delle nostre domeniche mattine pomeriggi con la legalità attaccata al collo per risparmiare soldi, a togliere l'anima alle verdure, vade retro satana! ascoltando van morrison dallo stereo di casa e reprimere l'istinto di ballare guancia a guancia un lento così sofferto e vicino.
sembrava ieri quando abbiamo affrontato marzo con il petto in fuori, fieri di quello che avevamo e che pensavamo di sopportare, mentre ora il calendario segna non tanto la fine, quanto piuttosto l'inizio di qualcosa di altro, di nuovo, di vero, di soffice di lenzuola disfatte, l'abbraccio, l'affetto, la stretta più forte più fretta di fretta, vestiti svestiti, con guanti distanti separando le dita, un medio, una media, un calcolo matematico e non. ma pasqua è vicina e per quel che importa importa, il lunedì e il resto della settimana, sono giorni che passano sui giorni con marce trionfali ma anche marce militari, marce accademiche; quando diavolo ci accorgeremo che queste marce ci portano a marcire in facili stupidi giochi di parole che non conducano a niente se non nel nulla delle strade, perchè le strade, qualsiasi strada porta lontano e non c'è modo di muoversi senza spostarsi, il movimento: suggerisce il cambiamento e il cambiamento c'è sempre e comunque quando, in un qualsivoglia caso, si finisce per usare una congiunzione, per traghettare uno stato che fu in uno stato che è o che sarà.
mercoledì 31 marzo 2010
martedì 30 marzo 2010
Houdini - L'ultimo mago
la più grandiosa magia di Houdini è prendere Guy Pearce e mettergli una parrucca storta sulla testa, mentre nel frattempo una Catherine Zeta-Jones ormai sempre più vicina a suo marito fa finta di niente, prende in giro la gente, cerca di illudere gli altri con vili trucchi ed espedienti senza riuscire neppure a convincere se stessa.
le ultime parole della madre, della madre! l'occhio della madre!, di Houdini non interessano a nessuno e da un certo punto in poi neppure ad Houdini stesso, figuriamoci a chi sta al di qua dello schermo.
vorrei poter dire di più ma mi sono addormentato.
lunedì 29 marzo 2010
S
Commosso addio al padre attraverso un libro fumetto ricordo che rappresenta in un certo qual modo il Big Fish italiano. Un Gipi da tavole che escono dalla cornice di semplice fumetto ed espatriano in veri e propri quadri, soprattutto i paesaggi di tonalità così liquide e struggenti.
Gipi
venerdì 26 marzo 2010
Duke of Anxiety
Performed by Scout Niblett
giovedì 25 marzo 2010
Chi sorride (sempre)
Lei era una di quelle persone che ridono sempre, in qualsiasi contesto o circostanza. Lui la vedeva ogni giorno seduta ad un tavolino del bar dove andava a mangiare, tutte le volte in compagnia dello stesso uomo: un signore anziano e distinto che poteva essere suo padre, ma che lui preferiva pensarlo come un superiore, un collega più anziano del suo stesso ufficio. Non voleva legarla a quell'uomo così distaccato con un legame di parentela, forse perché rischiava di associarla mentalmente con quella faccia così raggrinzita e tonda, scoperta alle tempie dai capelli grigi e con le labbra nascoste sotto dei baffi bianchi tutti ordinati e pettinati. Già gli ricordava molto una ragazza con la quale non aveva una amicizia proprio stretta stretta, non sapeva per quale motivo, saranno stati forse gli occhiali con la montatura larga e le lenti rettangolari strette e lunghi, o i capelli neri lunghi, o le guancie, paffute tonde e pronunciate appena sotto gli occhi; o ancora il mento, un poco in fuori ma distante dalla bocca quel che bastava per non renderlo invadente, o la faccia di un ovale schiacchiato abbastanza da far diventare la testa intera una sfera quasi perfetta. Forse inconsciamente già la associava a questa sua diciamo amica, e in certi attimi di disilluso vuoto mentale si ritrovava, lui che in fondo non ne aveva i ben che minimi diritti, a guardarla in modo strano, corrucciato, quasi non capisse il motivo per cui questa ragazza sempre sorridente riuscisse ogni volta, ogni giorno ad attirare tanto la sua attenzione.
Un giorno, quando lui aveva finito di pranzare e stava aspettando che la cameriera tornasse al suo tavolo per chiederle il caffè, si risposte che ciò che l'attirava tanto di quella ragazza, come la calamaita con il ferro, non era lo sguardo che si perdeva in due pupille nere nascoste dietro gli occhiali, o il fisico che pareva non certo magro e longilineo sotto i maglioni larghi che lei indossava sempre, quanto piuttosto il collo. Proprio così: quel giorno vide il collo di lei in una prospettiva tale che rese quella parte di lei la più affascinante che lui avesse mai visto, in lei e in qualsiasi altra donna avvesse incontrato fino ad allora.
