - Si è alzato ed io non sapevo più quanto di me fosse in lui e quanto invece di lui fosse in me. Mi sembrava che le parti si fossero invertite senza nessun preavviso: mi trovavo a recitare la sua parte quando invece, a rigor di logica, avrebbe dovuto essere lui ad avere qualche dubbio. - Prendiamoci tutto il tempo necessario. Mandiamo a 'fanculo le scadenze che ci eravamo prefissati, mettiamoci dentro tutto il nostro meglio; e se poi viene fuori una cagata o se sarà solo per noi, che ce ne frega. Vorrà dire che ci siamo regalati del buon tempo e ci siamo divertiti. No?"
L'ho guardato senza dire niente. Era in piedi dall'altro lato del tavolo, con il bicchiere di birra in mano, in attesa di una risposta. Io ero seduto, la birra ancora intatta, mai toccata, a guardarmi dentro, tamburellando con le dita sul bicchiere. Mentre il silenzio scendeva nella stanza, infiltrandosi copiosamente nello spazio tra di noi, mi sono accorto di quanto ormai io avessi bisogno di lui. Le sue parole non mi avevano convinto, per il semplice motivo che in realtà non avevo bisogno di essere convinto. Il viaggio di cui parlava, io lo volevo fare molto più di lui; la dimostrazione più semplice era proprio la sua presenza. Avevo però la necessità che qualcuno mi spronasse, che mi spingesse a farlo, a prendere tutto il necessario e metterlo dentro una valigia, anche se immaginaria. Avrei voluto dirgli che le scadenze non avremmo dovuto buttarle, o fare finta che non ci fossero; le scadenze ci servono, proprio per evitare di finire in dei buchi neri.
"Ok. - Ho detto scuotendo un po' la testa per dimenticare gli ultimi indugi. - Ci sono: sono di nuovo in carreggiata."
"Ottimo. - Ha esultato lui rimettendosi a sedere. - Sistemata questa faccenda ti devo dire una cosa."
"Cosa?" Il suo tono si era fatto all'improvviso preoccupato.
Si è chinato in avanti e ha iniziato a parlare a bassa voce, quasi avesse paura che qualcuno lo potesse sentire, come se si vergognasse.
"Oggi ho avuto una sensazione strana: tipo quando da adolescenti ti accorgi che la voce ti sta cambiando, e un giorno ti trovi a parlare con un tono di voce, e il giorno dopo sei venti ottave più sotto. - Ha bevuto un lungo sorso di birra e ha riappoggiato il bicchiere quasi vuoto sul tavolo. - Ma non nella voce; come se fosse qualcosa di più profondo... qualcosa dentro."
"E' normale. - Ho cercato di tranquillizzarlo. - Con il tempo andrà sempre meglio e i cambiamenti saranno meno frequenti e più piccoli."
"Ok, va bene; ti credo. In fondo sono nelle tue mani. - Ha finito la birra lasciandosi scappare un sospiro di sollievo. - Adesso cosa facciamo?"
"Ora penso sia arrivato il momento durante il quale tu debba iniziare a vedere le cose in modo leggermente diverso."
Mentre gli davo le spalle e preparavo qualcosa da bere, stappando due bottiglie di birre e versandole nei bicchieri, lui ha iniziato a parlare.
"Oggi ho avuto delle visioni." Mi sono voltato e passandogli il suo bicchiere mi sono messo a sedere di fronte a lui.
"Visioni di che tipo?"
"Folletti, fate... gnomi. Cose di questo tipo."
"Ah, ok. - Ho fatto io. - Tutto bene?"
"Si, si. Non ho mica avuto paura. Erano tutti molto amichevoli. Piuttosto te come va? Non è che per caso ci hai ripensato?"
Ed eccomi qui, psicanalizzato dal mio stesso personaggio. Per due o tre secondi mi sono pure meravigliato che lui avesse notato qualcosa, come se solo io potessi leggere lui e non anche viceversa.
"Non ci ho ripensato, però..."
"Io questo viaggio lo voglio fare." La sua voce era ferma, tranquilla; non tradiva alcun segno di un eventuale ripensamento.
"E' che sono venuti fuori tanti di quei pensieri, non sono più convinto al cento per cento che il gioco valga la candela. Non so se mi spiego."
"Che tipo di pensieri ti sono venuti?"
"Abbiamo troppo poco tempo per organizzarci a modo. C'è il rischio che venga fuori una stronzata gigantesca. E un rischio ancora maggiore che non venga fuori proprio niente; o che alla fine rimanga una cosa solo tra di noi, che solo noi conosciamo."
"E cosa importa! - Si è alzato ed io non sapevo più quanto di me fosse in lui e quanto invece di lui fosse in me. Mi sembrava che le parti si fossero invertite senza nessun preavviso: mi trovavo a recitare la sua parte quando invece, a rigor di logica, avrebbe dovuto essere lui ad avere qualche dubbio. - Prendiamoci tutto il tempo necessario. Mandiamo a 'fanculo le scadenze che ci eravamo prefissati, mettiamoci dentro tutto il nostro meglio; e se poi viene fuori una cagata o se sarà solo per noi, che ce ne frega. Vorrà dire che ci siamo regalati del buon tempo e ci siamo divertiti. No?"
L'ho guardato senza dire niente. Era in piedi dall'altro lato del tavolo, con il bicchiere di birra in mano, in attesa di una risposta. Io ero seduto, la birra ancora intatta, mai toccata, a guardarmi dentro, tamburellando con le dita sul bicchiere. Mentre il silenzio scendeva nella stanza, infiltrandosi copiosamente nello spazio tra di noi, mi sono accorto di quanto ormai io avessi bisogno di lui. Le sue parole non mi avevano convinto, per il semplice motivo che in realtà non avevo bisogno di essere convinto. Il viaggio di cui parlava, io lo volevo fare molto più di lui; la dimostrazione più semplice era proprio la sua presenza. Avevo però la necessità che qualcuno mi spronasse, che mi spingesse a farlo, a prendere tutto il necessario e metterlo dentro una valigia, anche se immaginaria. Avrei voluto dirgli che le scadenze non avremmo dovuto buttarle, o fare finta che non ci fossero; le scadenze ci servono, proprio per evitare di finire in dei buchi neri.
"Ok. - Ho detto scuotendo un po' la testa per dimenticare gli ultimi indugi. - Ci sono: sono di nuovo in carreggiata."
"Ottimo. - Ha esultato lui rimettendosi a sedere. - Sistemata questa faccenda ti devo dire una cosa."
"Cosa?" Il suo tono si era fatto all'improvviso preoccupato.
Si è chinato in avanti e ha iniziato a parlare a bassa voce, quasi avesse paura che qualcuno lo potesse sentire, come se si vergognasse.
"Oggi ho avuto una sensazione strana: tipo quando da adolescenti ti accorgi che la voce ti sta cambiando, e un giorno ti trovi a parlare con un tono di voce, e il giorno dopo sei venti ottave più sotto. - Ha bevuto un lungo sorso di birra e ha riappoggiato il bicchiere quasi vuoto sul tavolo. - Ma non nella voce; come se fosse qualcosa di più profondo... qualcosa dentro."
"E' normale. - Ho cercato di tranquillizzarlo. - Con il tempo andrà sempre meglio e i cambiamenti saranno meno frequenti e più piccoli."
"Ok, va bene; ti credo. In fondo sono nelle tue mani. - Ha finito la birra lasciandosi scappare un sospiro di sollievo. - Adesso cosa facciamo?"
"Ora penso sia arrivato il momento durante il quale tu debba iniziare a vedere le cose in modo leggermente diverso."
