In un piccolo volume del 2006, La Letteratura dell’inesperienza,
Antonio Scurati rifletteva su quanto la società di plastica in cui
viviamo abbia sostituito l’esperienza diretta del mondo (com’è, per
antonomasia, quella vissuta da chi ha fatto la guerra) con una sorta di
cognizione del dolore indiretta, asettica, disinfettata e interrotta da
assidui diaframmi che sono prima di tutto gli schermi attraverso i quali
giunge a noi la realtà, a pillole, frammentata, amplificata e voltata
in evento per far fronte all’insufficienza del nostro presente: in
sostanza, cioè, esperiamo quotidianamente l’inesperienza; la quale non
solo crea una letteratura incapace di poggiare i piedi per terra, ma
genera un cortocircuito che impedisce di gettare ponti verso il passato e
verso il futuro. L’uomo finisce così per mancare, nel campo delle cose
narrabili, di quel copioso materiale che ebbero per la testa i nostri
nonni. Ed è ovviamente un problema letterario, sì, ma prima di tutto
psicologico e morale; è un buco nella coscienza, colmato talora, e
tragicamente, dal piombare furioso dell’evento eccezionale: un
terremoto, un’alluvione, un disastro della natura. E quando accade, gli
scrittori aggrediscono il caso anomalo e terribile, lo accerchiano e se
ne lasciano invadere come la terra riarsa accoglie il fortunale.
Così,
se l’uomo d’oggi è questo, incapace di dire la sofferenza, il freddo e
la paura, la letteratura percorre due vie soltanto: o rende manifesto,
quando riesce, l’handicap e, nel tentativo di superarlo, forza la
scrittura ad aprire il diaframma e a farsi denuncia e superamento dello
iato che ci separa dall’esperienza; oppure, in altri rari casi e
avvalendosi di un campo d’indagine inedito per le nostre coscienze
sopite, essa s’immerge nei brividi dolorosi provocati dalla vita quando
la vita si leva i guanti e ci tocca con le sue dita gelide e ossute.
Scrivere
intorno alle tragedie significa sfidare se stessi e il proprio tempo.
Lo hanno fatto, nell’ultimo lustro (quello dei terremoti dell’Aquila e
dell’Emilia, per arrivare all’alluvione di Senigallia del 3 maggio
scorso), diversi scrittori, più sovente attraverso volumi collettivi che
non con opere ‘in solitaria’: è il caso di E lieve sia la terra
(Textus edizioni, 2011), antologia di testi, a cura di Luca d’Ascanio,
dedicati alle persone scomparse il 6 aprile 2009 in Abruzzo; o dei 14
racconti attorno alla tragedia emiliana del maggio 2012, nel volume a
cura di Paolo Roversi, con introduzione di Loriano Macchiavelli, Scosse. Scrittori per il terremoto (Felici editore, 2012); o ancora, con un titolo che è un brivido onomatopeico, delle testimonianze raccolte in Tremaggio. L’alluvione di Senigallia nel racconto di otto scrittori
(a cura di Antonio Maddamma, con un testo di Massimo Cirri, Ventura
edizioni, 2014). E c’è anche chi, come Enrico Macioci, ha affrontato il
tema della terra che trema, ancora in Abruzzo, all’Aquila, con una
scrittura via via più sperimentale, da Terremoto (Terre di mezzo, 2010) al labirintico ed espressionistico La dissoluzione familiare (Indiana, 2012).
Sono
testi che, provando uno spettro di soluzioni che va dall’approccio
cronachistico a quello filosofico, dallo sguardo sociologico alla
stratificazione e trasfigurazione postmoderna, riattivano tutti, in
prima istanza, una sacra ispirazione che fu della letteratura d’ogni
tempo, e che forse nell’epoca dell’inesperienza ha cessato di
funzionare, o di funzionare bene: quella di dare forma all’informe o,
per dirla con Calvino, di “scegliere una strategia per affrontare
l’inaspettato senza essere distrutto”; o, ancora, di impartirci, con le
sue storie immutabili, con l’impossibilità di cambiare il destino che ai
personaggi letterari è riservato, la più grande e utile lezione di
vita, che è lezione “repressiva” – scriveva pochi anni fa Umberto Eco –,
di educazione al fato, alla sofferenza, alla morte. Tanto di più quando
si applica direttamente, e non per via teorica, a quegli oggetti della
coscienza.
Ma oltre a ciò, scrivere del dolore e della morte
(allorché il dolore e la morte sono veri, e non esercizio, seppur
onorevole, della fantasia) significa recuperare altre funzioni umane
spesso atrofizzate dalla piattezza delle nostre esistenze. La scrittura
del dolore non solo cerca di scardinare l’apatia, non solo dimostra la
lacerazione tra l’esperienza tragica e l’inesperienza diffusa, ma porta a
scoprire ancora il pudore, quello che c’era nelle sofferenze di una
volta, nelle guerre di un tempo, e che, come scriveva cent’anni fa
Antonio Baldini in Nostro Purgatorio, riduceva al confine delle
zone d’operazione quelli che la guerra non la facevano e non la
dovevano fare. Baldini sosteneva che non può esserci spazio per chi
guarda, perché era nel giusto solo chi la guerra la combatteva. La
nostra società – che ci sia o che non ci sia la guerra – è invece tutta
edificata sulla visione: forse vediamo troppo, ci è concesso di
vedere troppo, e il nostro sguardo morboso (quello che ha iniziato a
esercitarsi sulla morte in diretta di Alfredino Rampi) ha perduto
l’organica moralità che un tempo fu eccitata dagli ostacoli del pudore.
Un
compito della letteratura potrebbe essere allora – e la scrittura
attorno alle tragedie ne è un esempio – il rigetto della visione, e la
riconquista delle parole che fanno vedere, anch’esse, ma con
dignità. Senza clamori, senza spettacolo, in maniera nostalgica. Per
ottenere, infine, di avere ancora paura, e rispetto, per la nostra vita.
di Giacomo Verri
Trovato qui: Nazione Indiana
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