Nel 1973 L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon
ottenne il premio Nebula, il più alto riconoscimento esistente nel campo
un tempo conosciuto come “fantascienza” – un termine che adesso è ormai
quasi del tutto dimenticato.
Scusate, stavo solo fantasticando. Nel
nostro mondo Lenny Bruce è morto, mentre Bob Hope tira avanti. E anche
se L’arcobaleno della gravità fu davvero candidato al Nebula nel 1973,
venne escluso in favore di Incontro con Rama di Arthur C. Clarke, che lo
scrittore Carter Scholz, in una recensione, giustamente ritenne “più
che un romanzo, uno schema strutturale in prosa”. La candidatura di
Pynchon rimane adesso come una pietra tombale nascosta che segna la
morte della speranza che la fantascienza stesse per fondersi con la
letteratura di vasto consumo.
Quella speranza era nata nei cuori di scrittori che, senza alcun
incoraggiamento particolare da parte del più vasto ambiente letterario,
per un breve periodo trascinarono il genere sull’orlo della
rispettabilità. La fantascienza di avanguardia degli anni Sessanta e
Settanta spesso si ubriacava di parole, applicava per amore o per forza
tecniche moderniste ai vecchi temi del genere, aggiungeva per
compensazione manciate di alienazione e sessualità a personaggi che
avevano appena messo da parte il loro regolo calcolatore. Ma
l’avanguardia rese anche possibili libri come Dhalgren di Samuel Delany,
Un oscuro scrutare di Philip K. Dick, I reietti dell’altro pianeta di
Ursula LeGuin, e 334 di Thomas Disch – opere paragonabili alla migliore
narrativa americana degli anni Settanta, a prescindere da etichette,
categorie e generi. In un accesso di ambizione, la fantascienza
vagheggiò perfino l’idea di ribattezzarsi “affabulazione speculativa”,
un termine da critica letteraria che era al tempo stesso
pretenziosamente stupido e perfettamente azzeccato.
Perché quello che
rende la fantascienza stupenda e complicata è quel misto di speculazione
e di favoloso: la fantascienza è al tempo stesso narrativa di pensiero e
narrativa di sogno. Per i primi sessanta e passa anni del secolo la
narrativa americana era stata carente proprio di quegli attributi che la
fantascienza offriva in abbondanza, per quanto in modo rozzo. Mentre
all’estero affabulatori come Borges, Abe, Cortazar e Calvino fiorivano,
qui da noi una vena di puritanesimo letterario bandiva dall’ambito della
rispettabilità la scrittura fantasiosa e surreale. Un altro riflesso
tipico, quell’anti-intellettualismo che impone che i romanzieri non
debbano pontificare, estrapolare o teorizzare, ma solo mostrare e
percepire, significava che il romanzo di idee era stato per molti anni
dominio pressoché esclusivo di, uhm, Norman Mailer. Per di più, una
certa riluttanza da parte del mondo umanistico a riconoscere l’impulso
tecnocratico che stava trasformando la cultura contemporanea aveva
trascurato alcuni temi. Per decenni la fantascienza colmò questa lacuna,
e nel corso di quei decenni i suoi scrittori vi aggiunsero
caratterizzazione, ambiguità e riflessività, aiutandola a raggiungere
qualcosa di simile alla maturità letteraria, o almeno alla capacità di
tirare fuori un occasionale capolavoro.
Ma durante il percorso che conduceva alla rivoluzione accadde
qualcosa di strano. Negli anni Sessanta, proprio mentre i migliori
scrittori di fantascienza cominciavano a rendere superflua la domanda se
la fantascienza potesse essere letteratura, il romanzo letterario
americano cominciò ad aprirsi ai modi che aveva escluso. Scrittori come
Donald Barthelme, Richard Brautigan e Robert Coover ridiedero una
collocazione al fantasioso e al surreale, mentre altri come Don DeLillo e
Joseph McElroy cominciarono a competere con la tecnocultura emergente.
William Burroughs e Thomas Pynchon fecero un po’ entrambe le cose. Il
risultato fu che la necessità di riconoscere le doti della fantascienza
perse importanza. Perché cercare in quelle sgargianti edizioni
economiche ciò che era a disposizione in vesti rispettabili? Perciò
quello che ne derivò fu più che altro il rifiuto, o l’indifferenza, da
parte della critica.
