venerdì 31 luglio 2009

My Favourite Game

I don't know what you're looking for
You haven't found it baby that's for sure
You rip me up, you spread me all around
In the dust of the deed of time

And this is not a case of lust you see
It's not a matter of you versus me
It's fine the way you want on your own
But in the end it's always me alone

I'm losing my favourite game
You're losing your mind again
I'm losing my baby
Losing my favourite game

I only know what I've been working for
Another you so I could love you more
I really thought that I could take you there
But my experiment is not getting us anywhere

I had a vision I could turn you right
A stupid mission and a lethal fight
I should have seen it when my hope was new
My heart is black and my body is blue

And I'm losing my favourite game
You're losing your mind again
I'm losing my favourite game
You're losing your mind again
I'm losing my baby
Losing my favourite game

I'm losing my favourite game
You're losing your mind again
I try...

I'm losing my baby
You're losing a saviour and saint

Performed by The Cardignas

lunedì 27 luglio 2009

Il Curioso Caso di Benjamin Button


"Ti chiamerò Daisy."
"E io ti chiamerò Benjamin."
Viaggiamo sulla stessa autostrada, ma in carreggiate diverse. Possiamo incontrarci in un'area di servizio, mangiare qualcosa in un autogrill, innamorarci e scopare nei cessi sporci; ma poi dovremo riprendere il nostro viaggio, e il nostro viaggio procede in direzione opposte.
Prima di venir affetto da demenza infantile, primi sintomi di Alzheimer ad otto anni, rivedere quel volto stupendo dai capelli rossi di Cate Blanchett, e aspettare di nascere, o di morire, a seconda dei casi.
"Ti chiamerò Daisy."
"E io ti chiamerò Benjamin."
Ma in quell'autogrill faremo le stelle, avremo il cielo su cui danzare, e non ci sarà luna capace di offuscare la nostra esuberanza, o la felicità che non esauriremo. E anche dopo, una volta ripresa ognuno la propria strada: guardare lo specchietto retrovisore e vedere le spalle dell'altro allontanarsi; ma pensarsi e amarsi di continuo. Perché l'amore è un sentimento, e come qualsiasi sentimento prescinde dal corpo e dal fisico e dai confini materiali: lo spazio si annulla, e:
"Ti chiamerò Daisy."
"E io ti chiamerò Benjamin."

Giudizio: Dvd
  • Cinema ==> Da vedere assolutamente, correre al cinema
  • Dvd ==> Da vedere, ma si può aspettare il noleggio
  • Tv ==> Niente di esaltante, se proprio si deve vedere aspettare il passaggio in tv
  • Passeggiata ==> Perdibilissimo. Andate pure a fare una passeggiata.. anche sotto la pioggia

venerdì 24 luglio 2009

All I Know

Bite the thorn that pierced the skin
Come back down to Earth again
The cold is creeping deep inside
Disconnect the telephone line

Got to get away, got to get away, get away
Got to get away before the Lord calls me to stay
All that I know, should've been, could've been mine

I killed the last way out of this
Persuaded by a deceitful kiss

Said you better stay, said you better stay, better stay
Said you better stay before it's all gone, gone away
All that I know, should've been, could've been mine
And for all that I know
Should've been, could've been mine

Bite the thorn that pierced the skin
Come back down to Earth again
The cold is creeping deep inside
Disconnect the telephone line

Got to get away, got to get away, get away
Got to get away before I lose my mind
Said you better stay, said you better stay, better stay
Said you better stay before it's all gone, gone away
All that I know, should've been, could've been mine
And for all that I know
Should've been, could've been mine

Performed by Screaming Trees

giovedì 23 luglio 2009

Tu chiamami Peter


Per una volta il titolo in italiano è migliore dell'orginale. Si, perchè il nostro Tu chiamami Peter rende molto meglio del banale e scontato The Life and Death of Peter Sellers. Tra la miriade di personaggi in cui Peter Sellers era imprigionato, questo il significato che gli ho dato, io, personalmente: la scelta di farsi chiamare Peter.
"Chi sei? Clouseau? Hrundi V. Bakshi? Dottor Stranamore?"
"Tu chiamami Peter."
Da tutti questi Peter Sellers ne esce un personaggio tormentato, a tratti odioso, capace di giustificarsi in modo a volte pure sciocco. Il rapporto con la madre non madre contro la totale assenza del ruolo paterno; la fiducia e la speranza di poter sempre fare affidamento sulla prima moglie; l'odio, più dell'amore, nei confronti del ruolo che più l'ha reso famoso, e la non propria armonia con Blake Edwards.
Geoffrey Rush interpreta tutte le mille sfaccettature dell'attore e dell'uomo Peter Sellers, e anche oltre. Al suo fianco Emily Watson, più che Charlize Theron.

