Nel sogno eri arrabbiata, non mi volevi parlare. Almeno un attimo prima che mi svegliassi. All'inizio invece ti avvicinavi leggiadra, quasi muovendoti su onde di un mare sereno. Sorridevi, alzando quasi un poco la gonna con i pollici e gli indici a pizzicotti, su entrambi i lati, come se stessi facendo un inchino. Ci presentavamo perché ancora non ci conoscevamo. Strano, vero? Tornare distanti e poi sognare di incontrarci di nuovo, anche se poi, nella realtà, non ci siamo mai conosciuti davvero così in fondo.
Eravamo in un parco, per strada, in una casa. Non so. Il luogo era così offuscato, oppure più semplicemente non me lo ricordo. Di solito dei sogni io non ricordo niente. Li faccio, o spero di farli, almeno ogni sera - altrimenti sarebbe davvero triste, una notte intera senza sogni - ma la mattina non riesco mai a ricordarmi cosa abbia davvero sognato. Faccio fatica a differenziare i sogni, quelli veri, dai sogni miei, quelli fatti un attimo dopo avere spento la luce e chiuso gli occhi, in quel lasso di tempo durante il quale non sto ancora dormendo ma tutto il mio corpo è propenso a farlo, e con la testa, a cervello spento, cerco di pensare a quello che vorrei vivere durante la notte. Quelli sono i miei sogni, brevettati. Invece i sogni, quelli veri, sono un rimescolio continuo di immagini prese a caso dalla memoria, a breve o a lungo termine, a cui viene data la possibilità di movimento, di parola; sono un film psichedelico di cose mai accadute, unite le une alle altre da piccoli ponti di sottile casualità. Per questo forse ci sei finita tu dentro il mio sogno, uno dei pochi di cui abbia la possibilità di ricordare, e i nostri litigi, e i nostri momenti, e le nostre parole non dette ma espresse con gli occhi: il nostro tutto.
Quando mi sono svegliato tu eri seduta sul letto, a gambe incrociate, già vestita. Una canottiera gialla a pois bianchi ti scendeva dalle spalle arrivando a coprirti fino a metà coscia alta. Non sembravi avere altro, ma non posso dirlo con sicurezza. Avevo sonno, ero ancora mezzo addormentato. Tu invece sembravi esserti alzata già da qualche ora. Forse avevi fatto colazione, eri andata in bagno, ti eri lavata la faccia, i denti, le mani, camminando scalza per casa, con i tuoi piedi che per prenderti in giro definisco sempre arricciati all'insù; poi magari ti sei seduta sul letto, nella stessa posizione in cui ti ho trovata quando mi sono svegliato, e hai iniziato a guardarmi dormire. Mi hai fissato intensamente, così tanto che probabilmente è per questo motivo che ti ho sognata, mi sei entrata dentro il sogno con determinazione. Mi hai guardato, hai controllato se stessi ancora dormendo sul serio o se facessi solo finta, mi hai fatto le smorfie addosso, la linguaccia, da vicino, quasi faccia a faccia, per poi allontanarti quando hai capito che no, non stavo fingendo, stavo davvero dormendo. In questo modo mi hai aspettato, piegando un poco le gambe: te le sei abbracciate, non strette ma con le mani appoggiate sopra gli stinchi, lasciandoti lo spazio per respirare tranquilla.
Quando mi sono svegliato mi sei venuta incontro con la testa. Mi hai aiutato in qualche modo ad aprire gli occhi. Hai aspettato ti focalizzassi, mi hai dato il tempo per vederti i capelli caderti sulle spalle e abbracciarti il collo, incorniciarti la testa. Mi hai sorriso, hai detto: buongiorno.
Io avevo l'alito cattivo, i capelli arruffati dalla notte, la maglietta con la quale dormo tutta stropicciata e annodata attorno al petto, una posa scomposta e poco elegante: le mutande arricciate, le braccia e le gambe piegate in un'arrampicata dilettantesca sul cuscino e il materasso.
Buongiorno, ti ho detto, e mi hai sorriso. In quel momento non mi sono più ricordato per quale motivo avessimo litigato nel sogno. Lo potevo intuire, ma non me lo ricordavo. Sfiorandolo con le dita, con la mente, non riuscivo ad afferrarlo.
Chissà cosa avevi sognato tu, quella notte.
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