Il collo, si dissi quindi quel giorno, il collo è ciò che mi incuriosisce di lei. E la curiosità, per lui, era il motore di qualsiasi sentimento potesse provare per una persona. L'ignoto lo attirava, i pensieri o gli aspetti sconosciuti di una personalità, ecco cosa rendeva per lui speciale una persona. La gente di cui sapeva già tutto, di cui conosceva vita morte miracoli, infanzia adolescenza e problemi vari, questa gente lo annoiava; perchè quando si conosce qualcuno, quando inizi a parlarci ed ascolti con interesse le sue storie, sono sempre e solo storie nuove, argomenti mai trattati, opinioni mai ascoltate; ma con il passare del tempo, di giorno in giorno, di chiacchierata in chiacchierata, questo spazio sconosciuto, queste storie da esplorare come i primi navigatori che esploravano l'oceano tracciando timidi le rotte iniziali verso l'America, diventano sempre meno, sempre più esili, e si rischia di arrivare ad un punto in cui ogni cosa è già stata sentita: la prima volta che qualcuno a baciato qualcun altro; la prima volta che qualcuno ha guidato un'auto e che magari ha fatto un incidente; la prima volta, o anche la seconda, la terza, la quarta, l'ennesima volta che qualcuno ha rubato qualcosa da un supermercato o da un negozio di articoli domestici; la prima volta che qualcuno ha trovato il coraggio dentro di se per fare qualcosa di spericolato o avventuroso. Tutte queste cose, questi aspetti sconosciuti, pronti ad essere scoperti, erano riassunti in lei dal suo collo, racchiusi dentro i muscoli che si tendevano massicci come una corda tesa quando lei si voltava a destra o a sinistra.
Quello che però lo frenava, di fronte a tutto questo ben di Dio di ignoto, era il suo aspetto sempre sorridente, perennemente con le labbra tese all'insù. Quando non rideva, sorrideva, e lui aveva sempre pensato che il ridere e il sorridere fossero qualcosa di simile, ma non proprio la stessa identica cosa; nonostante questo ne aveva, non proprio paura, ma timore. Timore era la parola che più si avvicinava a quello che provava nel pensare di avvicinarla.
Perché lui non sapeva come approcciare quelle persone che ridono sempre. Di solito cercava di fare una battuta, di alleggerire l'atmosfera, di presentarsi dicendo qualcosa di simpatico; ma cosa avrebbe potuto inventarsi per far ridere chi di solito rideva sempre? Questa ragazza, che ogni giorno sedeva di fronte a questo vecchio dai pochi capelli e dai baffi ordinati, sembrava ridere ad ogni minima parola che sentisse; e lui non sapeva neppure se ciò che le diceva il vecchietto fosse davvero così tanto simpatica da farla ridere ogni volta in quel modo. Magari si sbagliava, e quel signore tanto distinto era in realtà il miglior comico in circolazione nel mondo intero, ma lui aveva l'impressione che il sorriso, o la risata, fossero un modo come un altro per tenere a distanza gli altri, per dire a chiunque si sedesse di fronte a lei: vai tranquillo, impegnati pure, tanto non ti prenderò mai sul serio.
Un giorno, qualche giorno dopo il giorno durante il quale intuì che il collo era la gemma di diamante più sbrilluccicante del corpo di lei, il signore che forse era il padre o forse era il superiore o forse era chissà chi, si alzò durante il pranzo ed andò di fretta in bagno. Prima di farlo, ovviamente, si pulì con attenzione le labbra con il tovagliolo.
Lui osservò quel posto vuoto. Poi osservò lei. Dopo di che tornò a guardare il posto vuoto, quella sedia con sopra nessuno.
Alla fine prese il coraggio ed andò a sedersì proprio di fronte a lei.
"Ce ne hai messo di tempo." Fece lei seria, per la prima volta.
"Non sapevo come fare."
"Come fare a fare cosa?"
"A parlarti."
"Adesso lo stai facendo. Come hai fatto per iniziare?"
"Beh - balbettò lui, ed ebbe l'impulso di guardarsi le mani. - ho visto che eri sola ed ho deciso di venire a farti compagnia."
"Balle." Rispose lei.
"Come?"
"Quella di venire a farmi compagnia è tutta una scusa. Voglio sapere come hai fatto a venire qui, cosa ti ha spinto a farlo, nel profondo. Non voglio sentirmi raccontare un mucchio di sciocchezze dietro le quali ti nascondi." In tutto il discorso non aveva accennato a niente che potesse anche solo vagamente ricordare un sorriso.
"Fino ad oggi non sapevo cosa dire, come fare..."
"Ed ora lo sai?"
"No, ma per lo meno adesso non stai ridendo."
Un giorno, quando lui aveva finito di pranzare e stava aspettando che la cameriera tornasse al suo tavolo per chiederle il caffè, si risposte che ciò che l'attirava tanto di quella ragazza, come la calamaita con il ferro, non era lo sguardo che si perdeva in due pupille nere nascoste dietro gli occhiali, o il fisico che pareva non certo magro e longilineo sotto i maglioni larghi che lei indossava sempre, quanto piuttosto il collo. Proprio così: quel giorno vide il collo di lei in una prospettiva tale che rese quella parte di lei la più affascinante che lui avesse mai visto, in lei e in qualsiasi altra donna avvesse incontrato fino ad allora.