Nel frattempo, al di là delle mura del
genere-ghetto, era in atto una riduzione. Anche se la posta in gioco non
era proprio così decisiva, è difficile non vedere un’affinità fra i
tentativi di autoliberazione della fantascienza e quelli di altri
movimenti per l’uguaglianza che raggiunsero il massimo della loro forza
politica nello stesso periodo, e poi si rifugiarono nella politica
dell’identità. Temendo la perdita di una distintiva identità di
opposizione e risentita per il mancato accesso alla torre d’avorio, la
fantascienza fece un passo indietro, allontanandosi dalle sue più vaste
aspirazioni letterarie. Non che negli anni seguenti non sia stata
scritta della fantascienza di talento, ma con poche importanti eccezioni
quei lavori vennero sopraffatti negli scaffali (e nelle votazioni dei
premi) da una fantascienza reazionaria tanto orrenda artisticamente
quanto comodamente familiare.
Negli anni Ottanta, il cyberpunk fu considerato un segno di speranza,
per il suo vigore, la sua raffinatezza, la prontezza sensoriale con cui
aveva recepito il cambiamento delle nostre concezioni del futuro. Ma
anche i migliori scrittori cyberpunk per la maggior parte spacciavano
per trascendenza fantasie di ribellione sorprendentemente machiste e
regressive, e il vigore e la raffinatezza erano bazzecole per quelli che
ricordavano la matura profondità delle migliori opere dell’avanguardia.
In ogni caso, il meglio del cyberpunk fu presto sommerso a sua volta da
sbiadite e lacere fotocopie di fantasie adolescenziali di potenza che
erano già molto, molto vecchie.
E così siamo arrivati ai nostri giorni. In cui, nonostante tutto,
viene ancora prodotta della fantascienza che meriterebbe maggiore
attenzione da parte dei fruitori di letteratura. La sua visibilità,
però, dopo il fallimento dell’idea che la fantascienza debba e possa
identificarsi con la letteratura, è nella migliore delle ipotesi
piuttosto scarsa. Gli autori letterari di fantascienza esistono adesso
in un mondo marginale, né rispettabile né commercialmente vitale. Le
loro opere annegano in un mare di spazzatura nelle librerie, mentre gran
parte della promessa della fantascienza viene realizzata altrove da
scrittori troppo intelligenti o incuranti per preoccuparsi della sua
identità stigmatizzata. L’incapacità della fantascienza di presentare la
sua faccia migliore, di guadagnarsi un rispetto adeguato, non è stato
mai così tragica come adesso che dall’esterno ci si appropria tanto
regolarmente dei suoi punti di forza. In una cultura letteraria in cui
Pynchon, DeLillo, Barthelme, Coover, Jeanette Winterson, Angela Carter e
Steve Erickson sono autorità in ascesa, la divisione non è forse priva
di significato?
Ma le tradizioni letterarie che sostengono quella
divisione non sono tutto. Tra i fattori schierati contro l’accettazione
della fantascienza come scrittura seria, per un osservatore esterno
nessuno è più evidente di questo: i libri sono maledettamente brutti. E
il peggio è che sono tutti brutti allo stesso modo, così non puoi
distinguere quelli destinati agli adulti da quelli destinati ai
dodicenni. Purtroppo, questa confusione è intenzionale, e la spiegazione
ci riporta alla metà degli anni Settanta.