Giudizio: Dvd
  • Cinema ==> Da vedere assolutamente, correre al cinema
  • Dvd ==> Da vedere, ma si può aspettare il noleggio
  • Tv ==> Niente di esaltante, se proprio si deve vedere aspettare il passaggio in tv
  • Passeggiata ==> Perdibilissimo. Andate pure a fare una passeggiata.. anche sotto la pioggia

mercoledì 22 luglio 2009

Interprete

Quando mi metto a sedere non è la prima volta, ma la seconda. Lo capisco perché sono sdraiato, in una specie di rivisitazione cosciente di una memoria descrittiva della situazione generale. Lo capisco perché sento il morbido sotto la schiena, i cuscini rigonfi tra le cuciture e bolle come fossero gommapiuma ricoperta di pelle rossa sangue: non quello acceso dello splatter di finzione, ma quello scuro, caugulante, dal sapore reale come un taglio appena fatto. Lo capisco perché sono solo io a parlare: non c'è dialogo, solo la mia voce a riempire la stanza, a tagliare in due quella lama di luce che entra dalla finestra quadrettata. (La prima volta, non me la ricordo bene, devo ancora imprimerla a forza, non nella mente, ma sulla carta; ma quel che ho - brevi immagini sfocate e appena tratteggiate - dicono che io mi sedetti su una sedia dura, in posizione frontale rispetto a chi mi stava ascoltando, e non solo. Io parlavo, lui ascoltava, poi parlava lui, io ascoltavo. La differenza tra conversazione e monologo.)
Sento il sole farsi sempre più tenue, meno eccessivo, nascondersi dietro le linea disegnata dall'orizzonte. Di colpo mi trovo spostato da un punto all'altro, dal chiuso all'aperto, come se la casa in cui ero seduto mi fosse stata cancellata via tutto attorno; oppure fossero crollati i muri, in silenzio, e io non me ne fossi accorto. Ma da essere seduto mi trovo invece in piedi, chiuso dentro una giacca a pararmi dal freddo e dal non vento. Mi trovo nel parcheggio delle mie sere, con le persone che mi sciaquano l'aria contro, e io fermo immobile come una statua. Sento i polpastrelli chiudersi su superfici levigate, e il passaggio di un regalo da una mano all'altra si perde in una concezione del tempo non del tutto normale.
Le azioni prendono forma sotto ritagli indipendenti. Il loro legame viene snaturato del tutto, per poi essere di nuovo costruito ma sotto luci diverse: prima quelle dei lampioni - alte quasi a toccare il cielo, se tendo il collo all'indietro per guardare in alto le ginocchia si flettono e rischio di sdraiarmi in terra - poi quella della cucina, più diffusa nella stanza a far vedere oggetti che al buio non esisterebbero.
Il problema, quando mi siedo per la seconda volta, è che vedo troppa gente ridere, o sorridere. Devo trovare un modo, per cucire queste labbra in senso orrizzontale.

martedì 21 luglio 2009

La regina degli scacchi

More about La regina degli scacchi

Quando il mondo diventa chiuso, pillole verdi e orfanotrofi, tutto quanto si trasforma in scacchiera. Non importa chiudere gli occhi, non serve abbassare le palpebre: i pezzi si materializzano tridimensionali a pochi centimetri dalla mente. Spostarli diventa una necessità, non un vizio o un gioco, ma semplicemente come respirare. Ed è dura quando vuoi andare in apnea e trattenere il fiato per poter sforzare i polmoni; non riuscirci, sentire subito un palloncino gonfiarsi in petto.