lunedì 21 febbraio 2011
venerdì 18 febbraio 2011
Yankee Bayonet (I Will Be Home Then)
Heart-carved tree trunk, Yankee bayonet
A sweetheart left behind
Far from the hills of the sea-swelled Carolinas
That's where my true love lies
Look for me when the sun-bright swallow
Sings upon the birch bough high
But you are in the ground with the voles and the weevils
All a'chew upon your bones so dry
But when the sun breaks
To no more bullets in Battle Creek
Then will you make a grave
For I will be home then
I will be home then
I will be home then
I will be home then
Then
When I was a girl how the hills of Oconee
Made a seam to hem me in
There at the fair when our eyes caught, careless
Got my heart right pierced by a pin
But oh, did you see all the dead of Manassas
All the bellies and the bones and the bile
No, I lingered here with the blankets barren
And my own belly big with child
But when the sun breaks
To no more bullets in Battle Creek
Then will you make a grave
For I will be home then
I will be home then
I will be home then
I will be home then
Stems and bones and stone walls too
Could keep me from you
Skein of skin is all too few
To keep me from you
But oh my love, though our bodies may be parted
Though our skin may not touch skin
Look for me with the sun-bright sparrow
I will come on the breath of the wind
A sweetheart left behind
Far from the hills of the sea-swelled Carolinas
That's where my true love lies
Look for me when the sun-bright swallow
Sings upon the birch bough high
But you are in the ground with the voles and the weevils
All a'chew upon your bones so dry
But when the sun breaks
To no more bullets in Battle Creek
Then will you make a grave
For I will be home then
I will be home then
I will be home then
I will be home then
Then
When I was a girl how the hills of Oconee
Made a seam to hem me in
There at the fair when our eyes caught, careless
Got my heart right pierced by a pin
But oh, did you see all the dead of Manassas
All the bellies and the bones and the bile
No, I lingered here with the blankets barren
And my own belly big with child
But when the sun breaks
To no more bullets in Battle Creek
Then will you make a grave
For I will be home then
I will be home then
I will be home then
I will be home then
Stems and bones and stone walls too
Could keep me from you
Skein of skin is all too few
To keep me from you
But oh my love, though our bodies may be parted
Though our skin may not touch skin
Look for me with the sun-bright sparrow
I will come on the breath of the wind
Performed by The Decemberist
giovedì 17 febbraio 2011
Inizio
Ho preso un me a caso, uno fra i tanti. Non l'ho modificato per niente, anzi l'ho lasciato il più possibile uguale a com’era. Non l'ho abbellito, né imbruttito: l'ho semplicemente preso come un mago potrebbe prendere un coniglio dal proprio cilindro. Quando lo guardavo era come essere di fronte ad uno specchio: stessi capelli lisci e lunghi, chiari ma non biondi, magari un po' indisciplinati poco prima di arrivare alle spalle; occhi sottili, a tratti come asole senza bottoni; le labbra nascoste da qualche parte sulla faccia; il naso grande, forse anche leggermente storto; e la barba sfatta, di una settimana, poco più lunga intorno alla bocca. Potevo modellarlo come da bambini facevamo con il pongo, magari arrotondando un po' i lineamenti e rendendolo più armonioso, meno particolare; ma non era questo che volevo fare. Volevo una fotocopia di me, una fotografia di uno dei tanti me che ho dentro e che al momento sembrano desiderare di uscire fuori con più prepotenza del solito.
Si è seduto di fronte a me. Muto. Silenzioso nel silenzio della mia cucina. Sembrava inanimato, un po' intontito, e forse era entrambe le cose. Gli ho fatto ricordare aspetti della vita che molto probabilmente non credeva neppure di sapere. E' normale fosse confuso, disorientato, lo sarebbe chiunque nella sua situazione. E' come se lo avessi svegliato da un coma durato anni, afferrandolo per i capelli, e gli avessi spiattellato in faccia tutta la realtà possibile in meno di un'ora. Tutto a un tratto si è trovato a dovere imparare di nuovo ogni dettaglio immaginabile da zero, dall'inizio. Ricominciare a parlare, a camminare, a vedere.
Mentre gli parlavo, spiegandogli grosso modo cosa avessi intenzione di fare, lo vedevo attento, gli occhi concentrati e fissi su di me. Pareva un bambino al primo giorno di scuola, ingordo di sapere. Non faceva domande, non interrompeva; si limitava ad ascoltare, respirando lento e battendo le palpebre il meno possibile.
Non sapevo se mai mi avrebbe potuto perdonare per quello che gli stavo chiedendo di fare. Io al suo posto molto probabilmente non ne sarei stato capace. Mi ha stupito non poco quando ha accettato di farlo. Nel suo sguardo intravedevo una specie di luccichio pieno di fiducia. Forse pensava che non gli poteva succedere niente di male, che in fondo quello che lo attendeva non era altro che un semplice lungo viaggio. Ma a dire la verità io questo non lo potevo dire con sicurezza. Non lo posso dire neppure ora che tutto quanto è ormai iniziato. Non so se davvero non si ferirà, o se lui abbia capito sul serio quando gli ho detto sincero:
"Può darsi ti ferisca e tu non riesca a vedere le ferite. E' il peggior modo di soffrire, quando non si vede il sangue."
"Non credo di capire totalmente quello che vuoi – ha risposto lui. – o quello che vuoi io faccia; ma per me va bene. Ok, facciamolo."
Gli ho versato da bere e dentro di me ho ringraziato chissà chi per quanto tutto fosse stato tanto semplice. Mi aspettavo di dovere mentire, di dovere accampare scuse su scuse; temevo avrebbe fatto un'infinità di domande, cercando di capire cosa in realtà c'era dietro quello che gli stavo chiedendo di fare, avevo paura di dovermi nascondere dietro varie dita, come un vigliacco, o come qualcuno che si vergogna a morte di ciò che sta dicendo. Invece è bastato raccontargli la verità, pura, semplice, onesta, e tutto è filato liscio.
Proprio per questo forse alla fine mi sono sentito in colpa, e senza neppure accorgermene ho iniziato a mettere le mani avanti, a elencare tutta una serie di possibilità che potevano accadere. Non volevo ingannarlo: volevo sapesse bene a cosa andava incontro.
"Ascolta: non posso prometterti niente. Non vorrei che ti aspettassi qualcosa per poi rimanerne deluso. So bene o male dove tutto quello che ho in testa ti porterà, ma non so al cento per cento se mai arriverai là dove dovresti arrivare. Potrei perderti prima, oppure abbandonarti in qualche landa desolata, solo e senza nessuno attorno. Ed anche se mai arriverai dove vorrei, non so se potrai mai tornare indietro, o se sarai per sempre confinato là, come chiuso dentro una scatola."
Lui mi ha guardato sereno, tranquillo, come chi ha preso la sua decisione già da tempo.
"Te lo ripeto: non so cosa tu voglia fare, ma mentre parliamo lo stiamo già facendo."
Si è seduto di fronte a me. Muto. Silenzioso nel silenzio della mia cucina. Sembrava inanimato, un po' intontito, e forse era entrambe le cose. Gli ho fatto ricordare aspetti della vita che molto probabilmente non credeva neppure di sapere. E' normale fosse confuso, disorientato, lo sarebbe chiunque nella sua situazione. E' come se lo avessi svegliato da un coma durato anni, afferrandolo per i capelli, e gli avessi spiattellato in faccia tutta la realtà possibile in meno di un'ora. Tutto a un tratto si è trovato a dovere imparare di nuovo ogni dettaglio immaginabile da zero, dall'inizio. Ricominciare a parlare, a camminare, a vedere.
Mentre gli parlavo, spiegandogli grosso modo cosa avessi intenzione di fare, lo vedevo attento, gli occhi concentrati e fissi su di me. Pareva un bambino al primo giorno di scuola, ingordo di sapere. Non faceva domande, non interrompeva; si limitava ad ascoltare, respirando lento e battendo le palpebre il meno possibile.
Non sapevo se mai mi avrebbe potuto perdonare per quello che gli stavo chiedendo di fare. Io al suo posto molto probabilmente non ne sarei stato capace. Mi ha stupito non poco quando ha accettato di farlo. Nel suo sguardo intravedevo una specie di luccichio pieno di fiducia. Forse pensava che non gli poteva succedere niente di male, che in fondo quello che lo attendeva non era altro che un semplice lungo viaggio. Ma a dire la verità io questo non lo potevo dire con sicurezza. Non lo posso dire neppure ora che tutto quanto è ormai iniziato. Non so se davvero non si ferirà, o se lui abbia capito sul serio quando gli ho detto sincero:
"Può darsi ti ferisca e tu non riesca a vedere le ferite. E' il peggior modo di soffrire, quando non si vede il sangue."
"Non credo di capire totalmente quello che vuoi – ha risposto lui. – o quello che vuoi io faccia; ma per me va bene. Ok, facciamolo."
Gli ho versato da bere e dentro di me ho ringraziato chissà chi per quanto tutto fosse stato tanto semplice. Mi aspettavo di dovere mentire, di dovere accampare scuse su scuse; temevo avrebbe fatto un'infinità di domande, cercando di capire cosa in realtà c'era dietro quello che gli stavo chiedendo di fare, avevo paura di dovermi nascondere dietro varie dita, come un vigliacco, o come qualcuno che si vergogna a morte di ciò che sta dicendo. Invece è bastato raccontargli la verità, pura, semplice, onesta, e tutto è filato liscio.
Proprio per questo forse alla fine mi sono sentito in colpa, e senza neppure accorgermene ho iniziato a mettere le mani avanti, a elencare tutta una serie di possibilità che potevano accadere. Non volevo ingannarlo: volevo sapesse bene a cosa andava incontro.
"Ascolta: non posso prometterti niente. Non vorrei che ti aspettassi qualcosa per poi rimanerne deluso. So bene o male dove tutto quello che ho in testa ti porterà, ma non so al cento per cento se mai arriverai là dove dovresti arrivare. Potrei perderti prima, oppure abbandonarti in qualche landa desolata, solo e senza nessuno attorno. Ed anche se mai arriverai dove vorrei, non so se potrai mai tornare indietro, o se sarai per sempre confinato là, come chiuso dentro una scatola."
Lui mi ha guardato sereno, tranquillo, come chi ha preso la sua decisione già da tempo.