Il collo, si dissi quindi quel giorno, il collo è ciò che mi incuriosisce di lei. E la curiosità, per lui, era il motore di qualsiasi sentimento potesse provare per una persona. L'ignoto lo attirava, i pensieri o gli aspetti sconosciuti di una personalità, ecco cosa rendeva per lui speciale una persona. La gente di cui sapeva già tutto, di cui conosceva vita morte miracoli, infanzia adolescenza e problemi vari, questa gente lo annoiava; perchè quando si conosce qualcuno, quando inizi a parlarci ed ascolti con interesse le sue storie, sono sempre e solo storie nuove, argomenti mai trattati, opinioni mai ascoltate; ma con il passare del tempo, di giorno in giorno, di chiacchierata in chiacchierata, questo spazio sconosciuto, queste storie da esplorare come i primi navigatori che esploravano l'oceano tracciando timidi le rotte iniziali verso l'America, diventano sempre meno, sempre più esili, e si rischia di arrivare ad un punto in cui ogni cosa è già stata sentita: la prima volta che qualcuno a baciato qualcun altro; la prima volta che qualcuno ha guidato un'auto e che magari ha fatto un incidente; la prima volta, o anche la seconda, la terza, la quarta, l'ennesima volta che qualcuno ha rubato qualcosa da un supermercato o da un negozio di articoli domestici; la prima volta che qualcuno ha trovato il coraggio dentro di se per fare qualcosa di spericolato o avventuroso. Tutte queste cose, questi aspetti sconosciuti, pronti ad essere scoperti, erano riassunti in lei dal suo collo, racchiusi dentro i muscoli che si tendevano massicci come una corda tesa quando lei si voltava a destra o a sinistra.
Quello che però lo frenava, di fronte a tutto questo ben di Dio di ignoto, era il suo aspetto sempre sorridente, perennemente con le labbra tese all'insù. Quando non rideva, sorrideva, e lui aveva sempre pensato che il ridere e il sorridere fossero qualcosa di simile, ma non proprio la stessa identica cosa; nonostante questo ne aveva, non proprio paura, ma timore. Timore era la parola che più si avvicinava a quello che provava nel pensare di avvicinarla.
Perché lui non sapeva come approcciare quelle persone che ridono sempre. Di solito cercava di fare una battuta, di alleggerire l'atmosfera, di presentarsi dicendo qualcosa di simpatico; ma cosa avrebbe potuto inventarsi per far ridere chi di solito rideva sempre? Questa ragazza, che ogni giorno sedeva di fronte a questo vecchio dai pochi capelli e dai baffi ordinati, sembrava ridere ad ogni minima parola che sentisse; e lui non sapeva neppure se ciò che le diceva il vecchietto fosse davvero così tanto simpatica da farla ridere ogni volta in quel modo. Magari si sbagliava, e quel signore tanto distinto era in realtà il miglior comico in circolazione nel mondo intero, ma lui aveva l'impressione che il sorriso, o la risata, fossero un modo come un altro per tenere a distanza gli altri, per dire a chiunque si sedesse di fronte a lei: vai tranquillo, impegnati pure, tanto non ti prenderò mai sul serio.
Un giorno, qualche giorno dopo il giorno durante il quale intuì che il collo era la gemma di diamante più sbrilluccicante del corpo di lei, il signore che forse era il padre o forse era il superiore o forse era chissà chi, si alzò durante il pranzo ed andò di fretta in bagno. Prima di farlo, ovviamente, si pulì con attenzione le labbra con il tovagliolo.
Lui osservò quel posto vuoto. Poi osservò lei. Dopo di che tornò a guardare il posto vuoto, quella sedia con sopra nessuno.
Alla fine prese il coraggio ed andò a sedersì proprio di fronte a lei.
"Ce ne hai messo di tempo." Fece lei seria, per la prima volta.
"Non sapevo come fare."
"Come fare a fare cosa?"
"A parlarti."
"Adesso lo stai facendo. Come hai fatto per iniziare?"
"Beh - balbettò lui, ed ebbe l'impulso di guardarsi le mani. - ho visto che eri sola ed ho deciso di venire a farti compagnia."
"Balle." Rispose lei.
"Come?"
"Quella di venire a farmi compagnia è tutta una scusa. Voglio sapere come hai fatto a venire qui, cosa ti ha spinto a farlo, nel profondo. Non voglio sentirmi raccontare un mucchio di sciocchezze dietro le quali ti nascondi." In tutto il discorso non aveva accennato a niente che potesse anche solo vagamente ricordare un sorriso.
"Fino ad oggi non sapevo cosa dire, come fare..."
"Ed ora lo sai?"
"No, ma per lo meno adesso non stai ridendo."
mercoledì 24 marzo 2010
Amabili Resti
Per caso o per scelta, insomma, tutti quelli che avevo conosciuto stavano crescendo.
Nonostante la calma che ostentava, nella voce di lei aveva udito il metallo, il ferro che si spezzava per la paura.
L'alcol aveva la particolarità di rendere gli abiti neri ancora più neri. Questo fatto la divertiva e così aveva annotato sul suo diario: "L'alcol ha effetto sia sulla gente che sulla stoffa."
Non era uno di quei tipi violenti che affollavano la televisione e i giornali. La sua crudeltà stava nell'assenza.