Una conversazione, in fondo, è proprio come una partita a scacchi.

lunedì 20 luglio 2009

era già capitato non ti ritrovassi,e non dico al solito posto,sarebbe bastato,tanto per cominciare,un posto; io ci avrei messo la voglia,la fatica,l’energia,l’amore,la costanza che non ho,ma l’avrei inventata,avrei tirato fuori dal vaso,in balcone,tutti i buoni sentimenti che avevamo nascosto nell’ingenuità degli otto anni,perchè,mi sa tanto che,ora posso dirtelo,non mi senti,quelle due tre cazzate tipo la considerazione per gli altri,l’educazione,la gentilezza,l’altruismo,la fiducia,erano cose che ci sarebbero potute tornare utili,
e non ti avrei chiesto di rimontarti per me
te lo dico,piano,quasi lo sussurro,anzi,vigliacca come sono,te lo scrivo,dove non lo leggerai mai,perchè il coraggio di dirle a te,certe stronzate,credevo non l’avrei mai trovato,ma devo aver cercato nel vaso sbagliato,sai.
non ti avrei chiesto di rimontarti per me,stefano
non l’avrei fatto perchè mi hanno insegnato a 11anni che il suicidio non va contraddetto,e allora se c’era da restare,ogni volta che c’era da restare,a guardarti buttare nel cesso,vita,sogni,passioni,restavo per lo stesso motivo per cui da ragazzini quando ti tagliavi,o cadevi,o quella volta che ti sei rotto il dente,io piangevo e mamma il cerotto doveva metterlo anche a me.

# come quando fuori piove

venerdì 17 luglio 2009

As ugly as I seem

I am as ugly as I seem
Worse than all your dreams
Could ever make me out to be
And it makes me want to scream
When it's Halloween
And the kids are laughing

The rogue is a bank he's never broke
But worth as much as a joke
That no one is laughing at

Can you believe some things are not
Appealing and there's a spot
On the ceiling of my childhood bedroom

And could these dreams you can't imagine
But none of them matched the vision
That you had decided for me

You aren't to take away from me
Things that are mine and it's not your right
Out that you'd wouldn't expect to find out

Can it be that I don't want what you want?
And the only thing I could care for
Is a place in a home that is safe and warm
Safe and warm
Safe and warm
Safe and warm

Judge yourself if you feel the need
Just let me known to be
In search of the truth myself

There is a drop of blood on the ground
And it seems to me that it's not my kind
And I can't be sure if it's yours or mine

I am as ugly as I seem
Worse than all your dreams
Could ever make me

Could ever make me...
Could ever make me...
Could ever make me...

Performed by White Stripes

giovedì 16 luglio 2009

Il non

ho fatto tutto quanto pensavo di fare bene di fare per bene di non sbagliare di non essere cattivo oppure di non arrecare disturbo ed invece ora è così strano vederti qui non vederti qui e ripensare ai sorrisi che non sorridono più a quelli che si sono allargati nel prima nel dopo con le mille ipostesi e supposizioni e presunzioni di azioni e non azioni fatte e soprattutto non fatte fino all'inconscio nei meandri più oscuri e profondi della mente a ripensare a quello che forse non ho fatto e dove proprio possa stare il problema alle cose dette e soprattutto alle cose non dette ai motivi non dati e alle spiegazioni volute desiderate ardentemente ricercate tra scaffali di libri nelle librerie aperte la sera fino a tardi ad aspettare un segnale e girare tra le pagine a tuffarcisi dentro mentre il silenzio diventa così ampio e l'eco della mia voce dentro la mia testa nella punta delle mie dita si fa così prepotente da moltiplicarsi per mille trentamila settantaquattro milioni di miliardi di volte e rimbombare contro le pareti del mio stomaco che non accetta più nessun cibo che lo rivomita nello scarico del cesso o nel lavandino sporco del dentifricio della mattina della barba semi fatta con il rasoio ancora appoggiato sul piano quando mi sono fermato a guardarmi allo specchio e ho visto un'ombra corrermi dall'occhio destro all'occhio sinistro e la musica è cessata di colpo nello stacco di un momento improvviso mi sono ritrovato senza canzoni da ascoltare senza il volume a tenermi compagnia senza la voce e le corde e il suono di qualcuno a trattenermi ad anestetizzarmi perchè ho sempre pensato che se ascolto qualsiasi cosa abbastanza alta abbastanza rumorosa da farmi male fosse anche il pianto di un bambino il guaire sommesso di un cane in strada se lo ascolto con abbastanza violenza forse riuscirà a farmi venire un mal di testa abissale di quelli di cui non vedi la fine e ti sembra di vagare per un labirinto in quattro dimensioni così tante da non farmi pensare a te alle storie che mi faccio per colmare questo vuoto alle diramazioni degli alberi nei rami che sono il disegno della natura ricalcato su quello che faccio io per sorvolare al tuo non alla tua indifferenza al tuo improvviso distacco al tuo cocciuto non voler dare spiegazioni anche se io nel mio piccolo nel mio micromillimetro quadrato di spazio sfinito penso invece di meritarmele qualche spiegazioni non dico articolate o complesse o complicate con parole intrecciate tra capelli e maglie di lana da riporre ora nell'armadio ma almeno una semplice anche banale spiegazione oppure un affilato e appuntito vaffanculo. Ecco: almeno un vaffanculo credo di meritarmelo.

