Alla fine della terza stagione di Girls, Hannah, la
protagonista interpretata da Lena Dunham, decide di abbandonare New York
per andare a studiare scrittura creativa alla Iowa University. Nota
bene: Hannah non punta a scrivere il Grande Romanzo Americano (con tutta
la tradizione di sottintesi che si porta dietro: una gara tra Maschi
Bianchi Morti e i loro omologhi viventi a chi ce l’ha più lungo), ma un
libro a metà tra memoir e il personal essay – immaginate qualcosa di
simile a Sheila Heiti o Joan Didion.
Ecco, se vi serviva una rappresentazione plastica del campo
letterario americano oggi, non potevate chiedere di meglio: da una parte
abbiamo New York City, le case editrici di Manhattan, gli anticipi a
sei cifre, gli agenti, le vendite all’estero, le feste in cui “non posso
andarmene se prima non conosco Mitchiko Kakutani”. Dall’altra le
università con i MFA (Master of Fine Arts) e i loro corsi e diplomi in
scrittura creativa – e prima fra tutte proprio Iowa, nelle cui classi di
creative writing passarono, come insegnanti, studenti o entrambi,
Cheever (ci insegnò un semestre) e Carver (che fu suo allievo), T.C.
Boyle, Marilynne Robinson, Michael Cunnigam e molti altri.
Ovviamente il racconto di queste “due città” non può essere così
semplicistico. MFA e NYC sono quelli che Bourdieu chiamerebbe
“sottocampi”: ma non serve aver letto il sociologo francese (anche se
aiuta) per intuire che le cose non sono così manichee come sembrano, e
che tra le due città ci sono traslochi continui, commerci, interi
quartieri condivisi, quando non veri e propri pendolari.
Per capire meglio come stanno le cose può essere utile un libro uscito da poco negli Stati Uniti, intitolato appunto MFA vs NYC
e curato da Chad Harbach per i tipi di n+1. E non a caso molti dei
contributi di questa antologia vengono proprio da autori che ruotano
intorno alla rivista n+1 (Keith Gessen, Elif Batuman, Emily Gould, lo
stesso Harbach): ma ci sono anche pezzi di David Foster Wallace, George
Saunders, Lorin Stein o Fredric Jameson, tutta gente che per accidente
biografico o interesse scientifico a un certo punto si è chiesta “Come
vive uno scrittore?”. Che è come dire “Di cosa vive una scrittore?”.
Le constatazioni da cui parte Harbach sono semplici: i programmi di
scrittura attivi nelle varie università del paese sono aumentati in
maniera esponenziale negli ultimi trent’anni (nel 1975 erano 79, oggi
sono 1269); questa espansione ha fatto sì che mai come oggi ci siano
degli scrittori dentro i campus e le università: un altro modo per dirla
è che l’insegnamento è diventata sempre più la fonte di reddito
principale per molti scrittori (a scapito, ad esempio, della
pubblicazione e della vendita dei loro libri). Gessen ne dà una bella
testimonianza nel suo contributo, intitolato giustamente Money:
il racconto di un anno di insegnamento alla Columbia dopo aver
dilapidato l’anticipo del suo primo romanzo e di cosa ciò ha comportato
per la sua scrittura ma anche, con tanto di estratti conto, per il suo
tenore di vita. Gessen chiude con le perplessità di chiunque si trova
per le mani un apparente paradosso: com’è possibile che la noia di un
lavoro retribuito e ad alto tasso burocratico abbia contribuito alla
serenità (economica e non solo) che serve per scrivere?
Del resto, molti se non la maggior parte di quelli che si iscrivono
per prendere un MFA in scrittura creativa non lo fanno per imparare a
scrivere, ma per trovare il tempo di scrivere, per sfuggire,
trasferendosi in un campus, alle distrazioni e alle nevrosi di una
grande città. E ai suoi affitti. E ancora: la maggior parte, se non la
totalità, delle cattedre in scrittura creativa sono occupate da gente
che vuole scrivere, non insegnare. Il risultato – come sottolinea
Wallace – è che “ogni minuto speso in attività didattiche e
dipartimentali è, per chi tiene i corsi del Programma, un minuto non
speso a lavorare alla propria arte, e questo suscita per forza di cose
un certo risentimento”. Finendo col far sentire gli allievi un peso: “è
anche chiaro, però, che sentirsi un peso, un ostacolo alla produzione
artistica reale, non contribuirà allo sviluppo dello studente e men che
meno al suo entusiasmo”.