Nonostante la calma che ostentava, nella voce di lei aveva udito il metallo, il ferro che si spezzava per la paura.
L'alcol aveva la particolarità di rendere gli abiti neri ancora più neri. Questo fatto la divertiva e così aveva annotato sul suo diario: "L'alcol ha effetto sia sulla gente che sulla stoffa."
Non era uno di quei tipi violenti che affollavano la televisione e i giornali. La sua crudeltà stava nell'assenza.
Alice Sebold
martedì 23 marzo 2010
Nemico Pubblico
La differenza sta tutta tra una rapina esemplare, da compiere in un minuto e quaranta secondi, esatti, e una rapina becera, di grida spari e confusione più totale. Perchè quando si è amati dalla gente, quando le persone in strada ti salutano e ti osannano, proprio perchè non vuoi i loro soldi, ma i soldi delle banche, allora tutto, ogni cosa è possibile, anche evadere da una prigione o far evadere chiunque tu voglia.
Cadrai solo quando ti accorgerai di aver bisogno di qualcosa che non sono i soldi, di un volto che ti spingerà a fare quello che tutti quanti ti sconsigliano. Cadrai quando gli altri ti volteranno le spalle, quando ogni singolo tuo amico sarà diventato una foto appesa al muro con su scritto: deceduto; quando i tuoi cosiddetti compagni ti taglieranno fuori, decideranno che sei diventato troppo importante, che occupi troppo posto, che sei ingombrante per quel che hanno deciso di fare ora, ovvero evolversi in qualcosa di nuovo.
Si, forse ci sarà bisogno di un poliziotto dalla faccia da supereroe, ma non è certo lui quello che ti incastrerà veramente, perchè in fondo di sbagli ne commetterà pure lui, sempre di più e di più, e pure lui avrà bisogno di assistenti quadrati, duri, decisi, ma che sappiano bene qual'è il confine che li separa dal male, loro che devono, sono obbligati in qualsiasi caso, a restare nel bene.
Alla fine non sarà altro che la caduta di un nemico gentiluomo, raccontata in modo impeccabile, al quale sono stati tolti tutti i punti a cui potesse appoggiarsi, e per finire pure il marciapiede sopra il quale stava camminando.
Suonaci la nostra canzone, Sam.
lunedì 22 marzo 2010
Ulisse
Ancora nessuno lo aveva capito: quando usava superlativi bisognava capire l'esatto estremo opposto. Era una maschera che metteva su ogni qual volta si sentiva il mondo crollare sotto i piedi. Si era detto, un giorno, che se ogni cosa sembrava andare per il peggio, forse era sufficiente dire che invece era tutto perfetto, che tutto andava benissimo. Quasi quelle parole avessero il potere magico di risollevare una situazione, colorare un giorno, accendere una notte o una sera.
Purtroppo però la realtà non funzionava proprio così. Poteva ripetersi in continuazione quei superlativi a lui tanto cari, ma le cose non cambiavano certo in conseguenza a ciò che diceva. Se il cielo era buio non bastava dire che era azzurrissimo per spazzare via le nuvole o il grigio.
Quella sera, al telefono, sapeva già cosa lo aspettava, ancor prima di rispondere. Lo sapeva perchè con il tempo aveva imparato ad assaporare quegli attimi di attesa che si trasformano poi in delusione. Era diventato bravissimo a capire il momento esatto durante il quale il dolce dell'aspettare diventava così amaro da strizzare gli occhi in disgusto; come un elastico che tendi tendi tendi all'infinito e ad un tratto, un preciso tratto, prende e si spezza schizzandoti rabbioso sulle dita. Quella sera già sapeva, perchè aveva in pratica cenato con quel sapore, sempre presente in bocca a cariargli i denti, e non bastava il vino che buttava giù a grandi sorsi, divisi in bicchieri sempre più pieni stracolmi grondanti di fuori, oltre il bordo sottile e privato; aveva già la gola intrisa di quel gusto che dà l'attesa vana, l'aspettativa marcia e consumata.
La sera usciva sempre e solo perchè sapeva che se avesse seguito lui non si sarebbe in alcun modo perso, anche quando si rendeva conto, nei vaghi momenti di lucidità, che le strade che percorreva erano soltanto sue, chiuse al traffico di altri. Poco importavano le strisce pedonali, le corsie di emergenza o le parole messe in fila una dietro l'altra in ingorghi di confusione di pensieri e intenti. E' per questo che quando rispose, quella sera, quella precisa determinata sera, non disse ciò che pensava, ciò che già sapeva; ma disse quello che gli avrebbe fatto meno male, almeno sentendolo dire dalla sua stessa voce. Perchè ogni giorno di più si sentiva come Ulisse, sempre in mare a navigare ma mai capace di tornare davvero a casa. E temeva, ogni volta, che poi alla fine non ci fosse neppure più una Penelope ad aspettare.
Purtroppo però la realtà non funzionava proprio così. Poteva ripetersi in continuazione quei superlativi a lui tanto cari, ma le cose non cambiavano certo in conseguenza a ciò che diceva. Se il cielo era buio non bastava dire che era azzurrissimo per spazzare via le nuvole o il grigio.