mercoledì 15 luglio 2009

L’immaginazione come strumento di comprensione

di JONATHAN SAFRAN FOER
[Testo della conferenza tenuta alla Scuola per librai Umberto e Elisabetta Mauri nel gennaio 2005]

1. Una formula vaga in un momento di disperazione
jonathansak-thumbHo comunicato il titolo di questa conferenza molto tempo prima che avessi la benché minima idea del tema del mio intervento. Era il 2 novembre, giorno dell’elezione del Presidente degli Stati Uniti. Vale a dire che la disperazione era nell’aria già prima di ricevere la telefonata con cui venivo informato che prima della fine di quella telefonata avrei dovuto trovare un titolo. «Un titolo per cosa?» ho domandato.
Mi trovavo in California. Ero appena tornato dopo un mese in Giappone – per il mio viaggio di nozze – e pativo il cambio di fuso orario, ero frastornato e ansioso di tornare nel mio letto, nella mia camera, in casa mia, e nella mia New York inossidabilmente pro-democratici. «È per la conferenza di Venezia» mi ha spiegato la mia agente. «Scusa un attimo…» le ho risposto, calando il secchio nel pozzo del mio cervello. Ma è tornato su vuoto. «Forse, se trovi una formula vaga…» mi ha suggerito lei.
Io ho calato di nuovo il secchio e mi sono ricordato – a proposito di chissà che – una poesia letta di recente, del poeta polacco Zbigniew Herbert. Uno dei versi diceva: «L’immaginazione è lo strumento della comprensione».
Lì per lì, il suo significato non mi era parso dei più chiari, ma avevo pensato che sarebbe stato interessante cercare di capirlo… una combinazione di elementi che lo rende, di fatto, un verso ben riuscito.
Tuttavia non ci avevo più pensato fino al 2 novembre. Al buio tutte le mucche sono nere e, in quel momento di disperazione, «L’immaginazione come strumento di comprensione» mi suonava come probabilmente inerente alla scienza e alla letteratura.
E poi, quanto a vaghezza, non scherzava.
Nel tempo trascorso da allora io sono cambiato, ed è cambiato il mondo. Quattro settimane in Giappone mi avevano aperto gli occhi non solo su cosa sia vivere in Giappone, ma anche su cosa sia vivere in America (ogni volta che faccio un viaggio, finisco sempre per sfruttare la distanza come un’occasione per visitare finalmente la mia città). Il Giappone mi ha ispirato pensieri differenti sulle ombre, sul trascorrere dei momenti e degli anni, e sulla sensibilità. E per ogni cambiamento di cui ho avuto coscienza, ce ne sono stati centomila di cui non mi sono reso conto.
In relazione al mondo c’è stata la rielezione di George Bush. Quindi buongiorno ombre, e addio sensibilità. Nei momenti e negli anni a venire, avremmo avuto tutti più attenzione alla politica. E per ogni cambiamento di cui avremmo avuto coscienza, saremmo stati ignari di altri centomila.
Partivo dall’idea che per controbilanciare un titolo vago e poetico come «L’immaginazione come strumento di comprensione» avrei dovuto scrivere delle cose erudite. Filosofiche. O almeno pseudo-filosofiche. Pensavo di snocciolare sentenze oracolari che non si sarebbero mai potute dimostrare veramente sbagliate. Ma non si entra mai due volte nello stesso fiume, ed essendo ora io una persona diversa, in un fiume diverso, è difficile non finire a parlare in una chiave personale, e politica.

