Luglio è un mese nel quale Pistoia città inizia una trasformazione al fulmicotone da capoluogo dormiente in centro di ritrovo incredibilmente attraente, nel quale tutti paiono avere fissato la propria meta, per poi tornare, altrettanto rapidamente, ad accoccolarsi nella quiete della calda estate italiana cadendo in un letargo che dura poi esattamente un anno. Questo è il processo con cui è riassumibile la vita musicale di alto livello del panorama pistoiese, il quale ormai pare essersi arreso a dormicchiare all’ombra di quei pochi giorni l’anno che prendono il nome di Blues Festival. Il festival, che divide la città tra chi lo ama e chi invece lo detesta (il termine odia non rende giustizia), ha la caratteristica di riuscire a suddividere maggiormente chi lo ama, andando a spaccare in due ulteriori parti tutti quelli che risiedono nel partito dell’adorazione (non tanto del festival, tantomeno del blues, quanto piuttosto di ciò che ruota attorno al festival stesso). Chi infatti adora il Blues (termine con il quale si indica amichevolmente il festival in ambito della provincia pistoiese) e lo esalta in tutto il suo splendore fatto di notti folli e alcoliche, deve vedersela con chi ama il Blues ma allo stesso tempo nota quanto tutta la baracca che si porta appresso stia un po’ subendo il naturale passare del tempo. Ogni anno, secondo questi amanti-detrattori, si può notare il deterioramento della festa e il lento sciogliersi del divertimento, la sempre più graduale diminuzione di affluenza e quanto sia di anno in anno più facile camminare per il centro e districarsi tra le vie attorno a esso. È una sensazione, questa, che sempre più avranno, ma non tanto per la reale riduzione di persone e/o allegria, quanto piuttosto per il passare naturale del tempo, sì, ma non sulla pelle del Blues quanto piuttosto della propria. Ogni edizione non sarà mai migliore della precedente perché la precedente si porterà sempre dietro un alone mitologico e leggendario che si perde nei postumi di una sbronza colossale che magari non si è più in grado di raccattare a modo. È una sensazione, quella che si ha quando si passeggia tranquillamente in una zona nella quale fino a qualche anno fa non c’era modo di passare per la calca e le magliette fradice di sangria, nelle quali non vi era modo di parlare perché il vociare costante ed elevato di altri ragazzi azzeravano la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con chi si aveva anche a portata di orecchio, che segna il passaggio di testimone a nuove generazioni, pronte a fare baldoria nelle tre sere del Blues (venerdì, sabato e domenica), e che proprio nello stesso istante nel quale tu passi con la tranquillità di cui sopra nelle zone che ti hanno visto piegato, loro urlano spensierati mentre con un bicchiere di vino barcollano da una parte all’altra del vicolo per cercare di parlare con un amico. Il passaggio di questa linea lo capisci quando tutto a un tratto ti rendi conto che il Blues non si compone solo di tre sere e comprende pure, cosa strana quanto svegliarsi la mattina, anche la musica.
Quest’anno il Pistoia Blues Festival iniziava di mercoledì (pensa un po’ te!) e richiamava in piazza del Duomo tutti gli appassionati di musica per vedere esibirsi nientepopodimeno che Ben Harper. Evento grandioso, è vero, e come tale pubblicizzato in lungo e in largo non solo in ambito provinciale e regionale. Quello che però suona incredibilmente strano non è tanto l’arrivo del musicista californiano in città, e il naturale tamtam pubblicitario, quanto piuttosto gli organizzatori abbiano voluto glissare imperdonabilmente sul vero evento imperdibile della kermesse, ovvero lo spettacolo del giovedì che vedeva salire sul palco i Black Crowes. No, voglio dire: i Black Crowes. In uno dei due soli concerti destinati alla penisola. A Pistoia, i Black Crowes. Un gruppo ideale per il festival, non solo per l’animo blues che lo anima, ma anche per la capacità di portare indietro il tempo e trascinare i propri spettatori ai gloriosi anni ’70, sia grazie all’abbigliamento e al barbone di Chris Robinson, ma anche al suono e le note dell’altro Robinson, Rich.
I ragazzi di Atlanta salgono sul palco quando ancora la notte non è calata del tutto sulla città e sembrano non dare troppo peso al numero esiguo di spettatori che, aimé, non riempiono la piazza. La gente si avvicina al gruppo ma lascia vuoto il retro, per non parlare le gradinate, formando uno spettacolo che lascia alquanto perplessi considerata la qualità della musica che si appresta ad ascoltare. Già dalle prime note belle cariche, tirate e dure, la prima reazione che viene in mente è: dove diavolo sono le persone? Dove si sono cacciate queste imperdonabili persone che hanno voluto volontariamente farsi del male lasciandosi sfuggire un concerto del genere? Forse è prematuro pensarlo già a Sting me, canzone che apre il concerto, ma sarà la stessa reazione che si avrà quando le luci torneranno ad accendersi dopo oltre due ore di musica, mentre ti aggiri tra la poca folla e ti ripeti dentro: dove diavolo sono tutti?
È in momenti del genere che avverti la strana sensazione di sentirti in colpa per qualcosa che non hai commesso, anzi, che tu hai tentato di evitare. Avresti voluto che a vedere i Black Crowes, questi Black Crowes, ci fosse il mondo intero, tutto quanto stipato dentro Piazza del Duomo, non tanto per chissà quale sentimento di affetto nei confronti del gruppo (anche quello, in effetti) ma soprattutto per chi purtroppo non c’era, per chi si è perso un concerto che in fondo aiuta a definire il rock stesso, e soprattutto il concerto di una band che difficilmente è possibile vedere in Italia (anche se pare avere un occhi di riguardo per Vigevano e il suo castello), tantomeno a Pistoia.
I fratelli Robinson allestiscono uno spettacolo fatto di canzoni trascinanti e trascinate, nelle quali non sono la voce e le parole a prendere il sopravvento ma dove la musica afferra il cuore e ti percuote da dentro. Non è la batteria a fare questa magia, né la chitarra o il basso: è tutto l’insieme che compone una macchina rodata alla perfezione e che lascia a tutti i musicisti di prendersi un assolo lungo quanto un sogno, variando il ritmo e la melodia della canzone nella quale si incastra per una parentesi.
Alla fine ne esci con il fiato corto, affaticato dopo avere ballato come Chris quando non era impegnato al microfono, e con in testa ancora le note di Hard to handle, nella quale i nostri incidono Hush dei Deep Purlple, come se per magia quell’ultima canzone fosse stata capace di cancellare tutto quanto ascoltato prima. Un momento, nella sera, durante il quale non riesci a razionalizzare e a renderti realmente conto di cosa sia successo. C’è stato rumore sempre melodico ed eseguito alla perfezione, c’è stata musica, tirata e bella, con poche pause e nessuna concezione al riposo, e ci sono state anche Thorn in my pride, Jealous again, Remedy, Soul singing, Wiser time. Ci sono stati i Black Crowes a Pistoia. E allora te ne freghi altamente di cosa ti aspetta nel weekend, di quanto sarà facile passeggiare per le vie del centro e di come questa edizione del Blues sarà non memorabile quanto quelle passate. Il Pistoia Blues Festival è in fondo musica e i Black Crowes fanno ottima musica. E pace se ad ascoltarli eravamo in relativamente pochi (sicuramente meno spettatori di quanto i corvi meriterebbero), mi dispiace solo per chi non c’era: peccato per loro.
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