Quella sera, al telefono, sapeva già cosa lo aspettava, ancor prima di rispondere. Lo sapeva perchè con il tempo aveva imparato ad assaporare quegli attimi di attesa che si trasformano poi in delusione. Era diventato bravissimo a capire il momento esatto durante il quale il dolce dell'aspettare diventava così amaro da strizzare gli occhi in disgusto; come un elastico che tendi tendi tendi all'infinito e ad un tratto, un preciso tratto, prende e si spezza schizzandoti rabbioso sulle dita. Quella sera già sapeva, perchè aveva in pratica cenato con quel sapore, sempre presente in bocca a cariargli i denti, e non bastava il vino che buttava giù a grandi sorsi, divisi in bicchieri sempre più pieni stracolmi grondanti di fuori, oltre il bordo sottile e privato; aveva già la gola intrisa di quel gusto che dà l'attesa vana, l'aspettativa marcia e consumata.
La sera usciva sempre e solo perchè sapeva che se avesse seguito lui non si sarebbe in alcun modo perso, anche quando si rendeva conto, nei vaghi momenti di lucidità, che le strade che percorreva erano soltanto sue, chiuse al traffico di altri. Poco importavano le strisce pedonali, le corsie di emergenza o le parole messe in fila una dietro l'altra in ingorghi di confusione di pensieri e intenti. E' per questo che quando rispose, quella sera, quella precisa determinata sera, non disse ciò che pensava, ciò che già sapeva; ma disse quello che gli avrebbe fatto meno male, almeno sentendolo dire dalla sua stessa voce. Perchè ogni giorno di più si sentiva come Ulisse, sempre in mare a navigare ma mai capace di tornare davvero a casa. E temeva, ogni volta, che poi alla fine non ci fosse neppure più una Penelope ad aspettare.
venerdì 19 marzo 2010
Let the Cool Goddess Rust Away
I found
A new face
A new image staring back at me
Let the Cool
Goddess Rust Away
Let the Cool
Goddess Rust Away
You so different
In a different way
But what goes up has so far down to fall
So go salvage
Some of that human dignity
It'll be a long
Hard
Road
A new face
A new image staring back at me
Let the Cool
Goddess Rust Away
Let the Cool
Goddess Rust Away
You so different
In a different way
But what goes up has so far down to fall
So go salvage
Some of that human dignity
It'll be a long
Hard
Road
Performed by Clap Your Hands Say Yeah
mercoledì 17 marzo 2010
Alice in Wonderland
Non sempre è un male entrare in sala con aspettative molto molto molto basse. E' più facile in questo modo uscirne poi con una buona impressione. E' il gap, la differenza tra quello che ti aspetti e quello che poi vedi, che varia in modo notevole. Se ad esempio entri con aspettative 0, e ciò che vedi ha un valore 5, non è ancora arrivato alla sufficienza ma per lo meno hai un più cinque rispetto a quello che credevi. Se invece, sempre ad esempio, entri con aspettative pari a 6 e caso mai quel che vedi è un sei e mezzo, forse è più facile che tu rimanga un po' deluso, giusto un poco.
E' il caso di questo Alice in Wonderland, ultima prova dello scapigliato Tim Burton, che è una specie di sequel del cartone animato disneyano. Abbiamo una Alice ormai ventenne, che è già stata nel paese delle meraviglie una prima volta da bambina, una visione più reale ed adulta rispetto a quella dei disegni, personaggi che a più riprese ricordano l'Alice che fu. Ma questo porta poco se non nulla al risultato finale. Come era già successo con un progetto analogo quale Il pianeta delle scimmie, il tentativo di Burton di riallaccarsi ad un grande classico è evanescente un po' quanto l'immagine dello Stregatto. Il film si salva per qualche gag qua e là che strappano dei sorrisi, e che fanno capire che il protagonista vero indiscusso di tutta la pellicola non è un'Alice dai riccioli biondi interpretata da Mia Wasikowska, o il cappellaio matto ma non troppo di Johnny Depp, né la regina dalla testa grossa di Helena Bonham Carter, o l'irritante regina bianca tutte mosse fluide e impostate di Anne Hathaway; il vero protagonista è lui: Leprotto Bisestile (cucchiaio!).
Il resto, soprattutto nella prima parte, sembra essere una corsa serrata a far apparire quanti più personaggi riconoscibili nel minor tempo possibile. Altro discorso avremmo fatto se caso mai la stessa storia fosse stata sviluppata da un Tim Burton di qualche anno fa, se non di qualche decennio fa. Allora si che la pellicola sarebbe stata dark, spettrale, con tite cupe; tutt'altra cosa rispetto a questa esplosione di colori pop che da qualche film a questa parte sembra perseguitare il regista di Edward mani di forbice. Il cappellaio matto dai capelli sparati e tinti di questo Alice in Wonderland è finto, esile, e plasticoso quanto il suo cugino Willy Wonka de La fabbrica di cioccolato.