2. Il peso sorprendente delle parti del corpo
Scienza e letteratura. Questo, apparentemente, sarebbe il tema della conferenza che sto tenendo, dallo stuzzicante titolo «L’immaginazione come strumento di comprensione». Devo ammettere che mi sento alquanto a disagio nel parlare di scienza e letteratura. Si tratta di due parole che spesso cominciano con la lettera maiuscola, come Arte e Morte. E usare parole che cominciano con la maiuscola quando ancora non hai i capelli grigi è una cosa avventata. In molti casi, è avventato usarle anche quando li hai, i capelli grigi. Le parole con la maiuscola sono pericolose perché, come i politici, non parlano soltanto a nome di se stesse.
La Letteratura con la maiuscola implica che si possano formulare frasi valide per tutte le opere di narrativa e poesia, per esempio: «la Letteratura è raccontare storie», oppure: «la Letteratura celebra la vita». Ma queste affermazioni non valgono per tutte le opere di narrativa e di poesia. Non è necessariamente valida neanche la più bonaria e generica delle definizioni, come «la Letteratura contiene parole». È difficile immaginare una verità che valga per tutta la Letteratura, ed è proprio da questo che la Letteratura viene tenuta viva: dalla perenne potenzialità, l’imperativo perenne di smentire le aspettative. Forse una verità sulla Letteratura è questa: che «sulla Letteratura non ci sono verità».
Ma il mio disagio verso il tema in questione ha origini più profonde della semantica. Dato che per un pelo io non sono diventato uno scienziato invece che uno scrittore, parlare di Scienza e Letteratura (o anche di scienza e di letteratura con la minuscola) mi costringe a rivedere quella decisione e a pensare dove mi trovo e dove avrei potuto trovarmi.
La mia quasi-vita di scienziato, culminata in seguito nell’ammissione alla facoltà di medicina, ebbe inizio ai tempi del liceo, un’estate in cui feci un internato nell’obitorio di un ospedale di Washington. Le mie mansioni quotidiane in pratica consistevano nel trasporto di parti amputate di corpi dalla sala operatoria al laboratorio di anatomia patologica (dove gli scienziati guardandole al microscopio stabilivano se si doveva togliere altra carne per liberare il corpo dalla malattia). Si trattava di un lavoro delicato.
Era anche un lavoro ripugnante. Un lavoro adatto a una persona diversa da me, che avevo sempre le scarpe slacciate e la mente errabonda.
Per ingannare il tempo spesso facevo un gioco, in cui, dovevo indovinare dal peso cosa ci fosse nel sacco che stavo trasportando: quindi verificavo leggendo l’etichetta. È sorprendente la differenza di densità che c’è fra certe parti del corpo e certe altre; come una cosa piccola, per esempio la nocca di una mano, possa pesare tanto, e altre più grosse, come un orecchio, non pesino praticamente nulla. Un intero sacchetto di orecchi pesa meno di una rotula.
Una volta, un sacchetto lo lasciai cadere. Non ero concentrato, o ero concentrato su qualcos’altro. Batté per terra con un lieve tonfo, e il mio primo pensiero fu: «Spero che non mi abbia visto nessuno». Per fortuna ero l’unico in tutto il corridoio. E per ancora più fortuna, il sacchetto non si era aperto, quindi nessuno se ne sarebbe mai accorto. Disastro scongiurato. Avevo scommesso che trasportavo un dito di un piede.
Quando lessi l’etichetta, prima di consegnare il sacchetto al patologo, vidi che si trattava di un occhio malato di AIDS.
Anche se alcuni miei eroi letterari avevano fatto il medico – da Bulgakov a Cechov a William Carlos Williams – conoscevo me stesso abbastanza bene per sapere che non sarei riuscito a destreggiarmi in entrambe le attività (anzi, sarei già stato fortunato a svolgerne una). Quindi feci una scelta, ed è per questo che sto tenendo questo discorso dal suggestivo titolo «L’immaginazione come strumento di comprensione» invece di sostituire qualche anca.
È inutile dire che la mia scelta non fu decisa dall’orgoglio che anima una coppia di genitori ebrei quando raccontano ad altri genitori ebrei cosa fa il loro figlio. In quel mondo, «mio figlio fa l’artista» non solleva sperticati consensi. Solitamente, suscita risposte del tipo «mi dispiace di sentirtelo dire» o «meno male che ha la salute altrimenti dovresti metterlo in contatto con mio figlio, lui è medico». Né, ovviamente, la scelta fu dovuta alle prospettive di carriera. Una vita sicura è molto più facile trovarla nel campo delle scienze che in quello letterario, e questa sproporzione con il tempo è aumentata. (C’è più gente che si ammala ogni giorno e sempre meno che legge.)
Ma non ho delineato questo sfondo per rappresentare un drammatico crocevia, ove mi toccò di contrapporre i miei opposti futuri nella scienza e nella letteratura. No, l’ho fatto per suggerire una convergenza. Non vissi quella scelta come una scelta netta, ma sottile. Dovevo decidermi tra due prospettive che, a dispetto delle ovvie differenze, non erano affatto diametralmente opposte. Io volevo passare la mia vita imparando di più sulla vita. Questo è il mio desiderio ancora oggi. Ed è di questo che la scienza e la letteratura, fra tutte le attività, si occupano nel modo più esplicito e diretto. Indagare ed esprimere cosa significhi essere uomini. Il che spiega perché la scienza e la letteratura (più che la tecnica bancaria piuttosto che l’arte militare o la stessa politica) sono indispensabili alla civiltà.
Purtroppo, un altro aspetto comune alla scienza e alla letteratura è che a causa delle recenti e minacciose intrusioni della religione nella vita politica americana, entrambe hanno un bisogno urgente di difensori, difensori con la stessa visibilità, la stessa risonanza vocale e forza che hanno i fondamentalisti.

