Nel 2008 era uscito La mia vita disegnata male, poi negli anni
successivi il mio editore aveva pubblicato delle raccolte che non
considero libri veramente miei. Per me il libro è un processo preciso di
scrittura, di coinvolgimento. Questo ha dato l’idea che fossero due
anni che non facevo libri a fumetti, ma in realtà quando ho fatto Unastoria
gli anni trascorsi erano addirittura cinque. Pian piano mi stavo
convincendo che quella parte fosse proprio finita, che il disegno fosse
andato via. Continuavo a fare illustrazioni per Repubblica, tra l’altro
tecnicamente molto ostentate, però, visto che poi gli uomini si abituano
a cose molto peggiori di questa, mi ero abituato anche all’idea che in
sostanza non fossi più un fumettista. Poi è arrivato il cinema e mi sono
detto “Sai cos’era? Era una strada che mi portava a fare il cinema”, ma
in realtà le sensazioni di soddisfazione e di sicurezza che provo
lavorando a una storia a fumetti con il cinema non ci sono.
Quando facevo libri come Appunti per una storia di guerra non è
che fossi proprio un disgraziato, però non ero tanto distante dalle
figure che raccontavo. Un po’ erano ancora molto vive nella memoria, e
un po’ il mio modo di vivere era quello di uno che cercava di fare i
fumetti in Italia prima di diventare un fumettista famoso, quindi uno
che, quando andava bene, prendeva duemila euro per un libro che ci
metteva due anni e mezzo a farlo. Non sono andato in vacanza per
qualcosa come sei anni, quindi quando raccontavo di vita di provincia
discretamente derelitta non è che mi dovessi inventare chissà che; la
forzavo, chiaramente, la traslavo, ma era quello che conoscevo.
Dicevano che raccontavo storie di provincia, di adolescenti di
provincia, di mezzi drogati di provincia, di mezzi delinquenti di
provincia… Il fatto è che io lo facevo mentre ero un mezzo drogato di
provincia, un mezzo delinquente di provincia; o almeno lo ero stato fino
a pochissimo tempo prima di raccontare quelle storie. Per cui in realtà
raccontavo gli affari miei e gli affari dei miei amici. È buffo, perché
io per tanti anni, quando ero più giovane, cercavo il mio stile e so
quanto la sofferenza più forte per un ragazzo che vuole fare un mestiere
artistico sia proprio quella di trovare il proprio stile; e io non ho
fatto differenza: ho passato tantissimi anni somigliando ad altri autori
contro la mia volontà, scrivendo come altri autori contro la mia
volontà, cioè in sostanza senza riuscire ad avere una voce mia.
Nel libro Esterno notte ho trovato la mia voce, e uno dei
processi è stato scegliere di raccontare solo quello che conoscevo. Una
caratteristica del fumetto italiano non d’autore era – è ancora – il
fatto che parla di cose che sono completamente distanti da noi; i
protagonisti di questo tipo di fumetto sono persone con nomi inglesi,
con facce di attori, che vivono in Londre immaginarie, in New York
immaginarie… Io invece volevo raccontare casa mia; non perché via
Baracca mi piaccia di più della Fifth Avenue, ma perché mi dicevo che
forse, raccontando cose che conoscevo molto bene, avrei avuto una voce
originale, mia, propria. Poi le cose sono cambiate e con La mia vita disegnata male
ho dato l’ultima botta al passato. Arrivato a quel punto le cose
andavano meglio, guadagnavo abbastanza da non essere più uno delle mie
storie, però avevo ancora vivo tutto il bagaglio di ricordi di cose da
adolescenza e probabilmente, inconsciamente, le volevo anche chiudere. E
poi quel libro era veramente un conto con il passato, uno sguardo su
perché sono fatto in questa maniera, perché la vita ha preso queste
pieghe, a un’età in cui di solito poi le pieghe rimangono per sempre.