"Te lo ripeto: non so cosa tu voglia fare, ma mentre parliamo lo stiamo già facendo."
martedì 15 febbraio 2011
L'arcobaleno della gravità
Si sente all’improvviso lontano un centinaio di chilometri. Persino fra le maglie di quella guerra, la solitudine, quando vuole, può attanagliarti l’intestino cieco, renderlo insensibile, come in quel momento.
gli agenti segreti si facevano tatuare i messaggi in codice, in una decina di lingue slave, sopra il labbro superiore, si facevano crescere i baffi per poi lasciarseli radere solo da crittografi autorizzati
I due tenenti si osservavano attraverso quelle ombre gravide di birra
Più o meno nello stesso periodo, Tantivy aveva cominciato a capire quanto Slothrop fosse solo. A parte quella moltitudine di ragazze che raramente vedeva una seconda volta, sembrava che a Londra non avesse nessun altro con cui scambiare quattro chiacchiere.
Nel 1931, l’anno del Grande Incedio dell’Aspinwall Hotel, il giovane Tyrone era andata a trovare i suoi zii a Lenox. Era aprile ma, mentre si stava svegliando in quella stanza a lui poco familiare per il fracasso dei vari cugini e cuginetti che scendevano le scale, per qualche attimo aveva pensato fosse inverno, poiché spesso, più o meno a quell’ora, papà o Hogan lo svegliavano e, mentre lui sbatteva le palpebre, ancora imbacuccato nelle coperte dei sogni, lo spingevano fuori al freddo a osservare l’aurora boreale.
Immaginate un missile che si sente arrivare solo dopo che è esploso. Alla rovescia! Un frammento di tempo reciso con precisione… qualche metro di pellicola fatta scorrere al contrario… il razzo, arrivato più veloce del suono, scoppia – poi, dalla sua stessa esplosione scaturisce il rombo della sua discesa, ricongiungendosi alla morte e al fuoco che ha già causato… un fantasma nel cielo…
in quel posto non hanno la sensazione di essere in pericolo, Jessica però vorrebbe che ci fossero altre persone in giro, vorrebbe che fosse veramente come un piccolo borgo di paese, il suo paese. I proiettori dell’antiaerea potevano anche restare a illuminare la notte, e i palloni di sbarramento, con la loro aria pingue e amichevole, potevano restare a salutare l’alba; poteva restare tutto, perfino le esplosioni in lontananza, finché risultavano inutili… finché nessuno doveva morire… Perché non poteva essere così? Solo uno spettacolo emozionante di suoni e luci (oh, poter vivere in un mondo dove era quella l’unica emozione della giornata…), solo un temporale estivo che si avvicinava, un rombo benevolo…
Finché non cade qualche bomba abbastanza vicina, in grado di toccarli personalmente, lei e Roger continueranno a essere al sicuro: i loro boschetti di steli blu argento che si allungano al calar della notte a sfiorare le nuvole o a spingerle via, le masse di soldati in uniforme verde e marrone, nel tardo pomeriggio, il loro sguardo perso in lontananza, convogliati verso il fronte, verso un grande destino che, stranamente, ha poco a che vedere con la loro vita, lì dentro… Non lo sapevi che c’era la guarra, stupida? Si, però… qui c’è Jessica nel pigiama smesso di sua sorella, e Roger addormentato senza nulla addosso – insomma, dov’è questa guerra?
L’ago scivola indolore nella vena, vicino alla concavità nella piega del gomito
“Rosie, esiste forse una scala in grado di misurare i ‘tratti’ interpersonali di un individuo?” gli chiede, sondando l’aria con il suo naso da falco, lo sguardo scaltramente abbassato. “I valori umani, come la fiducia, l’onestà, l’amore? Esiste per caso – perdona la mia insistenza – una scala in grado di misurare la religiosità?”
In quel momento, mentre scende la sera, comincia a cadere qualche amaro fiocco di neve.
Stimolo incondizionato = strofinare leggermente il pene con un tampone di cotone sterilizzato.
Riflesso incondizionato = erezione.
Stimolo condizionato = x.
Riflesso condizionato = erezione ogniqualvolta sia presente x; non è più necessario passare il tampone, tutto ciò di cui si ha bisogno è lo stimolo x.
Mmm… x? Insomma, che cos’è questo stimolo x? Ebbene, è il famoso ‘Stimolo Misterioso’ che affascina intere generazioni di studiosi di psicologia comportamentale, ecco cos’è.
“Non è il mio campo, ovviamente”, Mexico non desidera davvero offenderlo, però… “tuttavia ho l’impressione che questa storia della causa-effetto sia stata portata al limite estremo, che la scienza, per poter andare avanti, debba partire da una serie di premesse meno anguste, meno… sterili. La prossima grande conquista della scienza potrà arrivare quando avremo il coraggio di scartare completamente il concetto di causa-effetto, cercando di procedere da un’altra angolazione.”
Nascosta alla sua vista, la macchina da presa segue silenziosa i lenti movimenti della ragazza, mentre questa vaga da una stanza all’altra con fare volutamente ozioso, le gambe lunghe, le spalle ampie e inarcate da adolescente, i capelli biondissimi non tagliati all’olandese (come ci si potrebbe aspettare), ma acconciati modernamente, fermati all’insù con un vecchio diadema d’argento ossidato. La permanete del giorno prima le ha bloccato i capelli biondi in un centinaio di vortici che ora brillano attraverso la filigrana scura. Anche se è pomeriggio , la scena è illuminata da una luce supplementare al tungsteno e la lente è aperta al massimo. È il giorno più piovoso del recente passato. Le esplosioni dei razzi in lontananza, verso sud e verso est, ogni tanto vengono a visitare il villino, scuotendo non le finestre rigate di pioggia, ma solo le porte, attraevate da una serie di tremori lenti, tre o quattro di seguito, come se fuori ci fossero dei poveri spiriti che stessero bussando, che avessero un bisogno disperato di compagnia, chiedendo di entrare solo per un attimo, per una carezza…
La casa è situata a ovest dell’ippodromo di Duindigt, in direzione decisamente opposta rispetto a Londra, tuttavia nessun angolo di direzione può essere considerato sicuro – spesso i razzi si mettono a girare su se stessi in cielo, nitrendo impazziti, e poi cadono, guidati solo dalla propria follia, ormai incrollabili e, ahimè, incurabili. Quando c’è tempo, i loro proprietari provvedono a sopprimerli via radio, mentre sono ancora in preda alle loro convulsioni, fra cielo e terra.
Jessica portava una maglia rossa con le maniche corte, e le sue braccia nude lungo i fianchi avevano un riflesso rosso. Non si era truccata: era la prima volta che Roger Mexico la vedeva così. Mentre si stravano dirigendo verso la macchina, lei aveva preso la mano di Roger e se l’era infilata delicatamente tra le cosce. Il cuore di Roger aveva avuto un’erezione, ed era venuto. Si, era stata proprio quella la sensazione che aveva provato: un grande fremito a livello epidermico era salito dalla linea mediana aprendosi a V, fino a inondargli i capezzoli… è l’amore, è una cosa sorprendente. Perfino quando lei non c’è, quando lui si risveglia da un sogno, quando vede una faccia per strada che potrebbe essere, per qualche probabilità remoto, quella di Jessica, non riesce a controllarlo, l’amore lo tiene in pugno.
Fuori, dalla finestra, si stava affacciando il mattino.
Quando, nelle loro notti folli, monta su di lui per cavalcarlo – la pertica rigida di Roger divenuta il suo asse – cercando di essere anche lei dura per non liquefarsi completamente come un’esile candela e spandersi sul copriletto quando viene, tutto quello che riesce a fare è ripetere Roger, Roger, amore mio, con un esile filo di voce.
Di fatto, però, chi può sapere che cosa vuole davvero la Guerra, così grande, così fredda, così… assente. forse la Guerra non è nemmeno una consapevolezza, una forma di vita, ma solo qualche cosa che assomiglia, in modo crudele accidentale, alla vita. Alla Withe Visitation c’è un lungodegente, un vecchio paziente schizofrenico il quale crede d’essere la seconda guerra mondiale. Non vuole leggere i giornali, si rifiuta d’ascoltare la radio, eppure, per qualche ragione, il giorno dello sbarco in Normandia già venuta la febbre a quaranta. Adesso, mentre le forza alleata continuano a stringere d’assedio il nemico, da est e da ovest, in una lenta manovra a tenaglia e si contraggono lentamente come per riflesso naturale, lui parla dell’oscurità che invade la sua mente, dell’attrito dell’io…
Deve basare la parte più importante della propria vita sull’onestà delle persone incaricata di agire come interfaccia fra ciò che lui dovrebbe essere e ciò che è realmente.
gli rivolge un sorriso che disegna delle fossette nelle sue guance
Se ne stanno lì ad ascoltare le raffiche di pioggia, ora diventata quasi nevischio. L’inverno si addensa, si diffonde, si incupisce. In fondo a una sala, da qualche altra parte, si sente il rumore secco della pallina della roulette. Ketje sta fuggendo da lui. Perché? Si è forse avvicinato di nuovo troppo? Slothrop cerca di ricordare se Katje abbia sempre avuto bisogno di esprimersi così, giocando di sponda, rimbalzando prima di poterlo toccare.