È ormai un luogo comune nella critica cinematografica dire che George
Lucas e Steven Spielberg insieme hanno condotto a un arresto rovinoso
il decennio più progressista e interessante del cinema americano dagli
anni Trenta in poi. La cosa strana è che il medesimo duo riveste il
ruolo dei “cattivi” pure nella tragedia della fantascienza, anche se
possiamo aggiungervi un terzo nome, quello di J.R.R. Tolkien. Il vasto
successo popolare delle immagini e degli archetipi forniti da questi tre
dotti della letteratura per l’infanzia ha moltiplicato per mille il
mercato della Sci-Fi, una versione fumettificata, castrata e
profondamente nostalgica della nascente letteratura. Quella che era
stata una nicchia editoriale trascurabile ed eccentrica, alla quale era
stato consentito di proseguire per il suo cammino inoffensivo, era
adesso una potenziale gallina dalle uova d’oro. (Ricordate quando “Star
Trek” venne resuscitato dall’oggi al domani, un cult televisivo
moribondo improvvisamente al centro della cultura popolare?) Man mano
che la posta in gioco saliva, gli operatori di mercato piantavano le
tende sul territorio: per un comodo paragone, pensate ai cloni del
grunge rock dopo i Nirvana. Furono prodotti libri capaci di venire
incontro a questo nuovo appetito vasto e superficiale – libri scadenti, a
milioni – e i libri di qualità vennero riconfezionati per adeguarsi al
paradigma. Via le copertine hippie-surrealiste degli anni Sessanta, con
le loro promesse di astrazioni e ambiguità da adulti. Avanti con quello
stile plumbeo e banale così perfettamente detestabile per l’acquirente
di opere letterarie. La perfetta copertina-tipo di un libro di
fantascienza dal 1976 in poi è suppergiù la copia esatta, direi, del
manifesto originale di Guerre stellari. Gli uomini del futuro tornavano a
pensare con le spade – beninteso, con le spade laser. Questo tradimento
passivo avrebbe avuto più senso se il tipico scrittore di fantascienza
letteraria ci avesse guadagnato davvero qualcosa in termini di denaro.
Invece, questo atteggiamento è ancora ripagato troppo spesso da compensi
che somigliano a quelli di un poeta, un poeta senza cattedra
universitaria, intendo.
Altri ostacoli all’accettazione sono nascosti
nella cultura della fantascienza, un po’ come agguati su una strada dove
non passa nessuno. Oltre a essere un genere letterario o una moda, la
fantascienza è anche un terreno ideologico. Chiunque l’abbia percorso ha
familiarità con i suoi dogmi: la colonizzazione dello spazio è
auspicabile; il razionalismo prevarrà sulla superstizione; il
cyberspazio ha la capacità di trasformare la coscienza individuale e
collettiva. Ingolfarsi nei meandri di questa eredità ha avuto come
risultato opere di genio – Barry Malzberg che appanna il fascino
dell’astronautica, J.G. Ballard che gongolando distrugge la presunzione
che la tecnologia derivi dal razionalismo, James Tiptree Jr. (nata Alice
Sheldon) che sostituisce il corpo e i suoi istinti in un discorso fin
troppo disincarnato. Ma la pressione contro gli eretici può essere
sorprendentemente forte, in quanto riflette la sete emotiva di
solidarietà all’interno di gruppi emarginati. Perché la fantascienza può
anche fungere da club, i cui membri condividono il risentimento degli
esclusi e una passione protettiva per le storie che fioriscono
nell’immaginazione di un dodicenne ma avvizziscono al primo contatto con
un cervello adulto. Con il suo amore incondizionato per il proprio
strato di paccottiglia, la fantascienza può essere tanto postmoderna
quanto i sogni di Frederic Jameson, ma è anche tanto sentimentale nei
propri confronti quanto una combriccola di vecchi amici o una famiglia.
La marginalità, va detto, non è sempre il male peggiore per gli
artisti. Il silenzio, l’esilio, l’astuzia restano gli alleati di uno
scrittore, e i generi disprezzati sono stati una fonte abbondante di
esilio per intere generazioni di narratori americani iconoclasti. E
naturalmente al pubblico alternativo dà sempre fastidio vedere che il
loro culto preferito sta diventando troppo popolare. Ma un’arte
emarginata rischia di cadere in una ricercata autoreferenzialità se
resiste troppo energicamente all’inserimento. I rimasugli del jazz che
rifiutarono la trasformazione del bebop sono quei tizi in completo
gessato che suonano il dixieland, e il campo della fantascienza
separata-ma-disuguale successiva agli anni Settanta, che si compiace del
proprio lignaggio e feticizza il proprio ripudio, a volte somiglia
terribilmente al dixieland – altrettanto raffinato, altrettanto
calcificato, altrettanto dolcemente irrilevante.
Se la scrittura di
qualità viene trascurata a causa delle barriere fra i generi, pazienza –
la scrittura di qualità resta non letta per un mucchio di ragioni. Il
vero peccato è che tante pagine restino non scritte, che tanti artisti
interiorizzino il pregiudizio trasformandolo in disastrosa insicurezza.