La mia vita disegnata male è andato benissimo, troppo. Ha
venduto quarantamila copie, record assoluto totale storico di vendita di
un fumetto in Italia. E delle cose sono cambiate ulteriormente, e a
quel punto il mio scollamento dalla mia vita precedente era assoluto. Il
problema è che nella vita nuova secondo me non c’era un cazzo da
raccontare. Quando “ti stacchi dalla terra” per un qualsiasi motivo è
come se il reddito corrispondesse a una sorta di cecità indotta, per cui
non vedi più niente, vedi le cose da una distanza che non ti fa
partecipare quanto serve per poi poterle trasformare in racconto. Per me
lo sguardo di uno che ha la villa a Capalbio e che parla dei giovani
poveri non vale niente. Sono un po’ radicale su questo punto, ma non
perché penso che sia un atteggiamento ipocrita, ma perché credo che
proprio non possa riuscire a parlarne: è una roba da telepati, è come
essere al di là di una parete, è volere dire cosa succede e quali
sentimenti ci sono nell’altra stanza, senza mai entrarci. Quindi mi sono
ritrovato così: mi ero costruito un linguaggio su delle basi e quelle
basi non c’erano più. Le nuove basi non sapevano di niente, cioè erano
ottime per andare magari alle feste e mangiare nei ristoranti di lusso
se volevo, però non funzionavano con il racconto.
A me cominciavano ad arrivare i soldi, materiale mai visto in vita
mia. Non mi sposto più con il treno locale Pisa-Lucca che passa da San
Giuliano, Rigoli, Ripafratta, ma prendo gli aerei. Senza rendermene
conto mi succede qualcosa: la vanità inizia a scavare il buco. Oggi sono
arrivato alla conclusione che la vanità sia il nemico numero uno della
creatività; diventa un agente distruttivo che si applica soprattutto
alle persone che hanno avuto delle carenze affettive di crescita, cosa
che io indubbiamente ho avuto e certificato dalla mia storia famigliare.
Non c’è roba alla Dickens, non ci sono abbandoni nella pioggia e roba
del genere; semplicemente sono cresciuto con uno dei due genitori che mi
amava solo quando ero bravo, che è una cosa molto diffusa. Se io ero
bravo mia madre mi voleva bene. Cresci pensando che quello sia l’amore:
quella cosa che ti arriva quando sei bravo. E quindi diventi bravo: io
so sciare, so portare una barca a vela di quindici metri praticamente da
solo, so suonare basso batteria chitarra tastiere, imparo le lingue
senza studiarle… Tutto quello dove posso eccellere lo devo fare, perché
ho imparato quello. Ho imparato che per essere amato devo essere bravo.
Per cui, guarda caso, chi pensa questo fa mestieri tipo l’attore, il
cantante, lo scrittore, cioè roba dove vai a ricercare la stessa forma
d’amore.
Io faccio un bel libro, cioè sono stato bravo, mi arriva un applauso e
questo applauso mi scalda il cuore. Problemino: quella forma d’amore lì
ti fa un buco che ti genera uno strano brivido di gelo nel corpo.
Quando prendi gli applausi, cioè quanto ricrei quel meccanismo nel quale
sei cresciuto, questa forma di amore che ti arriva dall’esterno ti dà
l’idea di tappare quel buco; però succede una cosa strana: in realtà il
buco ti si allarga. Per cui dopo te ne servono di più di quegli
applausi, di quell’apprezzamento. E il buco continua ad allargarsi. Il
succo è che il micro-successo avuto per La mia vita disegnata male
ha innescato proprio questa roba qui, cioè mi ha allargato il buco nel
cuore fino al punto in cui mi ci passava il vento gelido a cento
chilometri l’ora. E una mattina alle sette sono arrivato a Psichiatria a
Pisa, a quattro zampe, ho bussato e ho detto: “Mi aiutate, per favore?
Perché penso solo a levarmi dal mondo”. Senza motivo. Volevo solo
morire. Mi hanno visitato, mi hanno fatto una lista di farmaci, di robe
da prendere, me li hanno dati, io li ho buttati via appena uscito dal
cancello. Non li ho mai presi, però ho aggiustato un po’ di cose.