D’altro canto i master in scrittura creativa – a differenza, ad
esempio di quelli in letteratura (e infatti i dipartimenti di inglese e
comparate sono sempre più in crisi) – sembrano rispondere a una
richiesta tipica della società contemporanea: come prolungare
l’adolescenza fino ai trent’anni e soddisfare la domanda di chi vede “la
creatività” come un proprio personale destino manifesto. Per quanto non
fu sempre così: negli anni Cinquanta proprio Iowa ricevette i
finanziamenti della Cia che vedeva nel Programma una sorta di risposta
del mondo libero alle accademie sovietiche e all’influenza socialista.
Se ne può leggere in The Program Era di Mark McGurl, un volume
che ripercorre la storia dell’insegnamento della scrittura creativa e i
suoi rapporti con la narrativa americana.
Ma al di là di questa genealogia da Guerra Fredda, l’idea è che la
contrapposizione “istituzionale” porti a delle ricadute estetiche: il
campo editoriale, leggi NYC, tende a incoraggiare il romanzo, ancora
meglio se prova a fare un grande affresco sociale, a scapito di altre
forme; mentre i corsi universitari trasformano il racconto in uno
strumento didattico, quando non, per i professori, in una pubblicazione
accademica buona per fare carriera all’interno del dipartimento.
Cambiano anche i pubblici: se lo scrittore da college si confronta
soprattutto con i pari, quello “professionista” si confronta col
mercato. Di qui le possibili accuse per gli uni di autorefernzialità, e
per gli altri di sottomettersi, magari inconsciamente, alle pressioni
verso il middlebrow di chi deve raggiungere un pubblico in gran parte
disinteressato a ciò che scrivi – d’altrocanto scrivere “per il mercato”
vuole anche dire fare i conti con quell’universalità che sembra sempre
meno la posta in gioco del letterario.
La “creatività”, dicevo. L’essere creativi, anche in quella peculiare
versione depotenziata che è il pensare che ciò che sento,“IO!”, sia
interessante per qualcuno, è in fondo l’oggetto del desiderio di questi
corsi. Ma quale “creatività” si insegna? Il saggio di Jameson (e quello
della Batuman) tenta di affrontare le mediazioni ideologiche con cui si
legittima l’insegnamento della scrittura creativa, e in particolare del
romanzo. In fondo, dice Jameson, se c’è una cosa che sembra impossibile
da insegnare è proprio il romanzo, genere aperto, inconcluso e mutante
per definizione.
Secondo Jameson è come se avessero preso il detto di Faulkner su ciò
che compone la vita di uno scrittore – esperienza, immaginazione,
osservazione – e l’avessero declinato nella loro versione: “scrivi di
ciò che sai” (col rischio di ripiegamento autobiografico e
confessionale); “trova la tua voce”: l’invenzione modernista dello stile
rivenduta come uso ossessivo e manierato della prima persona; “mostra
non raccontare”, il più ripetuto e travisato mantra da scuola di
scrittura è anche quello che in fondo è più legato a una tecnica e
quindi alla possibilità di insegnarla.
Ma l’università gioca uno strano ruolo in MFA vs NYC. Da una
parte è lo sfondo su cui tutto si gioca. Che tu lavori nell’editoria di
NYC o insegni in un MFA, molto probabilmente lo fai perché ti sei
laureato o hai preso un dottorato in un’università. Viene quindi
naturale chiedersi quale idea di letteratura si insegni oggi nelle
università statunitensi (e in quelle italiane), quali tipi di lettori si
formino, con quali gusti e valori. Dall’altra, l’università, o meglio
una sua parte, è la grande assente: la critica. È venuta meno la
funzione di mediazione tra i testi e i lettori che per lungo tempo ha
svolto la critica – sia quella strettamente accademica che quella
cosiddetta militante – così come sempre meno il critico è il compagno
segreto, lo sparring partner, dell’autore. Il perché questo sia successo
e se sia un male o no, è il tema di un altro libro.
In fondo di critici in Girls, io non ne ricordo.
di Francesco Guglieri
Trovato qui: Minima et Moralia
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