3. Sogni belli in letti cattivi
La scienza cerca di descrivere il mondo con un’unità di misura che si possa applicare a tutte le cose. Il sogno di una teoria unificata di Einstein era spiegare l’universo servendosi solo di alcune lettere – e, m, g, c – che rientrassero in tutte le equazioni. L’universo era una sorta di composizione alfabetica a cui sarebbe potuto pervenire qualsiasi bambino lanciando in aria i suoi cubetti. (Ciò che distingue un genio da un bambino non è l’abilità di accorgersi d’avere di fronte un qualcosa di importante ma la conoscenza di essere davanti a una cosa importante.) Quello di Einstein era un bel sogno fatto nel letto sbagliato. Noi infatti possiamo vedere che la scienza non si cura dell’eleganza, né tanto meno della bellezza, e che il mondo funziona secondo probabilità disordinate. Dio si fa gioco dell’universo. Il fallimento di Einstein è stato estetico, non meno che scientifico. Avrebbe dovuto fare lo scrittore.
Al pari della scienza, la letteratura prova a dire il mondo servendosi di un sistema di misura applicabile a tutto, cioè le parole. (In questa analogia, i libri sono equazioni matematiche in cui le parole vengono combinate per esprimere delle verità.)
Se non che, qui la rappresentazione è di tipo emotivo. Uno scienziato definirebbe la mia enunciazione del sempre più misterioso titolo di questa conferenza – «L’immaginazione come strumento di comprensione» – in ragione dei centimetri tra la mia faccia e il microfono, i decibel della mia voce amplificata dagli altoparlanti, la mia temperatura corporea e così via.
Un romanziere userebbe altre strategie. Forse si installerebbe dentro di me. Potrebbe scrivere, più o meno: «Mentre pronuncio queste parole ricordo la mia infanzia, mi ricordo l’angoscia che provavo le sere in cui i miei genitori uscivano. Sapevo che mi sarei addormentato prima che rincasassero, ed era una sensazione atroce, quasi che non dovessero rincasare mai più. È così che mi sento mentre ascolto ciò che io stesso dico».
O forse si installerebbe in qualcuno del pubblico: «Da così tanto tempo sto seduto su questa sedia che non so più dove comincia la sedia e dove finisco io. È così che mi sento mentre ascolto questa conferenza». O ci sarebbe una terza persona onnisciente: «La donna in prima fila, per una qualche ragione, stava pensando a sua madre, e in particolare alle mani di sua madre. È questo, che provava». La descrizione potrebbe essere fatta da un numero infinito di prospettive, utilizzando un numero infinito di analogie e metafore.
La scienza e la letteratura raccontano storie.
La storia della scienza fa riferimento all’oggettività.
La storia della letteratura si rivolge all’empatia.
La scienza si interessa di corpi.
La letteratura si interessa di rapporti. Qui intendo dire molto di più di quello che accade fra i personaggi all’interno di un libro. Fra scrittore e lettore si crea una relazione, un’inevitabile co-autorialità. Un rapporto tra lettori. Una comunanza umana che, necessariamente, viene avvicinata da ogni parola scritta – anche quando sono parole piene di rabbia e di odio. La fisica dei quanta ci ha insegnato che osservare e sperimentare equivale a influenzare, mentre lo scopo della letteratura può essere descrivere che cosa è la vita e l’effetto è creare una discussione. I libri possono cambiare il mondo? È difficile rispondere sì, ed è difficile rispondere no. Ma forse esiste un modo differente di porre la domanda, affinché la risposta sia più chiara. Cioè: l’assenza dei libri cambierebbe il mondo? Potremmo essere in grado di vivere senza la descrizione, ma potremmo vivere senza la discussione?
Per avere un quadro completo, abbiamo bisogno sia della rappresentazione scientifica sia di quella letteraria. Non che occorra un poeta per progettare un ponte, o un ingegnere per scrivere poesia. È che la Scienza e Letteratura dipendono l’una dall’altra. E con modalità spesso troppo sottili per essere adeguatamente percepite, una cultura dipende dai suoi scienziati e dai suoi artisti anche in assenza di riscontri materiali. Spesso sono gli scienziati e gli artisti ai margini di una cultura quelli che recano più giovamento al centro della cultura stessa. Ed è per questo che l’attuale negligenza degli Stati Uniti non è solo deplorevole, ma destinata a sviluppi autodistruttivi.