Ho tolto tutte quelle forme di gratificazione artificiale che m’ero
costruito intorno; ho cambiato città, ho lasciato Parigi – che cazzo ci
stavo a fare io a Parigi? Io sono uno che non va al cinema, non va a
teatro, non me ne frega nulla di andare alle mostre, non vado ai musei,
praticamente stavo a rubare il posto a un uomo civile. Sono tornato a
casa mia, mi sono rimesso a stare coi miei amichetti ai quali non frega
nulla di che tipo di mestiere io faccia, se vendo un libro o se ne vendo
cinquantamila. Ho incrociato le dita, perché in quegli anni questo
processo di raggelamento faceva sì che io andassi a raccontare e non mi
venisse nulla. Andavo al tavolino e non mi veniva nulla. La mia vita era
sempre stata quella, cioè che io andavo al tavolo e succedeva questa
magia per cui scrivevo, disegnavo, facevo delle cose che più o meno mi
piacevano. Morto. Quello che mi ha sgretolato è stato il rendermi conto
che questa cosa, che io avevo sempre temuto che mi abbandonasse, mi
aveva effettivamente abbandonato. Ho messo in atto un po’ di questi
processi di aggiustamento, ho smesso di vestirmi come un coglione con
tutti i completi fighi eccetera, ho smesso di fare la bella vita, mi
sono ridimensionato molto, ho dovuto aspettare tre anni e mezzo e un
giorno mi sono rimesso a disegnare. Una volta, parlando con Riccardo
Mannelli, tanti anni fa mi disse: “Io e te siamo al sicuro, perché tanto
prima o poi ci arriva la botta nella testa. Tutte le volte si torna giù
nel pozzo e dal pozzo si ricomincia a lavorare”.
Lui è un genio. Lui ha il genio
L’unica cosa che ho fatto è stato riflettere sulla vanità, cioè su
quali sono gli effetti della vanità su uno che in sostanza è un artista,
che ha impostato la sua vita al guardare e al raccontare le cose. Ci ho
riflettuto, ho cercato di mettere dei freni, dei paletti e modificare
la vita, in modo che la vanità fosse meno permeante, e alla fine, dopo
cinque anni di questo trattamento, un giorno così dal nulla mi sono
rimesso al tavolo a disegnare, ma senza pensare prima.
Sui social media a volte uno fa una battuta e gli altri gli dicono
“Sei un genio”. Facendo il mestiere che faccio, cioè inventando roba, di
questi commenti ne ricevo parecchi. Nella nostra società contemporanea
si usa dire “lui è un genio”; gli antichi greci invece usavano lo stesso
termine in un’altra forma, dicevano “lui ha il genio”. Questo
significava, per loro, che quella persona, in quel momento della sua
vita, era toccata dagli dei in un modo tale che lui possedeva – in quel
momento, per quel periodo – il genio. Per me è molto importante questa
differenza fra noi che intendiamo “lui è un genio”, come se fosse
questione di nascita, e quest’altra “lui ha il genio” come processo
anche probabilmente a tempo. Credo molto in questa definizione antica.
Anche perché ho sempre avuto la sensazione di lavorare bene quando avevo
il sentore di non essere lì; come se uno potesse svanire e diventare un
tramite fra dei misteri e il foglio. E questa sensazione l’avevo sempre
tradotta nell’idea di un uccellino che mi stava sulla spalla, con la
fragilità della sua condizione, che appena ti muovi piglia e vola via.
Per cui avevo sempre questa sensazione di un uccellino che stava qui e
che all’orecchio mi suggeriva che cosa fare.