Putroppo è vero: anche i fiori più belli e profumato alla fine appassiscono. Il miglior Burton, pare, lo abbiamo già visto.
martedì 16 marzo 2010
Unità Sanitarie Locali
Per tredici anni tredici ho fatto mangiare ragazzini dentro in pratica ad un garage, prendendo in giro le unità sanitarie locali prima ancora che cominciassero a farsi chiamare aziende. Ho preso a calci sgabelli e mi sono fratturato piedi, ho fatto divertire e mi sono divertito non lo metto in dubbio, ma non è per caso questo quello che cerchiamo di fare tutti? Ed ora: sentirmi dire cosa fare e cosa non fare, non tanto per evolversi o mettere le ali, cercare di sfiorare il sole, non so se mi sono spiegato, ma solo per cercare di stare a galla il più possibile, farmi trascinare dalle acque, mica tanto, solo questo. No grazie, ma non ci sto. E non è presunzione, non la voglio, per l'amor di Dio, e non vorrei neppure che qualcuno lo pensasse; ma è per il semplice motivo che so già quello che mi aspetterebbe, ad andare avanti per questa strada: mi mancherebbe l'ossigeno, l'aria. E quando dico ossigeno e quando dico aria capite bene quello a cui mi riferisco.
Non mi resta che andar via, non certo voltando le spalle, ma sai, tu lo sai: io non voglio prometter guerra a destra e a manca, ci mancherebbe altro, tu lo sai, lo sai. Me ne resterò a riva a guardare scorrere il fiume. Io lo so, tu lo sai. Un giorno o l'altro ci rivedremo ancora. Io sarò seduto su un sasso immerso nell'erba della riva. Io lo so, ma lo sai pure tu. Non nascondiamoci dietro un dito.
Ed è normale, dico io, trovarmi nell'ombra appena dopo aver finito di scaricare, non merce ne canzoni o film illegali, ma scaricare. E quando dico scaricare capite bene a cosa mi riferisco. In fondo è stata casa mia, ci ho vissuto così tanto tempo, passando le notti a riverniciare muri e pareti, giocando a guidare tra le buche di una strada tutta scassata e traballante, a disegnare serrature giganti e gigantesche, a viaggiare in su e in giù con un Vespa spenta. Mi par pur normale scaricare, in fondo, no?
E' solo che dell'aria per sopravvivere ce n'è bisogno, ce n'è bisogno quasi quanto l'acqua o ancor più dei soldi; perché è proprio quella che porta ossigeno nei polmoni, che permette di assimilare in quantità industriale questo speciale carburante che poi sputo e sputiamo fuori in anidride carbonica da una bocca non catalitica. E quando dico aria e quando dico ossigeno capite bene quello a cui mi riferisco. Vero? Davvero.
Non mi resta che andar via, non certo voltando le spalle, ma sai, tu lo sai: io non voglio prometter guerra a destra e a manca, ci mancherebbe altro, tu lo sai, lo sai. Me ne resterò a riva a guardare scorrere il fiume. Io lo so, tu lo sai. Un giorno o l'altro ci rivedremo ancora. Io sarò seduto su un sasso immerso nell'erba della riva. Io lo so, ma lo sai pure tu. Non nascondiamoci dietro un dito.
Ed è normale, dico io, trovarmi nell'ombra appena dopo aver finito di scaricare, non merce ne canzoni o film illegali, ma scaricare. E quando dico scaricare capite bene a cosa mi riferisco. In fondo è stata casa mia, ci ho vissuto così tanto tempo, passando le notti a riverniciare muri e pareti, giocando a guidare tra le buche di una strada tutta scassata e traballante, a disegnare serrature giganti e gigantesche, a viaggiare in su e in giù con un Vespa spenta. Mi par pur normale scaricare, in fondo, no?
E' solo che dell'aria per sopravvivere ce n'è bisogno, ce n'è bisogno quasi quanto l'acqua o ancor più dei soldi; perché è proprio quella che porta ossigeno nei polmoni, che permette di assimilare in quantità industriale questo speciale carburante che poi sputo e sputiamo fuori in anidride carbonica da una bocca non catalitica. E quando dico aria e quando dico ossigeno capite bene quello a cui mi riferisco. Vero? Davvero.
lunedì 15 marzo 2010
Ci faremmo fotografare in case non nostre
Andando a giro per negozi fiere botteghe e mercati potremmo avere mille e mille case, arredarle ognuna come più ci pare, ed avere un soggiorno in stile etnico, dove gli ampi spazi che avremmo ci permetterebbero di mettere in mezzo alla stanza quel lungo tavolino di legno chiaro, tutto rigato da venature profonde dove ci perdevamo anche solo a guardarle, cadendoci dentro: falle infinite nell'immensità di quel mare pieno di relitti e tesori nascosti.
Potremmo avere ogni giorno dei vicini diversi, con i quali ridere scherzare, giocare a giochi sempre più strani e sconosciuti, chini ricurvi sul basso tavolino da tea che avremmo in salotto. Le risate si sentirebbero fino in fondo alla strada del nostro quartiere, quello di quel giorno lì, quello dove avremmo deciso di andare ad abitare, almeno per ventiquattro ore, o anche più.