La grande arte si realizza per lo più quando i creatori vengono
incoraggiati a credere che le loro opere possano avere un valore. Forse
un Phil Dick avrebbe imparato a rivedere le sue prime stesure invece di
scaraventarle alla disperata sul mercato se La svastica sul sole fosse
stato riconosciuto dai critici letterari del 1964? Forse altri cinque o
dieci Phil Dick appena usciti dal nido sarebbero apparsi poco dopo? Non
lo sapremo mai. E vi sono costi artistici anche sull’altro lato della
frattura. Prendiamo Kurt Vonnegut, che cercando di schivare le
umiliazioni dell’etichetta di fantascienza ha apparentemente rinunciato
al carburante iconografico che aveva alimentato le sue opere migliori.
Quale potrebbe essere un modello meno prevenuto su cui impostare il
rapporto della fantascienza con il più ampio contesto della letteratura?
Be’, a nessuno piace essere etichettato come scrittore sperimentale,
eppure la scrittura sperimentale prospera in tranquille sacche del
panorama letterario – e, per quanto abbia pochi lettori, le è
riconosciuto il suo posto. Quando viene rivendicata maggiore attenzione
verso questo o quello scrittore sperimentale – Dennis Cooper, diciamo, o
Mark Leyner – queste rivendicazioni non vengono respinte con argomenti
che sono, letteralmente, categorici.
La fantascienza potrebbe chiedere
questo: che i suoi scrittori più ermetici o intransigenti vengano
rispettati perché accontentano la loro ristretta platea di appassionati,
che i suoi astri nascenti ottengano pari opportunità di comparire sulla
scena principale. Un’altra cosa che manca è una teoria dei Grandi Libri
per la fantascienza post-anni Settanta, che imponga uno scaffale di
Disch, Ballard, Dick, LeGuin, Samuel Delany, Russell Hoban, Joanna Russ,
Geoff Ryman, Christopher Priest, David Foster Wallace – oltre a libri
come The Heat Death of the Universe di Pamela Zoline, Futuro in trance di Walter Tevis, L’occhio insonne di D.G. Compton, Memories of Amnesia di Lawrence Shainberg, Easy Travel to Other Planets di Ted Mooney, Il racconto dell’ancella
di Margaret Atwood, e Dream Science di Thomas Palmer, come modello di
riferimento. Una teoria del genere dovrebbe anche gettare nella
spazzatura molti dei “classici” del genere, votati all’autocelebrazione
ma ormai arcaici.
I lettori di domani, nati in città distopiche,
istruiti sui computer e imbevuti di ricorsività mediatiche
dell’iconografia della fantascienza, non faranno caso se i romanzi che
leggono sono ambientati nel futuro o nel presente. Scaltriti loro
stessi, non gli interesserà se alcuni personaggi blaterano in gergo
hi-tech e altri no. Alcuni di questi lettori, tuttavia, passeranno
gradualmente dalla voglia di romanzi che lusingano e assecondano le loro
fantasie a quella brama per i romanzi che provocano, turbano e creano
complessità mediante una manipolazione di quelle stesse voglie
narrative. Impareranno ad apprezzare la differenza, diciamo, tra Terry
McMillan e Toni Morrison, tra Tom Robbins e Thomas Pynchon, tra Roger
Zelazny e Samuel Delany – distinzioni sempre troppo ambigue per essere
operate nelle categorie degli editori, o sugli scaffali delle librerie.
Naturalmente, in mancanza di una riconfigurazione utopica
dell’apparato editoriale, librario e recensorio, la barriera –
quantunque sempre più contestata e assurda – resterà dov’è. Tuttavia,
possiamo sognare. Il Premio Nebula del 1973 sarebbe dovuto andare a L’arcobaleno della gravità, quello del 1977 a Ratner’s Star
di DeLillo. Di lì a poco, il concetto di fantascienza avrebbe dovuto
essere delicatamente e amorosamente smantellato, e gli scrittori
avrebbero dovuto disperdersi: da una parte i visionari per bambini, da
un’altra gli scrittori di thriller con la fissazione delle macchine, da
un’altra ancora gli adattatori di film sia reali che immaginari. E,
soprattutto, un lacero manipolo di affabulatori speculativi eroicamente
resistenti e ambiziosi si sarebbero dovuti imbarcare per gli ardui regni
della narrativa che è fuori dalle classifiche e dalle categorie. E là –
non svegliatemi adesso, questa mi piace proprio – sarebbero stati i
benvenuti.
Jonathan Lethem
(trovato su minima & moralia)
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