Quando non ho più avuto la capacità di lavorare, avevo semplicemente
la sensazione che l’uccellino fosse giustamente andato via, che magari
fosse andato da qualcun altro che aveva in quel momento un comportamento
e faceva delle scelte anche etiche, di esistenza, più meritevoli; tutto
qua. Per cui m’ero messo l’anima in pace: c’ho patito tanto, ma se è
andato è andato. È durato quanto, sette anni? Ci puoi stare, va bene. Un
giorno salgo al piano di sopra della casa dove abitavo prima, dove
avevo il tavolo da disegno dove non mi mettevo mai e dove però avevo
anche il computer dove giocavo sempre a “World of Warcraft”; salgo le
scale per andare a vedere se il mio non-morto del sessantesimo livello
passa al sessantunesimo e così via. E succede che il culo – perché, ve
lo giuro, la sensazione è stata quella – si siede sulla sedia di destra
invece che su quella di sinistra dove avevo il computer; prendo un
foglio, una pennina, e faccio la prima vignetta del libro – nella prima
vignetta di Unastoria c’è una stazione di servizio di quelle stile anni ’70 con la frase “Dammi risposte complesse”.
In quel momento io non ho la più pallida idea del perché io mi sia
seduto lì invece che andare a giocare al computer; mi sembra anche
stupido, tanto non verrà niente; però faccio questa prima vignetta. E
poi ne faccio un’altra accanto – che non viene, quindi la taglio e la
butto, e mi rendo conto che non so nemmeno più fare due vignette una
accanto all’altra, quindi disegno su un altro foglio, poi ritaglio e la
accosto lì; ne faccio un’altra; ne faccio un’altra; ne faccio un’altra.
Tutte a pezzetti, non ero in grado nemmeno di fare una tavola, sembravo
un atleta abituato a fare i cento metri che si è troncato il bacino e i
femori, è stato otto mesi a letto, e prova a camminare di nuovo. A pezzi
e bocconi faccio le prime tavole del libro. Non ho idea di cosa sia, in
quel momento; non ne ho veramente la più pallida idea. So che giorni
prima ho accompagnato in bagno mia madre, che ha novantadue anni; lei si
era guardata allo specchio e aveva detto “Oddio, come son diventata
vecchia”. Ora, mia madre era molto bella da giovane; e io sono sicuro
che lei non poteva davvero vedere com’era in quel momento e avere
davvero una memoria di com’era stata. In quel suo “come sono diventata
vecchia” in realtà c’era anche un briciolo di vanità; nel suo “come sono
diventata vecchia” era incluso il mio “no, mamma, guarda come sei
bellina”. Lei non si vedeva come mi diceva. E lei non si poteva vedere
vecchia, cioè una specie di uccellino bagnato alto così di una donna che
invece andava sulle Apuane in bicicletta. E lì mi venne questo pensiero
di quanto la natura ci protegga.
Una pittura monumentale
Unastoria per me era una reazione a tutto quello che avevo fatto prima, anche alle cose fatte in buona fede (come La mia vita disegnata male)
ma che poi avevano avuto effetti brutti sulla mia vita. La prima
decisione è stata quindi di non chiedermi nulla, di non fare
un’operazione di razionalizzazione della storia. Non avevo nessuna
storia davanti mentre lavoravo, avevo solo un desiderio erotico di
giustapporre delle immagini e delle parole e basta. Quell’atteggiamento
per me voleva dire che per la prima volta dopo tanto tempo stavo
lavorando per me, non per il pubblico. La prima dozzina di pagine di una
storia è difficile, non è amichevole per chi legge. Ma volevo ritornare
a quando ero ragazzo, quando disegnavo per il gusto del disegno e
facevo i fumetti per il gusto dei fumetti, non c’era nessun pubblico,
non c’era nessuna vanità da alimentare. Era solo che godevo a fare
quella cosa e volevo ritrovarla, perché quella mi mancava più di tutto
il resto. Ero talmente fragile e spaventato all’idea che mi potesse di
nuovo abbandonare il disegno che non gli ho chiesto nulla, ho solo
assecondato il desiderio e basta, con una fiducia e probabilmente anche
una presunzione enorme negli anni di lavoro che avevo alle spalle. Avere
fatto tutto un libro così per me è un motivo di orgoglio enorme:
riuscire ad andare avanti solo per un desiderio sessuale di pittura, di
colori, di ritmo, tutto d’istinto.