I roditori hanno avuto il loro momento di libertà. Webley è stato solo il loro ospite d’onore. Adesso si ritorna tutti quanti alle gabbie e alla morte razionalizzata – la morte al servizio della sola specie afflitta dalla consapevolezza di dover morire…
Proverbi per i Paranoici, 3: Se loro riescono a farvi fare la domanda sbagliata, non dovranno preoccuparsi della risposta.
La pelle d’oca decora i suoi piccoli seni.
sembra quasi che cerchi di convincerci che la malattia del cristianesimo non ci abbia mai sfiorato, quando è risaputo che ci ha infettato tutti, in alcuni casi mortalmente.
Slothrop riesce a trascinarsi fino a una cantina vuota, in una casa situata di fronte a una chiesa in rovina, si raggomitola a terra e se ne sta lì, per giorni, tremante di febbre, a grondare una merda che brucia come l’acido – indifeso, solo con quella mano potente che gli serra le budella, la quale sembra uno di quei nazisti cattivi che si vedono al cinema
che cosa succede quando due paranoici s’incontrano? Un incrocio di due solipsismi, è chiaro. I disegni della loro paranoia ne formano un terzo: un moiré, un nuovo mondo di ombre sfuggenti, di interferenze… “Mi vogliono qui? E per che cosa?”
non si tratta solo di recitare una parte, ma di viverla.
Gustav vorrebbe mettersi a sghignazzare, però si scopre che Saure in realtà è un esperto nella difficile arte della papiromanzia – ovvero la capacità di profetizzare il futuro osservando il modo in cui la gente s’arruola gli spinelli: la forma, i segni lasciati dalla lingua nel leccarli, le grinze e le pieghe presenti sulla cartina o la loro relativa assenza. “Presto ti innamorerai”, dice Saure, “guarda, lo dice questa linea qua.”
“È lunga, eh? Vuol dire forse che…”
“La lunghezza di solito indica l’intensità, non la durata.”
“Breve ma dolce”, sospira Magda.
Le guerre hanno un modo tutto loro di annullare i giorni che le precedono. Nel guardare al passato, c’è un tale rumore, una tale gravità… Il condizionamento a cui siamo sottoposti, però, ci fa dimenticare tutto. Affinché la guerra possa avere più importanza… si, eppure… non è forse più facile vedere il meccanismo segreto nei giorni che precedono l’evento? Ci sono preparativi, cose da sbrigare… e spesso i margini si sollevano brevemente, e vediamo cose che non avemmo dovuto vedere…
“Penso che adesso esista nel Mondo una possibilità terribile. Non possiamo ignorarla, dobbiamo affrontarla. È possibile che Loro non muoiano. Adesso come adesso, Loro hanno i mezzi per andare avanti all’infinito – noi, tuttavia, continueremo a morire come abbiamo sempre fatto. La Morte è stata la fronte del Loro potere. Non è stato difficile per noi vederlo. Se siamo qui, su questa Terra, una volta, una volta soltanto, allora siamo qui direttamente per prendere tutto quello che possiamo, finché possiamo. Se Loro hanno preso molto di più, non soltanto alla Terra ma anche a noi – ebbene, perché volergliene, in fondo, visto che Loro sono condannati a morire così come lo siamo noi? Siamo tutti sulla stessa barca, sotto la stessa ombra… si… si. Ma sarà poi vero? Oppure si tratta della Loro menzogna più raffinata, della Loro menzogna diffusa con più cura, fra tutte quelle note e meno note?
Dobbiamo andare avanti, pur sapendo che forse moriamo solo perché lo vogliono Loro: perché Loro hanno bisogno del nostro terrore per sopravvivere. Noi siamo il Loro raccolto…”
“Forse Loro non moriranno più nel Loro letto – ma almeno possono morire di mote violenta. E anche se non è così, possiamo almeno imparare a negare Loro la nostra paura della Morte. Esiste un tipo di croce per ogni tipo di vampiro.”
“Lei crede di potermi… ehm… stilare un rapporto immediato della situazione?”
“Oh, Geoffrey, su, andiamo…” Ecco arrivare Sammy Hilbert-Spaess, di ritorno dalla sola docce dove ha appena assistito a quell’allegro sollazzo, il quale scuote la testa, mentre i suoi occhi sporgenti, levantini, continuano a fissare gli altri dall’alto in basso. “Geoffrey, anche se riceverai un resoconto, a quel punto la situazione sarà cambiata completamente. Certo, potremmo dartene un quadro generale, riassumerla finché vuoi, però si perderebbe così tanta precisione, in definizione, che non ne varrebbe più la pena, ti pare? Accontentati di guardarti attorno, Geoffrey. Guardati bene attorno, per vedere chi c’è.”
E quando sospirate beati nel vostro agio,
Chiedetevi come se la stia passando –
Poiché, secondo voi esiste più decoro
Nel vendersi per una manciata d’oro,
O rinunciare alla vita vera sospirando?
“Ma non pensi alla libertà che questo comporta?” chiede Evans il Misericordioso. “Io non posso neppure fidarmi di me stesso… Si può forse essere più liberi di così? Se un uomo può essere venduto da chiunque, perfino da se stesso… capisci?”
Più o meno in quel momento, come se fosse bastato il desiderio di qualcuno a farlo apparire, nel cielo si vede un punto d’ago: la prima stella.
“Tu come paranoico sei un principiante… Roger.” È la prima volta che Pirata lo chiama per nome e Roger ne è commosso, quanto basta per farlo frenare nella sua invettiva. “Naturalmente, la paranoia presuppone un ‘sistema Loro’ ben articolato – ma questo rappresenta solo la metà della questione. Per ogni ‘Loro’ dovrebbe esserci anche un ‘Noi’. Nel nostro caso c’è. La paranoia creativa vuol dire sviluppare un ‘sistema Noi’ minuzioso per lo meno quanto il ‘sistema Loro’…”
“Ma da quando è diventato impossibile morire per la morte, abbiamo avuto una versione secolare: quella che sostiene lei, Vaslav. Morire per aiutare la Storia a svilupparsi, per aiutarla a raggiungere la sua forma predestinata. Morire sapendo che l’atto che si compie permetterà di avvicinarsi ancora un poco al buon fine a cui si tende. Il suicidio rivoluzionario. Perfetto. Però, attenzione, Vaslav: se i cambiamenti della Storia sono davvero inevitabili, allora perché non si può scegliere invece di non morire? Se il cambiamento avverrà comunque, a che serve morire?”
Se c’è ancora speranza per Gottfried, lì, in quel momento sferzato dal vento, allora deve esserci speranza anche altrove. La scena in sé deve essere interpretata come una carta dei tarocchi: quello che accadrà. Tutto quello che è accaduto finora alle figure rappresentate nella scena (disegnata in modo grossolano, di un colore bianco sporco, grigio militare, dai tratti essenziali come uno schizzo su un muro in rovina) sarà conservato anche se non ha un nome e, come il Matto, non ha un posto fisso nel mazzo.
Ludwig ha incontrato un destino peggiore della morte, e ha scoperto che ci si può venire a patti.
Il vino sortirà il suo effetto su qualsiasi cosa accada. Non ti è mai capitato di svegliarti, ritrovandoti con un coltello in mano, con la testa infilata nel gabinetto, con l’immagine sfocata di uno sfollagente che sta per spaccarti il labbro superiore, e hai deciso di ripiombare nel tuo pisolino rosso e capillarizzato, dove niente di tutto questo sarebbe mai potuto accadere? E poi ti sei svegliato ancora una volta sentendo una donna gridare, e poi ancora una volta sentendo l’acqua del canale gelarti gli occhi e le orecchie, e poi ancora una volta sentendo il rombo di un’infinità di Fortezze Volanti, e poi ancora, e ancora… Ma no, niente di tutto questo è mai stato reale.
Lo sballo da vino: lo sballo da vino sfida la legge di gravità, ti ritrovi sul tetto dell’ascensore mentre questo sale come un razzo, e non c’è modo di scendere. Ti separi in due, in Due Parti fondamentali, e ogni ‘io’ è consapevole dell’altro.
