Venerdì pomeriggio osservavo dagli spalti della piscina comunale mia figlia nuotare, avanti e indietro, vasche su vasche, dorso, libero, delfino. Pensavo, sorridendo, che se si fosse trovata naufraga al largo, a riva ci sarebbe arrivata salva. Non sapevo ancora nulla della Concordia. Vedere alla sera in televisione la nave spiaggiata, come un cetaceo che aveva perso la sua rotta naturale, lì, a poco più di cento metri dalla costa, mi aveva fatto vergognare del mio pensiero così futile, per quanto innocente.
Sono un architetto di formazione. Leggevo da ragazzo le pagine di Le Corbusier che esaltava la vita nei piroscafi, città galleggianti, logiche, macchine da abitare, dove la vita associativa, la comunità, trovava la sua libertà nella convivenza. Un mito macchinistico che nascondeva il risvolto della medaglia: la potenza della modernità, il suo sguardo verso il futuro, assomigliava troppo alle ali dell’albatros della poesia di Baudeleaire: al largo, in volo, tutto pare poesia. Ma è partire, è attraccare, è lì l’impedimento, la gravità del corpo, la difficoltà dell’esistenza.
Prima ancora di Le Corbusier è un altro il mito che ci portiamo dentro, che ha segnato il nostro immaginario collettivo: “Sembrava di essere sul Titanic” ha detto una sopravissuta. Esattamente cento anni fa, prima delle certezze positiviste del razionalismo francese. E cento anni dopo ancora dobbiamo fare i conti con questa dolorosa allegoria. C’è qualcosa di illogico, di innaturale, nella enorme dimensione della Concordia a pochi metri dagli scogli. Sembra quasi un modellino abbandonato, un giocattolo smarrito. La conta delle vittime e dei dispersi, ancora in divenire, ci riporta alla realtà delle cose.
“Quando abbiamo fatto le simulazioni di evacuazione della scuola” mi ha detto mia figlia, di fronte alle immagini della tragedia del Giglio, “il vigile ci ha spiegato che più dell’incendio, può fare il panico.” Le indagini della magistratura ci racconteranno come sono andate davvero le cose. Ma a sentire i superstiti sembra evidente una inadeguatezza, da parte del personale di bordo, a gestire l’emergenza. A gestire il panico. Inadeguatezza dovuta a mille ragioni, ma sembra soprattutto causata da una impreparazione di base: marinai che neppure parlavano l’italiano, incapaci di assistere i passeggeri, cavi che si spezzavano, giubbotti salvagente insufficienti. Tanto non affonda. (Penso a tutte le volte che ho snobbato il personale di volo mentre mi spiegava come comportarmi in caso di emergenza: tanto non cade). La fiducia che riponiamo nella tecnologia, di questi pachidermi dei quali nulla sappiamo – come volino nel cielo, come attraversino i mari – è al limite dell’incoscienza.
Colpisce, fra le tante, l’immagine di un capitano che abbandona la nave prima che tutti vengano messi in salvo. Non poteva accadere, non doveva. Ci sono regole che non possono essere infrante, doveri che non possono essere elusi. Ne va della nostra civile convivenza. Non basta aver simulato in qualche corso d’aggiornamento una emergenza, bisogna dimostrarsi degni del ruolo. Non sopporto l’idea che questa tragedia si dimostri la facile metafora di una società, quella italiana, capace di creare una meraviglia cantieristica come la Concordia ma che allo stesso tempo permetta poi venga governata da addetti manchevoli, inadeguati. So di storie di eroismo, su quella nave, e di egoismi spiccioli. Per ora contiamo le vittime, ma non dimentichiamo troppo in fretta questa lezione.
“In caso di incendio” ha proseguito mia figlia “il vigile mi ha assegnato il compito di capo fila. Porterò io l’intera classe nel punto di raccolta.” So che farai bene il tuo compito. Ho fiducia nelle nuove generazioni. Mi fido di te, capitano. Oh, mio capitano.
Trovato su http://www.nazioneindiana.com/2012/01/17/lalbatros/
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