La sfida stava nel riuscire a mantenere il flusso e soprattutto stava
nel non cedere alla paura. Io sapevo di avere delle meccaniche di
racconto che funzionano, ma non le volevo usare. Volevo fare una roba
ostile al lettore, ma ostile anche a me. Per riuscire a ripartire, per
ritrovare l’amore originale per me ci voleva un sacrificio da tutto,
anche dai miei metodi, perché mi sono sentito troppo fasullo per troppo
tempo nei miei tentativi di rifare i fumetti e non mi volevo sentire
così, mi faceva schifo l’idea, e quindi volevo completamente un altro
approccio. Non c’è niente di peggio, per uno che ha avuto una crisi
creativa in quel modo, di mettersi al tavolino e lasciare che la mano
rifaccia quello che già sa fare: è una sensazione di morte terribile! Ho
cambiato anche modo di dipingere, sono andato su YouTube a guardarmi
dei tutorial giapponesi di acquerello e ho scoperto che usavano i
pennelli piatti invece che i pennelli tondi, come io pensavo si dovesse
fare…
E poi volevo fare un libro che fosse “monumentale”, un termine che mi
ha insegnato un anziano pittore inglese, David Tindle, che aveva il
desiderio di fare una pittura monumentale, che fosse cioè fuori dalla
contemporaneità, che avesse la stessa forma e pesantezza e leggerezza
insieme degli affreschi della Roma antica. Quei volti sono stati dipinti
millenni fa e sono perfetti, non sono andati giù di niente come
intensità? Non dico che ho fatto un libro che resterà nei millenni,
voglio dire che ho rifiutato i giochini della contemporaneità, perché
volevo fare una pittura, un racconto che fosse staccato da questo
momento, che non mi interessa affrontarlo nel modo “normale”. Penso che
l’ironia sia praticamente una piaga sociale, mi sembra che la quantità,
diffusione e vizio di fare ironia e essere sarcastici su qualsiasi cosa
sia veramente una malattia, una roba da apocalisse zombie.
A chiacchiere son buoni tutti
Tante volte scherzo sul fatto che penso che parlare ai ragazzi più
giovani sia impossibile. Però gli puoi invece mettere davanti degli
esempi di scelta etica e di entusiasmo, quello sì. Se fai un lavoro
impegnandoti per avere la massima coscienza di te, rifuggendo i fantasmi
di fare le cose per essere applaudito eccetera, quella roba può darsi
che passi, e cos’è? Forse è un consiglio, di sicuro qualcosa che puoi
fare solo in forma d’esempio. Per me una delle cose base è la libertà,
l’idea di libertà, il non diventare uno schiavo. E come fai? A
chiacchiere sono buoni tutti. Devi fare delle scelte di comportamento,
di etica e economiche che poi ti permettano di essere percepito in
quella forma da qualcuno o da un ragazzo più giovane. Quello ti vede
dipingere e dice “Ah! Si può essere in quella zona”, che è esattamente
quello che mi successe quando vidi lavorare Andrea Pazienza. Sei in
carne un metodo, che vuol dire che per esempio non fai una serie di
cose. Per me l’idea di libertà nel lavoro è sacra, per cui se faccio
illustrazioni per Repubblica, non so nemmeno quanto mi pagano, però so
che l’accordo mio è che nessuno mi potrà dire cosa fare nella forma o
altro.
Voglio vedere nel mio lavoro qualcosa che possa servire all’idea di
agire in libertà dal giudizio. Per esempio una malattia che vedo
diffusissima è il fatto di fare le cose per avere l’apprezzamento.
Guarda i talent show musicali: c’è gente che canta da dio e suona
benissimo, pieni di vitalità, di energia, ma vanno a abbassare la testa
di fronte a tre mostri di giudici. Vanno a compiacerli, vanno a farsi
mettere in discussione nel loro spirito più profondo, e mi fa tanta
tristezza vederlo succedere a dei ragazzi. Quando poi vado a lavorare in
un libro come Unastoria, la mia scelta politica è di non cercare
di fare un libro che qualcuno lo applaudirà. Tutto il vento della
contemporaneità tira in una direzione e io non dico “non seguirla”, dico
semplicemente “non ascoltare la direzione in cui va”, poi magari ci
vado per caso nella stessa direzione.