Thomas Pynchon
lunedì 14 febbraio 2011
martedì 8 febbraio 2011
Costruzioni
dici: costruiamo qualcosa insieme, qualcosa di grande, tipo una città o una metropoli. a me vengono subito in mente i tralicci dell'altra tensione. mi domando dove potremmo posizionare la centrale elettrica, le linee telefoniche di emergenza. mi immagino il colore giallo acceso dei cartelli di pericolo, quelli con disegnato dentro un fulmine nero, il punto preciso dove appenderli, le recinzioni, il rumore dell'elettricità che sfrigola dentro i meccanismi con lo stesso suono di uno sciame composto da milioni di api. vedo già tutti gli impianti di sicurezza, e le procedure da eseguire qualora qualche balordo cercasse di attirare l'attenzione facendo un attentato per immergere la nostra città nell'ombra.
tu sorridi e pensi a come disegnare le strade, a quale direzione fargli prendere. ai supermercati e gli uffici postali. crei uno a uno tutti quanti i nostri cittadini, li fai muovere, spostandoli da un posto all'altro, da casa a fuori, li fai viaggiare, prendere l'autobus - a allora dobbiamo decidere in quale punto della città costruire la centrale degli autobus e quale tariffa applicare agli anziani e ai bambini. e se ci sono dei bambini devono esserci degli asili, e delle scuole elementari, medie, le superiori, poi l'università, le biblioteche dove andare a studiare e fare sbocciare i primi amori - gli fai preparare le valige la sera prima di andare a dormire perché il giorno dopo devono fare un viaggio lungo in aereo - e allora c'è bisogno almeno di un aeroporto, di un posto abbastanza grande da poterci costruire una pista d'atterraggio, una torre di controllo, una sala d'attesa dove i parenti possono aspettare il ritorno dei propri cari, e i mariti attendere le mogli di ritorno dal loro viaggio.
e dove andrebbero, ti chiedo, se la città l'abbiamo costruita noi e oltre a questa non c'è niente, altrimenti l'avremmo già conquistato questo niente riempiendolo con qualcosa. ma tu mi guardi come se mi fossi bloccato davanti a una specie di banalità, mi fossi perso in un bicchiere d'acqua e non riuscissi più a venirne fuori, scivolando sulle pareti mentre cerco di arrampicarmi fino al bordo. mi dici: in altre città costruite da qualcun'altro, ecco dove vanno.
in questa nostra avventura da ingegneri immaginari, sindaci di una città invisibile quanto la nostra fantasia, stanno tutte le differenze che ci separano. possono sembrare banali, particolari da niente, ma per quanto piccole e insignificanti mettono centimetri tra noi due, andando ad alimentare quello spazio dentro il quale non ci capiamo, anche se passiamo il tempo a cercare di capirci. io mi preoccupo della sicurezza, forse per la paura di farmi male, di cadere da un punto alto o da una zona pericolosa. tu invece ti apri al mondo e pensi alle altre persone, a costruire tutto quanto senza dare troppa importanza alle cose marginali, ti impegni in ciò che credi essenziale. fai viaggiare i tuoi cittadini, mentre io non farei altro che dargli energia.
sono necessarie entrambe le cose, tanto è vero che nelle città reali ci sono sia le centrali elettriche che gli aeroporti e le stazioni. non si può fare senza gli ospedali o i trasporti con i quali recarcisi, magari per lavorare o per farsi curare. sono due aspetti che devono intrecciarsi con equilibrio. le differenze non significano per forza lontananza o non affinità. è tutto nelle nostre mani, in quanto saremo bravi a saperle legare assieme, scioglierle negli interessi dell'altro. le differenze a volte possono anche unire, basta riuscirle a trasformare in colla.
tu sorridi e pensi a come disegnare le strade, a quale direzione fargli prendere. ai supermercati e gli uffici postali. crei uno a uno tutti quanti i nostri cittadini, li fai muovere, spostandoli da un posto all'altro, da casa a fuori, li fai viaggiare, prendere l'autobus - a allora dobbiamo decidere in quale punto della città costruire la centrale degli autobus e quale tariffa applicare agli anziani e ai bambini. e se ci sono dei bambini devono esserci degli asili, e delle scuole elementari, medie, le superiori, poi l'università, le biblioteche dove andare a studiare e fare sbocciare i primi amori - gli fai preparare le valige la sera prima di andare a dormire perché il giorno dopo devono fare un viaggio lungo in aereo - e allora c'è bisogno almeno di un aeroporto, di un posto abbastanza grande da poterci costruire una pista d'atterraggio, una torre di controllo, una sala d'attesa dove i parenti possono aspettare il ritorno dei propri cari, e i mariti attendere le mogli di ritorno dal loro viaggio.
e dove andrebbero, ti chiedo, se la città l'abbiamo costruita noi e oltre a questa non c'è niente, altrimenti l'avremmo già conquistato questo niente riempiendolo con qualcosa. ma tu mi guardi come se mi fossi bloccato davanti a una specie di banalità, mi fossi perso in un bicchiere d'acqua e non riuscissi più a venirne fuori, scivolando sulle pareti mentre cerco di arrampicarmi fino al bordo. mi dici: in altre città costruite da qualcun'altro, ecco dove vanno.
in questa nostra avventura da ingegneri immaginari, sindaci di una città invisibile quanto la nostra fantasia, stanno tutte le differenze che ci separano. possono sembrare banali, particolari da niente, ma per quanto piccole e insignificanti mettono centimetri tra noi due, andando ad alimentare quello spazio dentro il quale non ci capiamo, anche se passiamo il tempo a cercare di capirci. io mi preoccupo della sicurezza, forse per la paura di farmi male, di cadere da un punto alto o da una zona pericolosa. tu invece ti apri al mondo e pensi alle altre persone, a costruire tutto quanto senza dare troppa importanza alle cose marginali, ti impegni in ciò che credi essenziale. fai viaggiare i tuoi cittadini, mentre io non farei altro che dargli energia.
sono necessarie entrambe le cose, tanto è vero che nelle città reali ci sono sia le centrali elettriche che gli aeroporti e le stazioni. non si può fare senza gli ospedali o i trasporti con i quali recarcisi, magari per lavorare o per farsi curare. sono due aspetti che devono intrecciarsi con equilibrio. le differenze non significano per forza lontananza o non affinità. è tutto nelle nostre mani, in quanto saremo bravi a saperle legare assieme, scioglierle negli interessi dell'altro. le differenze a volte possono anche unire, basta riuscirle a trasformare in colla.
lunedì 7 febbraio 2011
SettePerUno - Mi Credevo Diverso (I)
Sabato scorso è iniziato questo racconto sul sito SettePerUno. Terminerà il 26 Febbraio, una puntata ogni sabato.
Per chi volesse leggerlo:
Mi Credevo Diverso (Parte I)
Per chi volesse leggerlo:
Mi Credevo Diverso (Parte I)
venerdì 4 febbraio 2011
Scegli me (un mondo che tu non vuoi)
Scegli me
Io non posso credere
di averti qui con me
in un mondo che tu non vuoi
E mentre parlo
rispondi ad ogni mio perché
Riscoprirò chi sei
Provo a fingere
per lei io mi deflagherei
Non mi senti ed io non parlo
Rimangono le nuvole
Siamo un giorno senza luce ormai
ma scegli me
Un giorno senza luce ormai
Io non posso credere
di averti qui con me
in un mondo che tu non vuoi
E mentre parlo
rispondi ad ogni mio perché
Riscoprirò chi sei
Provo a fingere
per lei io mi deflagherei
Non mi senti ed io non parlo
Rimangono le nuvole
Siamo un giorno senza luce ormai
ma scegli me
Un giorno senza luce ormai
Performed by Verdena
giovedì 3 febbraio 2011
IV
Pioveva spesso, fuori. Si sentiva l'acqua ticchettare a ritmo di orologio, metronomo convulso, sul vetro delle finestre alte, poste pochi palmi sotto il soffitto, a sorreggerlo e ad affacciarsi sul fuori, importando dentro luce fioca ma non aria. Era un rumore costante al quale prima o poi ti abituavi: ti cresceva un callo tra il timpano, incudine e martello, staffa, filtrava i suoni e i rumori, facendo passare come setaccio solo quelli più opportuni, quelli interessanti. Si sentiva provenire da fuori il fragore di un tuono o di un lampo occasionale, lo scoppio lontano, oltre le montagne, di una bomba lasciata cadere da un aereo partito poco prima, e di cui avevamo ascoltato la scia perdersi verso l'orizzonte in chiazze di nuvole tratteggiate. Non si sentiva il suono della pioggia che sbatteva contro le finestre, quello mai. Da dentro si aveva l'impressione che fuori fosse sempre un tempo meraviglioso: sole sulle valli, prati incontaminati di un verde accecante da quanto lucido, con erba alta, quando invece dentro, separati da un muro che ci dicevamo fosse solido isolante, era freddo così tanto da farci tremare le ossa, intrise di gelo fino a riempire tutti i pori del midollo. Per questo, mi dicevo all'inizio, ti vedevo in quel modo stretta attorcigliata su te stessa, per far sì che il tuo fiato riscaldasse la più grande quantità di pelle con un solo respiro. Avevi freddo, quello era vero. Sentivi quasi un nulla spingere fuori dall'interno, cercando in tutti i modi di espandersi ed evolversi, con il suo soffio ghiacciato in cristalli di paura che per combatterlo era naturale utilizzare il caldo, il fuoco o il calore del tuo corpo, per quanto esile ed in esaurimento fosse. Ma non era questo il motivo per cui ti respiravi addosso, alitandoti in continuazione prima sui polsi, poi sulle braccia, sulla pancia, sopra il ventre, rigirando il tuo sospiro tiepido tutto intorno al petto. Il motivo vero era un altro, lontano da quello che avevo pensato con incorreggibile presunzione.
