martedì 9 marzo 2010
Sylvia
Ti ritrovi in barca, lungo le coste che cadono a picco nel mare, a discutere di problemi, di giri in bicicletta, di torte. Lui continua a remare spingendosi sempre più a largo e ti dice che non hai un soggetto, che in realtà ce l'hai ma che tu fai finta di niente, che ci giri intorno, non ti guardi dentro. E quando si accorge di essersi spinto troppo in là, quando si rende conto che la corrente vi sta allontando sempre di più dalla riva, e non importa quanto lui possa remare con forza ogni volta più deciso, è ormai troppo tardi per riuscire a far qualcosa.
La storia si concentra completamente, del tutto con anche a volte degli ottusi paraocchi, sulla storia con il marito Ted Hughes. Non c'è traccia della depressione o dei disturbi precedenti al loro incontro. Lo sfogo, l'estuario finale, sembra essere il risultato solo e soltanto di una grave forma di gelosia, magari autoindotta o inventata nella propria testa, della quale però non se ne sottolinea la colpa di un Daniel Craig con lo stesso sguardo e la stessa espressione di James Bond.
Da un film su Sylvia Plath mi sarei aspettato qualcosa di più, anche se Gwyneth Paltrow ci può pure credere, per l'amor di Dio, ma ne esce fuori un personaggio troppo semplicistico, non proprio di spessore.
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