“Dammi risposte complesse” è la prima frase del libro e non è lì a
caso, e ora lo so; al tempo non lo sapevo, era un momento in cui a
problemi estremamente complessi c’erano coglioni che si affannavano per
dare la risposta più semplice possibile, sbagliata, per cui per me
affrontare la via più impervia anche nel racconto era una scelta
politica.
Trovare la propria voce
Anche per la scelta che ho fatto di lasciare la Francia e tornare
nella provincia pisana, ho una certa fiducia nella dimensione più
ristretta. Qui mi sono fatto un sacco di amici nuovi più o meno giovani,
non so se mi sarebbe riuscito in una grande città. Ho molta fiducia nel
fare le cose insieme. Se delle persone più giovani ti vedono stare al
mondo con un minimo di scelte non proprio convenzionali, non proprio
indirizzate soltanto al terrore e alla paura, ricevono una trasfusione
di forza che gli può servire. Penso che uno debba applicarsi sulla
generosità e sulla compassione, cioè sullo sforzo di percepire gli altri
come anime viventi e non come figure di carta, come comparse nella
vita. Tanti ragazzi che hanno un’indole artistica fanno fatica a
scegliere cosa raccontare, cosa guardare, dove mettere gli occhi. È
difficile riuscirci finché non fanno il passo di comprensione degli
altri, di compassione verso qualunque entità fuori da te, anche quelle
che detesti.
Tira un vento di schiavitù emotiva talmente forte che qualunque tipo
di reazione fa bene. Faccio spesso queste discussioni, dove mi ricoprono
di merda, sulla questione dei soldi. Io azzardo provocazioni tipo “devi
lavorare gratis”: che è una merdata, lo so benissimo; però se sei un
disegnatore la fattura non può essere il tuo primo pensiero. Non perché
devi essere un artista che vive d’aria, ma perché ti fa proprio male. Un
disegnatore giovane chiamato a collaborare con una delle innumerevoli
riedizioni del “Male” rese pubblica una mail che aveva ricevuto
lamentando il fatto che in questa lettera gli si diceva “venite, dateci i
disegni, collaborate” senza fare menzione dei soldi che avrebbero avuto
o meno. Tutti chiaramente gli dettero ragione. In questa discussione io
dissi: “C’è un giornale di satira e il vostro primo pensiero sono i
soldi?”. La satira si fa sul potere, punto. Non si fa sui più deboli, si
fa sui più forti e se diventi forte smetti di farla, fine. Il potere
sono i soldi per me, e come si fa a fare una satira su un sistema
economico quando il tuo primo pensiero rientra esattamente nello stesso
canone? Ti monetizzi, e dopo che cosa critichi? E allora io dico:
coltiva la tua libertà, coltiva l’autonomia, coltiva il tuo sguardo,
coltiva la tua voce, e che i soldi siano il tuo secondo pensiero, non il
primo. Non dico mica il centesimo: il secondo! Se coltiverai sguardo e
voce, un giorno di quei soldi te ne daranno pure di più.
Quando io guardo una cosa, chi è che la sta guardando? Quello che
vedo lo vedo con i miei occhi, o lo vedo con degli occhi che mi sono
stati dati? Una volta che sono riuscito a vedere una cosa con uno
sguardo quantomeno mio, autentico, poi c’è il problema di
raccontare quello che ho visto e quindi si presenta lo stesso problema:
con quale bocca sto parlando? Con quale mano sto scrivendo? Di chi è? Di
chi sono le parole che uso? Essere un autore, uno che vuole lavorare in
campo artistico, è un privilegio: invece di fare il parcheggiatore
abusivo sei a scrivere, si capisce questa differenza? Io ho lavorato in
fabbrica per un anno e quelli che lavoravano con me sono sempre lì,
perché io no? Non sono chiamato a farmi un culo atomico per riuscire ad
avere uno sguardo e una voce differente? Secondo me sì, altrimenti non
si capisce perché io non dovrei essere a lavorare in fabbrica e qualcun
altro dei miei ex compagni a scrivere al posto mio. Bisogna lavorare sul
rendersi liberi dai meccanismi indotti: lo so che ti fanno sentire un
estratto conto da quando nasci a quando tiri il calzino, ma ti devi
ribellare a questa roba, che vuol dire andare via di casa anche se non
hai lo stipendio da 1500 euro, perché tanto sei giovane, e non muori se
vai a dormire in una stazione! Poi lo so che sarebbe molto più giusto
che i ragazzi avessero un lavoro ben pagato, che permettesse di uscire
di casa pagandosi un affitto dignitoso eccetera, ma non è così. Ora ho
un sacco di amichetti di 35-40 anni che stanno con babbo e mamma, e
perché? Perché quando avevano l’energia e la forza di andare a dormire
per la via non l’hanno fatto.