Erano i giorni durante i quali era stato permesso alzarmi, muovermi dalle piaghe da decubito che mi sarebbero marcite addosso se fossi stato anche solo per altro poco tempo steso sulle lenzuola del mio letto. Il dottore mi aveva tranquillizzato, seduto dietro la sua perfetta scrivania ordinata davanti ai suoi diplomi, che niente e nulla c'era di malato in me nello ossa, o nei muscoli, i tendini, l'apparato locomotore tutto.
"Non c'è motivo per cui debba restarsene ogni giorno sdraiato a letto."
Le infermiere presero a darmi una flebo ogni pomeriggio, più o meno sempre alla stessa ora. Mi davano un bastone alto, con le ruote, non per appoggiarmi con il peso su di esso ma per trasportare sopra la mia testa la bottiglia spessa di colore trasparente che gocciolava capovolta all'ingiù fino in fondo alle mie vene. Con questo supporto molto artigianale, ma allo stesso ospedaliero, facevo lunghe maratone in lungo e in largo per i corridoi malati dei reparti. I letti con i pazienti agonizzanti sopra, avvolti e sconvolti nelle lenzuola sporche lise e lese, erano i marciapiedi della mia strada, uno a destro uno a sinistra, e mi accompagnavano dalla mia branda fino a quella che prima dell'avvento della guerra forse era considerata una sala relax, dove potere andare tranquilli a parlare, fumare o soltanto ascoltare l'aria farsi sempre più rarefatta.
Era una stanza quadrata, quasi del tutto spoglia, dove le poche sedie galleggiavano sul pavimento liberate qua e là sulle piastrelle chiare. C'erano ampie finestre che davano sull'esterno e si vedeva: prima il giardino dell'ospedale, lastricato di piccoli vialetti cementati, corrimano per aiutarsi, un sistema nervoso che univa tante rotondeggianti piazzole sparse un po' ovunque; oltre, a segnare il confine di quello spazio di riposo medico forzato, un fitto bosco con massici alberi dalla folta chioma, querce verdi o piante ancor più grandi, nel quale l'ombra penetrava e non lasciava uscire più la luce; il profilo alto, quanto più degli alberi, della città che avanzava verso l'orizzonte, palazzi, tetti, antenne televisive e radiofoniche, capelli grigi scuri di un paesaggio così silenzioso, da dove eravamo, da sembrare quasi un quadro, non reale.
Mi piaceva, in quei giorni, starmene in piedi di fronte a quel disegno fatto di colori sporchi, appoggiare la mano sul ferro freddo del mio sostegno, stando attento a non avvolgere troppo il braccio attorno al tubo che mi riforniva con la flebo, e guardare, solo guardare, stando zitto muto e fermo, per paura di rompere qualcosa, di sciupare quella perfetta armonia, di echi lontani e di silenzi vicini, che legava me alla metropoli poco industriale che non mi aveva visto crescere. Rimanevo lì fino a quando le ultime gocce scendevano con movimenti sempre più contati, ed immaginavo quello che veniva dopo, dopo la città, dopo le valli e le montagne. La guerra contro il tutto che ancora non avevo perso nella testa. Vedevo ancora, se chiudevo gli occhi, i fumi scuri alzarsi nella battaglia, la terra coperta dai nostri corpi, i proiettili caduti consumati negli spari.
In uno di quei giorni mi accorsi come non mai di quanto sarebbe stato difficile lasciarsi alle spalle tutto, allontanarsi da quel poco vissuto e molto morto che continuavamo a perpetrare.
"Non ci riuscirai mai." Mi leggesti nella mente tu.
Mi voltai di scatto, impaurito da quell'intrusione inaspettata. Eri seduta su una sedia a rotelle, come appoggiata in un angolo dove prima non ti avevo vista. Non saprei dire se eri lì già da quando ero entrato o se mi avessi seguito subito dopo essere sceso dal letto, magari chiamando un'infermiera e obbligandola a trovarti un mezzo, un modo per venire subito in scia con me.
"Te lo porterai sempre dentro, e ovunque andrai, per quanto proverai a scappare, sarà sempre un po' come tornarci."
"Lo so. - Dissi girandomi di nuovo verso le finestre e fuori e oltre. - La guerra ormai mi è entrata dentro, così tanto che penso quasi che tutti gli esami del sangue che mi fanno la mattina servano solo per capire quanti residui ancora ne ho in corpo."
"No. - Mi bloccasti allora tu, non lasciandomi il tempo di perdermi in discorsi per sfogarmi e liberarmi da quell'oppressione che mi aveva preso per l'impotenza della nullafacenza. Me lo impedisti con un voce ferma, perentoria e secca. - Non intendevo la guerra, quanto stupida inutile e volgare sia. Non è la guerra che non riuscirai più a scrollarti di dosso, quella è solo una polvere noiosa sulla tua pelle, non certo il vero sporco."
Non capivo dove volessi arrivare, negando in questo modo tutto quello che di più sicuro avevo a sorreggere le mie convinzioni.
Mi avvicinai piano, credendo forse che da più vicino avrei visto meglio, o di più, o per la prima volta, quello che volevi dire con le tue parole. Mi inginocchia di fronte a te, per essere faccia a faccio o giù di lì, esortandoti a continuare, di continuare a spiegare.
"La guerra non è un luogo, da cui scappare e poi purtroppo tornare di continuo, giorno dopo giorno. Caso mai è una distruzione di luoghi, quelli della propria infanzia, giovinezza, età acerba fino ad età matura. Vedrai che con il passare del tempo riuscirà a demolire anche il suo stesso ricordo, la guerra. - E ti sfuggì un sorriso di compassione per la mia stupidità. - Sarà da qui, dall'ospedale, da questo o altri, che non saprai più uscire. Non farai altro che tornarci, sotto varie forme o nature. Uscirai dalla porta di ingresso, magari fra due giorni, due tre settimane, ma non ne uscirai mai del tutto. D'ora in poi non avrai modo di tornare come prima: ogni volta che entrerai da qualche parte, in un luogo nuovo, un posto, una casa, un edificio in generale, sarà come se stessi firmando i fogli dell'accettazione del pronto soccorso, giusto in tempo per essere ricoverato di nuovo. Curato."
Cercai di guardarti negli occhi schivi che avevi, quando abbassavi la testa e le palpebre per non farli vedere agli altri, una breccia nel tuo io; ma lo sguardo mi scivolò prima sulle tue labbra, sul mento e poi giù fino alle mani che tenevi in grembo. La manica della vestaglia si era arricciata un po' verso il gomito, lasciando l'avambraccio nudo sperduto su tutto il resto del tuo corpo coperto, dal collo in giù. Fu allora che vidi come mai eri sempre tutta china su te stessa, rannicchiata dentro una scatola invisibile che ti spingeva le spalle verso le ginocchia, la testa fra le gambe. Non era il freddo il motivo per cui ti respiravi addosso alitandoti di continuo; ma per pulirti, per renderti più trasparente.
La tua pelle era così chiara che si vedeva quasi attraverso; e non dico solo le vene, quelle scure rosse e blu piene di sangue venoso arterioso da portare e riportare dal cuore e verso il cuore, ma anche i muscoli, ti si vedevano le fibre sottili appena sotto; le ossa, più delle loro estremità spigolose che cercavano di scappare dalla tua magra figura, le forme con cui si attorcigliavano su se stesse per formare l'ulna e il radio; e ancora, ancor di più, nuvole di pensieri vaporosi che vagavano in su e in giù, privi di resistenza o gravità. Si vedevano i tuoi dubbi, le tue sofferenze, le domande che ti ponevi o non ponevi ma che in qualsiasi caso non trovavano risposta; i tuoi umori, felici sorpresi spensierati ma anche cupi tristi e solitari; si vedevano i ricordi con i quali continuavi a giocare, le sensazioni provate e quelle che agognavi.
Ogni cosa si vedeva, ed era come se fosse una specie di fumo scuro o dai colori accesi, a seconda della natura, che cercava di riempirti tutta senza però mai riuscirci sul serio. C'erano sempre degli spazi vuoti, pieni di nulla, lì attorno al polso; e mi domandai quale fosse la densità di questo nulla, non lì dove contava poco, sulle braccia sulle dita o sul braccio, ma magari nell'interno, dove il peso specifico cambiava sensibilmente, magari dentro il petto e vicino al cuore.
"Una volta lì avevo un neo. - Dicesti più per distogliere via la mia attenzione, come feci ritornando a guardarti in faccia - ma mia madre diceva sempre che alitando sul vetro di una finestra si potevano creare magie con il semplice tocco della punta delle dita: così ho fatto, fino a quando quel neo non è sparito. Puoi provare anche tu. - dicesti facendo cenno alla finestra. - Basta alitare sul vetro e disegnare quel che vuoi con le dita. Vedrai che meraviglia."