Ci sveglieremmo la mattina in un letto sempre nuovo, e tra le lenzuola il sonno ed i cuscini ci chiederemmo dove poter andare durante il giorno, quale casa aprire e quali finestre spalancare per far entrare un po' di aria buona, aria fresca, vernice fresca sulle pareti che deve ancora asciugarsi. Dipingeremo le camere di color albicocca, di color verde bottiglia, di celeste che si illumina al sole; appenderemo lampadari sui soffiti così leggeri che se caso mai ci cadessero addosso durante la notte richierebbero di svegliarci. E poi potremmo cambiare sempre di giorno in giorno gli allacci telefonici, gli interruttori con cui accendere e spegnere le luci, senza muoversi mai dai nostri posti. Potremmo ubriacarci con i matti e perdere le forze durante sere infinite, dove madri preoccupate verrebbero a presentarci figli strani.
Feste prolungate fino all'alba, chiudendoci dentro macchine parcheggiate ai bordi di locali appena inaugurati. Luci a perdersi in lontananza, dove i lampioni diventano sempre più radi ai bordi della strada. Questo sarebbe il buio dove non vorremmo mai svegliarci; questo è il buio attorno al quale costruiremmo mattone su mattone una cucina un salotto un bagno uno studio un disimpegno uno sgabuzzino. Questo è il buio attorno al quale costruiremmo una camera da letto.
Potremmo avere ogni giorno dei vicini diversi, con i quali ridere scherzare, giocare a giochi sempre più strani e sconosciuti, chini ricurvi sul basso tavolino da tea che avremmo in salotto. Le risate si sentirebbero fino in fondo alla strada del nostro quartiere, quello di quel giorno lì, quello dove avremmo deciso di andare ad abitare, almeno per ventiquattro ore, o anche più.
Ci sveglieremmo la mattina in un letto sempre nuovo, e tra le lenzuola il sonno ed i cuscini ci chiederemmo dove poter andare durante il giorno, quale casa aprire e quali finestre spalancare per far entrare un po' di aria buona, aria fresca, vernice fresca sulle pareti che deve ancora asciugarsi. Dipingeremo le camere di color albicocca, di color verde bottiglia, di celeste che si illumina al sole; appenderemo lampadari sui soffiti così leggeri che se caso mai ci cadessero addosso durante la notte richierebbero di svegliarci. E poi potremmo cambiare sempre di giorno in giorno gli allacci telefonici, gli interruttori con cui accendere e spegnere le luci, senza muoversi mai dai nostri posti. Potremmo ubriacarci con i matti e perdere le forze durante sere infinite, dove madri preoccupate verrebbero a presentarci figli strani.
Feste prolungate fino all'alba, chiudendoci dentro macchine parcheggiate ai bordi di locali appena inaugurati. Luci a perdersi in lontananza, dove i lampioni diventano sempre più radi ai bordi della strada. Questo sarebbe il buio dove non vorremmo mai svegliarci; questo è il buio attorno al quale costruiremmo mattone su mattone una cucina un salotto un bagno uno studio un disimpegno uno sgabuzzino. Questo è il buio attorno al quale costruiremmo una camera da letto.
martedì 9 marzo 2010
Sylvia
Ti ritrovi in barca, lungo le coste che cadono a picco nel mare, a discutere di problemi, di giri in bicicletta, di torte. Lui continua a remare spingendosi sempre più a largo e ti dice che non hai un soggetto, che in realtà ce l'hai ma che tu fai finta di niente, che ci giri intorno, non ti guardi dentro. E quando si accorge di essersi spinto troppo in là, quando si rende conto che la corrente vi sta allontando sempre di più dalla riva, e non importa quanto lui possa remare con forza ogni volta più deciso, è ormai troppo tardi per riuscire a far qualcosa.
La storia si concentra completamente, del tutto con anche a volte degli ottusi paraocchi, sulla storia con il marito Ted Hughes. Non c'è traccia della depressione o dei disturbi precedenti al loro incontro. Lo sfogo, l'estuario finale, sembra essere il risultato solo e soltanto di una grave forma di gelosia, magari autoindotta o inventata nella propria testa, della quale però non se ne sottolinea la colpa di un Daniel Craig con lo stesso sguardo e la stessa espressione di James Bond.
Da un film su Sylvia Plath mi sarei aspettato qualcosa di più, anche se Gwyneth Paltrow ci può pure credere, per l'amor di Dio, ma ne esce fuori un personaggio troppo semplicistico, non proprio di spessore.
lunedì 8 marzo 2010
venerdì 5 marzo 2010
Universo
Parlami dell'universo
di un codice stellare che morire non può
di anime in continuo mutamento
e abbracci nucleari estesi nell'immensità
dove tu mi stai aspettando adesso...
...dentro una vertigine che danza
e ci porta al di là del tempo
sino a ritornare sulle labbra
l'incanto è lo stesso
perchè niente è cambiato
anche se tutto è diverso.
Cantami dell'universo
di un codice stellare che mentire non può
cadono nel vuoto in un momento
miliardi di segnali
che accendono l'immensità
dove tu lo sai che poi mi perdo...
...dentro a una vertigine che danza
e ci porta al di là del tempo
fino a ritornare sulle labbra
l'incanto è lo stesso
perchè niente è cambiato
anche se tutto è diverso...
perchè niente è cambiato
anche se tutto sembra diverso...
miliardi di segnali che accendono l'immensità....