Spesso parlo con i ragazzi che vogliono pubblicare a tutti i costi,
ragazzi giovani, e quando gli dico che secondo me non sono pronti loro
mi rispondono tipo “vedrai, se mando la roba a mille editori, uno che mi
pubblica lo troverò”. Io gli rispondo sempre allo stesso modo: “sì,
sicuramente, e ti farà male”, perché la questione vera è: che qualità di
uomo vuoi diventare? Io non dico di essere in pace, ma ogni tanto c’è,
soprattutto quando sono a disegnare, in un momento di abbandono, una
cosa che funziona, una scintilla di pace: quella scintilla non vale di
più di averci il nome in copertina sull’Espresso? Io so per esperienza
di sì, e questa cosa mi piacerebbe farla capire, perché i ragazzi più
giovani vivono in una società che, invece, gli dice “sarai una merda
finché non verrai rappresentato”, invece se ti riesce a costruirti uno
sguardo che ti permetta di percepire per un attimo l’armonia di quello
che c’è intorno, hai vinto. Non voglio passare da artistoide, sono solo
convinto che quando riesci a sviluppare quello sguardo, questo diventa
una caratteristica che altri pagheranno pur di potervi accedere, quindi
perché non andare dietro a quello? Se va male, comunque, sarai cresciuto
spiritualmente, che non è proprio una cosa che faccia schifo; se va
bene, in più, ci campi.
L’urlo dei geni
La voce dei geni è una roba buffa che ho sentito due volte. La prima
quando morì mio padre, che era una persona alla quale ero molto legato.
Successe durante un’operazione, all’ospedale di Pisa, una notte. Ero lì
con la mia famiglia ad aspettare di vedere come andavano le cose. Scende
questo chirurgo con la faccina proprio da “mi spiace, non c’è stato
niente da fare”. Io, che sono un po’ fuori di cervello, cosa faccio? Do
una spinta al dottore, salgo le scale e mi infilo dentro la sala
operatoria. Vedo mio padre lì, sul tavolo di lamiera, col sangue e
tutto. Piangevo a dirotto, avevo le orecchie che mi fischiavano una che
nemmeno mi fosse scoppiata una bomba a un metro di distanza, mi girava
tutto come se fossi ubriaco fradicio. Era la prima morte che capitava
nella mia famiglia, e in più capitava alla persona che rappresentava
l’amore e l’allegria. A un certo punto si apre una porticina laterale ed
entra un’assistente del chirurgo, una bella ragazza, alta, mora. E io
mentre sono lì che piango, che c’ho il cuore che mi scoppia eccetera
eccetera, sento una voce dentro di me che dice: “boia, com’è bona! L’hai
vista? Chissà se gli garbi”. Rimango pietrificato dall’orrore. Penso di
aver capito, quella sera, che quella voce lì era veramente la voce dei
geni che mi abitano, e che anche in quel momento pensavano al fatto che
dovevo procreare, quindi innamorarmi di qualcuno, fare dei figli,
eccetera eccetera; perché sì, perché quello vuole il tempo. Me ne sono
vergognato moltissimo.