Mi alzai scettico liberando le gambe dalla chiusura china su di te. Non credevo molto a ciò che mi avevi detto: la magia, il vetro e i disegni su di esso; ma credevo fino in fondo a quello che avevo visto dentro di te, quel breve pezzo trasparente del tuo braccio non poteva essere irreale, quasi quanto non poteva essere reale. Dissi a me stesso di dover credere prima di tutto in quel che vedevo, novello San Tommaso, dar fiducia ai miei occhi e non ai miei pregiudizi, mentre alitavo sulla finestra cercando di far evadere tutto il calore interno fuori dalla mia bocca. L'immagine del parco, del bosco e quel poco di città che prima si vedeva divenne a quel punto sfocata e indefinita: i singoli alberi, i vialetti, i palazzi, non avevano contorni netti ma si svuotavano un po' ovunque con colori più repressi, disordinati, senza regole. Quando tracciai una linea trasversale, dal basso verso l'alto, da sinistra verso destra, senza essere poi così sicuro di cosa volessi davvero disegnare, la punta dell'indice mi si bagnò un poco per la condensa, e fu in quel momento che capii cosa intendevi per magia, l'avere disegnato via quel tuo neo che non avevi più. Attraverso la linea che avevo tracciato vidi un luna park illuminato a festa durante la notte. Vidi la ruota panoramica girare con mille luci gialle rosse e fuoco, ma di un fuoco felice e spensierato. I bambini con lo zucchero filato che passeggiavano in un prato pieno di giostre e attrazioni, i sorrisi gioiosi straripanti in quei loro faccini in festa; e i loro genitori, persone adulte in un momento di tranquillità, tenerli per mano accompagnandoli tra una risata e l'altra. Famiglie su famiglie camminavano emanando quel senso di benessere, calma ritrovata dove prima non c'era che il silenzio assenso della città, dei boschi e dei giardini.
Quando ti cercai, dietro di me, al solito posto dove ti avevo lasciata e dove mi avevi colto di sorpresa la prima volta, avevo la bocca aperta spalancata, le immagini fantastiche che mi avevano reso disteso e sereno ancora grondanti dagli occhi giù per le guance, le labbra bagnate dalla mia stessa meraviglia; ma tu, quando avrei voluto dirti non so più cosa, solo lasciare andare le parole a ruota libera, e magari chiuderti in un abbraccio stretto di gratitudine, tu non c'eri più.
Erano i giorni durante i quali era stato permesso alzarmi, muovermi dalle piaghe da decubito che mi sarebbero marcite addosso se fossi stato anche solo per altro poco tempo steso sulle lenzuola del mio letto. Il dottore mi aveva tranquillizzato, seduto dietro la sua perfetta scrivania ordinata davanti ai suoi diplomi, che niente e nulla c'era di malato in me nello ossa, o nei muscoli, i tendini, l'apparato locomotore tutto.
"Non c'è motivo per cui debba restarsene ogni giorno sdraiato a letto."
Le infermiere presero a darmi una flebo ogni pomeriggio, più o meno sempre alla stessa ora. Mi davano un bastone alto, con le ruote, non per appoggiarmi con il peso su di esso ma per trasportare sopra la mia testa la bottiglia spessa di colore trasparente che gocciolava capovolta all'ingiù fino in fondo alle mie vene. Con questo supporto molto artigianale, ma allo stesso ospedaliero, facevo lunghe maratone in lungo e in largo per i corridoi malati dei reparti. I letti con i pazienti agonizzanti sopra, avvolti e sconvolti nelle lenzuola sporche lise e lese, erano i marciapiedi della mia strada, uno a destro uno a sinistra, e mi accompagnavano dalla mia branda fino a quella che prima dell'avvento della guerra forse era considerata una sala relax, dove potere andare tranquilli a parlare, fumare o soltanto ascoltare l'aria farsi sempre più rarefatta.
Era una stanza quadrata, quasi del tutto spoglia, dove le poche sedie galleggiavano sul pavimento liberate qua e là sulle piastrelle chiare. C'erano ampie finestre che davano sull'esterno e si vedeva: prima il giardino dell'ospedale, lastricato di piccoli vialetti cementati, corrimano per aiutarsi, un sistema nervoso che univa tante rotondeggianti piazzole sparse un po' ovunque; oltre, a segnare il confine di quello spazio di riposo medico forzato, un fitto bosco con massici alberi dalla folta chioma, querce verdi o piante ancor più grandi, nel quale l'ombra penetrava e non lasciava uscire più la luce; il profilo alto, quanto più degli alberi, della città che avanzava verso l'orizzonte, palazzi, tetti, antenne televisive e radiofoniche, capelli grigi scuri di un paesaggio così silenzioso, da dove eravamo, da sembrare quasi un quadro, non reale.
Mi piaceva, in quei giorni, starmene in piedi di fronte a quel disegno fatto di colori sporchi, appoggiare la mano sul ferro freddo del mio sostegno, stando attento a non avvolgere troppo il braccio attorno al tubo che mi riforniva con la flebo, e guardare, solo guardare, stando zitto muto e fermo, per paura di rompere qualcosa, di sciupare quella perfetta armonia, di echi lontani e di silenzi vicini, che legava me alla metropoli poco industriale che non mi aveva visto crescere. Rimanevo lì fino a quando le ultime gocce scendevano con movimenti sempre più contati, ed immaginavo quello che veniva dopo, dopo la città, dopo le valli e le montagne. La guerra contro il tutto che ancora non avevo perso nella testa. Vedevo ancora, se chiudevo gli occhi, i fumi scuri alzarsi nella battaglia, la terra coperta dai nostri corpi, i proiettili caduti consumati negli spari.
In uno di quei giorni mi accorsi come non mai di quanto sarebbe stato difficile lasciarsi alle spalle tutto, allontanarsi da quel poco vissuto e molto morto che continuavamo a perpetrare.
"Non ci riuscirai mai." Mi leggesti nella mente tu.
Mi voltai di scatto, impaurito da quell'intrusione inaspettata. Eri seduta su una sedia a rotelle, come appoggiata in un angolo dove prima non ti avevo vista. Non saprei dire se eri lì già da quando ero entrato o se mi avessi seguito subito dopo essere sceso dal letto, magari chiamando un'infermiera e obbligandola a trovarti un mezzo, un modo per venire subito in scia con me.
"Te lo porterai sempre dentro, e ovunque andrai, per quanto proverai a scappare, sarà sempre un po' come tornarci."
"Lo so. - Dissi girandomi di nuovo verso le finestre e fuori e oltre. - La guerra ormai mi è entrata dentro, così tanto che penso quasi che tutti gli esami del sangue che mi fanno la mattina servano solo per capire quanti residui ancora ne ho in corpo."
"No. - Mi bloccasti allora tu, non lasciandomi il tempo di perdermi in discorsi per sfogarmi e liberarmi da quell'oppressione che mi aveva preso per l'impotenza della nullafacenza. Me lo impedisti con un voce ferma, perentoria e secca. - Non intendevo la guerra, quanto stupida inutile e volgare sia. Non è la guerra che non riuscirai più a scrollarti di dosso, quella è solo una polvere noiosa sulla tua pelle, non certo il vero sporco."
Non capivo dove volessi arrivare, negando in questo modo tutto quello che di più sicuro avevo a sorreggere le mie convinzioni.
Mi avvicinai piano, credendo forse che da più vicino avrei visto meglio, o di più, o per la prima volta, quello che volevi dire con le tue parole. Mi inginocchia di fronte a te, per essere faccia a faccio o giù di lì, esortandoti a continuare, di continuare a spiegare.
"La guerra non è un luogo, da cui scappare e poi purtroppo tornare di continuo, giorno dopo giorno. Caso mai è una distruzione di luoghi, quelli della propria infanzia, giovinezza, età acerba fino ad età matura. Vedrai che con il passare del tempo riuscirà a demolire anche il suo stesso ricordo, la guerra. - E ti sfuggì un sorriso di compassione per la mia stupidità. - Sarà da qui, dall'ospedale, da questo o altri, che non saprai più uscire. Non farai altro che tornarci, sotto varie forme o nature. Uscirai dalla porta di ingresso, magari fra due giorni, due tre settimane, ma non ne uscirai mai del tutto. D'ora in poi non avrai modo di tornare come prima: ogni volta che entrerai da qualche parte, in un luogo nuovo, un posto, una casa, un edificio in generale, sarà come se stessi firmando i fogli dell'accettazione del pronto soccorso, giusto in tempo per essere ricoverato di nuovo. Curato."
Cercai di guardarti negli occhi schivi che avevi, quando abbassavi la testa e le palpebre per non farli vedere agli altri, una breccia nel tuo io; ma lo sguardo mi scivolò prima sulle tue labbra, sul mento e poi giù fino alle mani che tenevi in grembo. La manica della vestaglia si era arricciata un po' verso il gomito, lasciando l'avambraccio nudo sperduto su tutto il resto del tuo corpo coperto, dal collo in giù. Fu allora che vidi come mai eri sempre tutta china su te stessa, rannicchiata dentro una scatola invisibile che ti spingeva le spalle verso le ginocchia, la testa fra le gambe. Non era il freddo il motivo per cui ti respiravi addosso alitandoti di continuo; ma per pulirti, per renderti più trasparente.