...dentro a una vertigine che danza
e ci porta al di là del tempo
fino a ritornare sulle labbra
l'incanto è lo stesso
e tu sei...
...dentro a una vertigine che danza
e ci porta al di là del tempo
...dentro a una vertigine che danza
e ci porta al di là del tempo...
di un codice stellare che morire non può
di anime in continuo mutamento
e abbracci nucleari estesi nell'immensità
dove tu mi stai aspettando adesso...
...dentro una vertigine che danza
e ci porta al di là del tempo
sino a ritornare sulle labbra
l'incanto è lo stesso
perchè niente è cambiato
anche se tutto è diverso.
Cantami dell'universo
di un codice stellare che mentire non può
cadono nel vuoto in un momento
miliardi di segnali
che accendono l'immensità
dove tu lo sai che poi mi perdo...
...dentro a una vertigine che danza
e ci porta al di là del tempo
fino a ritornare sulle labbra
l'incanto è lo stesso
perchè niente è cambiato
anche se tutto è diverso...
perchè niente è cambiato
anche se tutto sembra diverso...
miliardi di segnali che accendono l'immensità....
...dentro a una vertigine che danza
e ci porta al di là del tempo
fino a ritornare sulle labbra
l'incanto è lo stesso
e tu sei...
...dentro a una vertigine che danza
e ci porta al di là del tempo
...dentro a una vertigine che danza
e ci porta al di là del tempo...
Performed by Cristina Donà
giovedì 4 marzo 2010
Giulia non esce la sera
Lezioni di nuoto per chi sa stare a galla, partendo dai fondamentali. Prima la respirazione: è sempre stato quello il mio problema principale, ad ogni bracciata cerco di respirare quanta più aria possibile aprendo a dismisura la bocca nello spazio che mi spalanca il braccio poco prima di rituffarsi in acqua; poi i movimenti sincronizzati, braccia gambe, in modo da darsi la spinta e remare con le mani; infine porsi un obbiettivo: cinquanta vasche, poi smetto.
E' quando si arriverà a metà, a venticinque vasche, più o meno, ventiquattro, giuro, che ci si accorge di essere stanchi, con il fiato corto, ma ci si accorge anche per la prima volta che ci piace, e si riparte. Il problema è che nuotare in una piscina è del tutto diverso di nuotare nel mare. Lì l'acqua è più fredda, si hanno più timori a tuffarsi, per questo alla fine si rimane in spiaggia. Ed anche se non si ha paura, se si pensa di agire per il bene, non sempre avviene quel che si spera. Così può succedere che quello che per tanto si è tanto desiderato rigiri il coltello tra le proprie mani e non te lo porga più tenendolo per la lama, in segno di resa, un gesto di pace, un "abbandoniamo le armi", quanto invece con quella stessa lama sferri colpi e fendenti uno dietro l'altro, provocando ferite più profonde nell'animo che nel fisico, più atroci di quelle che magari hai commesso tu nei tuoi sbagli. Allora rimane solo il tempo di una piccola soddisfazione, il ritaglio di uno sfizio, prima silenzioso e represso davanti allo specchio di una realtà che vorresti tua ma che invece non ti appartiene, poi intera lunga tutta una notte, prima di partire o tornare, e non tornare più.
mercoledì 3 marzo 2010
Altai
Oltre le finestre aperte, il cielo è un incendio di porpora e oro.
Sono otto anni che non sento la sua voce, che ricostruisco il suo viso con ricordi ormai falsi.
Wu Ming
martedì 2 marzo 2010
Bastardi Senza Gloria
C'è chi dice che il buon Quentin si sia costruito la propria fama e il proprio potere attraverso tre ottimi film: Le Iene, Pulp Fiction, Jackie Brown. Dopo questi primi lampi, ormai entrato nell'Olimpo dei cineasti che si possono permettere di tutto e di più, ora si limita a fare i film che gli piace fare, vedi i due Kill Bill e pure questo Bastardi senza Gloria.
Al di là della realtà storica, dei difetti che potrebbero esserci e molto probabilmente ci sono, Tarantino sviluppa una pellicola, in nitrato d'argento, capace di tenere lo spettatore incollato alle immagini. Intreccia la storia saltando da un punto all'altro con tranquilla maestria, tessendo la vicenda dei bastardi e quella di Shosanna e quella del colonnello Landa e quella del soldato Zoller e dell'attrice tedesca Bridget Von Hammersmark, in modo tale da giungere al finale con tutte le linee chiuse e poter dire diretto alla telecamere e agli spettatori, con un po' di autocompiaceimento: questo potrebbe essere il mio capolavoro.
Che lo sia o meno è difficile dirlo. A tratti si vede un regista ancora legato ad una decisione difficile da prendere, se evolversi, cambiare registro o mantenere una formula ormai collaudata, che qua e là si intravede ancora. Per il resto si circonda di attori e amici, Brad Pitt da vedere in lingua originale, anche solo per le poche parole in italiano (accentuate dai doppiatori anche in fase di traduzione per sottolineare il cambio di registro tra italiano e siciliano) e una Diane Kruger la cui fama durante la campagna promozionale offuscava l'ottimo lavoro svolto dall'algida Mélanie Laurent.
lunedì 1 marzo 2010
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