La seconda volta, al contrario, fu quando, fatti tutti gli esami di
rito, un amico dottore mi chiamò per dirmi “mi dispiace, non hai
spermatozoi nel seme, non potrai mai avere figli”. Io mi dico che un po’
me lo immaginavo, e poi siamo nel 2013, ho tre nipoti e la mia
preferita, quella che sento più vicina, è una bimbetta rom adottata
dalla mia sorella, per cui che m’importa del sangue? Invece riattacco e
sento una specie di uomo delle caverne dentro che comincia a urlare e a
spaccare tutto. Un urlo veramente primitivo, l’urlo dei geni che si
erano resi conto di essere finiti in una specie di binario morto, dove
non servivano niente, dove la loro funzione era annullata. Per me è
stato spaventoso e stranissimo, perché a livello culturale io ero
assolutamente da un’altra parte. E cos’era questa roba antica,
primordiale, dolorosissima, che mi si manifestava dentro? Nei mesi
successivi la parte culturale è andata a farsi benedire e la parte
primordiale ha preso il sopravvento e mi ha letteralmente sbriciolato. È
stata uno dei componenti che mi hanno portato ad andare a quattro zampe
in psichiatria: la vanità e la perdita del talento da una parte e
questo dall’altra. Mio padre diceva sempre che di cazzotti bisognava
sempre darne due perché è il secondo che ti butta in terra; il secondo
mi aveva buttato in terra.
So di sicuro che questo urlo dei geni sta accadendo dentro tutte le
cose che sto facendo a livello artistico. È stata una coscienza aggiunta
molto strana, che sicuramente mi ha portato a fare le riflessioni sulla
natura che poi sono cadute in Unastoria. Come fai a stare al
mondo se hai il sospetto che la natura non ti voglia? Di più: che la
natura ti detesti? Il mio processo di pensiero negli anni è stato: la
natura non sa che esisto perché io e la natura siamo entità distanti; la
natura è priva di pensiero, non ha volontà e quella cosa stranamente
alla fine è consolante: parti da un abisso di spaesamento e arrivi
invece a una cosa che ti dà una misura. Le persone sono bestie nude,
nascono e non hanno davanti un sentiero, un solco che è l’istinto e che
sicuramente seguiranno: hanno un’infinità di possibilità, e questo dà
terrore e spaesamento totali che portano poi a stronzate tipo la
“tradizione”, tipo a chi dice “noi padani” o “la famiglia”, che sono
tutte costruzioni che servono per ricreare, in forma fittizia, un solco
simile a quello di un cane, cioè una strada naturale. Proprio a livello
biologico è una cazzata. Tu non sei niente, mettiti l’anima in pace:
puoi anche dire che sei un padano, o che sei uno dei fratelli di Casa
Pound o un no-TAV o uno di Anonymous con la maschera da coglione, ma non
sei nulla e in realtà sei tutto. Potresti essere la libertà incarnata, e
invece per terrore ognuno si mette in un binario che più è stretto e
più si è felice.
Mi piacerebbe dire ai ragazzi “scusa, te sei un rivoluzionario, ma
non ti viene il dubbio che, visto che l’immagine e le parole della tua
rivoluzione ti arrivano attraverso un blockbuster americano, sia una
trappola, che il meccanismo sia becero?”. Il segreto della tua libertà è
un segreto. È un mistero in cima a un picco alto quattromila
metri, non è a portata di clic. A portata di clic hai una trappola, ci
scommetto qualsiasi cosa. Le armi per la liberazione non saranno di
sicuro lì, perché lì te le danno preconfezionate: dicono di mettersi una
maschera e dire certe parole, vedrai che cambia tutto. Secondo me ti
stanno truffando alla grande. Diffondere le mail degli scambi tra i
dirigenti dell’Enel e dell’Eni può cambiare il mondo? Non credo, ma
penso che ci sia chi fa diventare le cose spettacolo, perché viene dallo
spettacolo, perché è fatto di spettacolo, e il mondo dello spettacolo
vuole che tu rimanga esattamente così.
Gipi
(trovato su minima & moralia)
Nessun commento:
Posta un commento