La tua pelle era così chiara che si vedeva quasi attraverso; e non dico solo le vene, quelle scure rosse e blu piene di sangue venoso arterioso da portare e riportare dal cuore e verso il cuore, ma anche i muscoli, ti si vedevano le fibre sottili appena sotto; le ossa, più delle loro estremità spigolose che cercavano di scappare dalla tua magra figura, le forme con cui si attorcigliavano su se stesse per formare l'ulna e il radio; e ancora, ancor di più, nuvole di pensieri vaporosi che vagavano in su e in giù, privi di resistenza o gravità. Si vedevano i tuoi dubbi, le tue sofferenze, le domande che ti ponevi o non ponevi ma che in qualsiasi caso non trovavano risposta; i tuoi umori, felici sorpresi spensierati ma anche cupi tristi e solitari; si vedevano i ricordi con i quali continuavi a giocare, le sensazioni provate e quelle che agognavi.
Ogni cosa si vedeva, ed era come se fosse una specie di fumo scuro o dai colori accesi, a seconda della natura, che cercava di riempirti tutta senza però mai riuscirci sul serio. C'erano sempre degli spazi vuoti, pieni di nulla, lì attorno al polso; e mi domandai quale fosse la densità di questo nulla, non lì dove contava poco, sulle braccia sulle dita o sul braccio, ma magari nell'interno, dove il peso specifico cambiava sensibilmente, magari dentro il petto e vicino al cuore.
"Una volta lì avevo un neo. - Dicesti più per distogliere via la mia attenzione, come feci ritornando a guardarti in faccia - ma mia madre diceva sempre che alitando sul vetro di una finestra si potevano creare magie con il semplice tocco della punta delle dita: così ho fatto, fino a quando quel neo non è sparito. Puoi provare anche tu. - dicesti facendo cenno alla finestra. - Basta alitare sul vetro e disegnare quel che vuoi con le dita. Vedrai che meraviglia."
Mi alzai scettico liberando le gambe dalla chiusura china su di te. Non credevo molto a ciò che mi avevi detto: la magia, il vetro e i disegni su di esso; ma credevo fino in fondo a quello che avevo visto dentro di te, quel breve pezzo trasparente del tuo braccio non poteva essere irreale, quasi quanto non poteva essere reale. Dissi a me stesso di dover credere prima di tutto in quel che vedevo, novello San Tommaso, dar fiducia ai miei occhi e non ai miei pregiudizi, mentre alitavo sulla finestra cercando di far evadere tutto il calore interno fuori dalla mia bocca. L'immagine del parco, del bosco e quel poco di città che prima si vedeva divenne a quel punto sfocata e indefinita: i singoli alberi, i vialetti, i palazzi, non avevano contorni netti ma si svuotavano un po' ovunque con colori più repressi, disordinati, senza regole. Quando tracciai una linea trasversale, dal basso verso l'alto, da sinistra verso destra, senza essere poi così sicuro di cosa volessi davvero disegnare, la punta dell'indice mi si bagnò un poco per la condensa, e fu in quel momento che capii cosa intendevi per magia, l'avere disegnato via quel tuo neo che non avevi più. Attraverso la linea che avevo tracciato vidi un luna park illuminato a festa durante la notte. Vidi la ruota panoramica girare con mille luci gialle rosse e fuoco, ma di un fuoco felice e spensierato. I bambini con lo zucchero filato che passeggiavano in un prato pieno di giostre e attrazioni, i sorrisi gioiosi straripanti in quei loro faccini in festa; e i loro genitori, persone adulte in un momento di tranquillità, tenerli per mano accompagnandoli tra una risata e l'altra. Famiglie su famiglie camminavano emanando quel senso di benessere, calma ritrovata dove prima non c'era che il silenzio assenso della città, dei boschi e dei giardini.
Quando ti cercai, dietro di me, al solito posto dove ti avevo lasciata e dove mi avevi colto di sorpresa la prima volta, avevo la bocca aperta spalancata, le immagini fantastiche che mi avevano reso disteso e sereno ancora grondanti dagli occhi giù per le guance, le labbra bagnate dalla mia stessa meraviglia; ma tu, quando avrei voluto dirti non so più cosa, solo lasciare andare le parole a ruota libera, e magari chiuderti in un abbraccio stretto di gratitudine, tu non c'eri più.
mercoledì 2 febbraio 2011
Particolari
spiegami come fai, quale tecnica speciale usi, per distrarmi dalle mie paure e spellarmi via di pelle morta dalla faccia per trasformarmi ancora e ancora rendermi irriconoscibile a chi mi cerca non trovandomi mai, perso tra gli alberi alti e castani come i miei capelli, con radici profonde a ficcarsi dentro la testa e fare saltare sinapsi e congiunzioni di cervello e parole e mani e intenzioni e speranze e sogni, incubi immersi nell'acido di viaggi intercontinentali dove la musica si fa più viva dei ragni a tessere le proprie tele tra le nostre ascelle, le gambe ferme immobili, perché muoversi significa farsi scoprire e farsi scoprire significa morire, noi ci vestiamo pesanti e non lasciamo nessun centimetro di pelle a contatto con l'aria: se non c'è ossigeno non ci può essere fuoco e senza fuoco le ustioni saranno solo di freddo, intenso.
mi prendi per mano e mi accompagni in questa foresta dove vivono enormi zanzare pronte a pungerci per succhiarci via più sangue possibile. è infetto, infestato dai vermi e le supposizioni fatte in silenzio. beviamo ancora tanto antidoto e ci facciamo punture così poco profondi che dovranno passare anni affinché entrino in circolo. è uguale: curarci o non curarci, urleremo lo stesso, ma non per il dolore o cos'altro ci possa martellare la sensibilità con la propria punta arroventata, ma per sfogarci. e per sfogarci balleremo e salteremo, non appena ci sarà possibile ballare e saltare, in cerchio come da bambini, gireremo gireremo fino a quando non salterà davvero il mondo, e ci troveremo tutti quanti giù per terra, a leccarci le ferite o gli umori, quelle stesse sensazioni di cui grondiamo copiosamente quasi fossero sudore espulso dai nostri pori dilatati quanto le pupille alla ricerca di un tuo sguardo.
ti ho mai detto che sei tutto e il contrario di tutto? è proprio questo il problema, misto al fatto che non c'è soluzione da evidenziare o sottolineare, nessuna spiegazione plausibile da immaginare, da ripetere ad alta voce a pappagallo ritto in piedi davanti alla lavagna durante un'interrogazione alla quale non riesco ad aprire bocca, faccio scena muta, ma non tanto per la mia ignoranza in materia, quanto piuttosto per la paura di essere preso in giro, perché le cose che potrei dire sono così sciocche se viste da fuori, sono quasi comiche. sono i piccoli dettagli sempre più piccoli, microscopici, gli altri non possono vederli, servirebbe una lente di ingrandimento, ma poi rischierebbero di trattarli male e di farli bruciare al sole, facendo passare un raggio arroventato attraverso un'angolazione troppo incurante per farci attenzione. i particolari, quelli che si fanno amare, devono essere trattati con cura, altrimenti si intristiscono e si lasciano morire. questo spero non succeda mai.
mi prendi per mano e mi accompagni in questa foresta dove vivono enormi zanzare pronte a pungerci per succhiarci via più sangue possibile. è infetto, infestato dai vermi e le supposizioni fatte in silenzio. beviamo ancora tanto antidoto e ci facciamo punture così poco profondi che dovranno passare anni affinché entrino in circolo. è uguale: curarci o non curarci, urleremo lo stesso, ma non per il dolore o cos'altro ci possa martellare la sensibilità con la propria punta arroventata, ma per sfogarci. e per sfogarci balleremo e salteremo, non appena ci sarà possibile ballare e saltare, in cerchio come da bambini, gireremo gireremo fino a quando non salterà davvero il mondo, e ci troveremo tutti quanti giù per terra, a leccarci le ferite o gli umori, quelle stesse sensazioni di cui grondiamo copiosamente quasi fossero sudore espulso dai nostri pori dilatati quanto le pupille alla ricerca di un tuo sguardo.
ti ho mai detto che sei tutto e il contrario di tutto? è proprio questo il problema, misto al fatto che non c'è soluzione da evidenziare o sottolineare, nessuna spiegazione plausibile da immaginare, da ripetere ad alta voce a pappagallo ritto in piedi davanti alla lavagna durante un'interrogazione alla quale non riesco ad aprire bocca, faccio scena muta, ma non tanto per la mia ignoranza in materia, quanto piuttosto per la paura di essere preso in giro, perché le cose che potrei dire sono così sciocche se viste da fuori, sono quasi comiche. sono i piccoli dettagli sempre più piccoli, microscopici, gli altri non possono vederli, servirebbe una lente di ingrandimento, ma poi rischierebbero di trattarli male e di farli bruciare al sole, facendo passare un raggio arroventato attraverso un'angolazione troppo incurante per farci attenzione. i particolari, quelli che si fanno amare, devono essere trattati con cura, altrimenti si intristiscono e si lasciano morire. questo spero non succeda mai.
martedì 1 febbraio 2011
Iscriviti a:
Post (Atom)