4. L’immaginazione come strumento di comprensione
Abbiamo buone ragioni per credere che nei prossimi decenni l’America non sarà protagonista dei principali avanzamenti nei campi della scienza e della letteratura.
Mentre l’Europa ha già cominciato a indagare gli orizzonti della ricerca sulle cellule staminali, negli Stati Uniti i finanziamenti – anzi, la stessa legittimità della ricerca privata – sono stati negati dall’iniziativa della destra religiosa. Si tratta di un atteggiamento retrogrado, fondato su un’errata concezione di religiosità e progresso. È già emerso un nugolo di questioni di “etica della scienza” – dalla clonazione al diritto alla vita e alla morte – e altre ne emergeranno nei prossimi anni: decine, probabilmente centinaia di altre che adesso non immaginiamo nemmeno. Non possiamo permettere agli argomenti etici di diventare argomenti religiosi. La religione può avere un ruolo nella guida delle nostre vite ma non può avere un ruolo nella creazione delle leggi.
Anche la letteratura sta subendo un’aggressione e si tratta di un’aggressione molto più pericolosa perché molto più sottile. Qui gli avversari non sono solo il fondamentalismo e l’ignoranza, ma l’apatia e l’accondiscendenza. Spesso siamo proprio noi i nemici di noi stessi.
È inqualificabile che negli Stati Uniti le opere letterarie tradotte da lingue straniere ogni anno siano meno del 3% sul totale di quelle pubblicate. In tutti gli altri paesi del mondo le percentuali sono ben più elevate (dal 25 al 45%). Aggiungiamo che gran parte del 3% americano consiste di nuove traduzioni di classici, quindi lo spazio delle nuove voci straniere è in realtà molto minore. A nessuno sembra strano che io, autore americano, mi rivolga a un pubblico italiano, ma un cambiamento in direzione opposta potrebbe non essere impossibile da immaginare.
Al peggio non c’è fine. Il Patriot Act ha creato ostacoli volti a scoraggiare le nuove traduzioni, soprattutto nei confronti di paesi le cui voci hanno un disperato bisogno di farsi ascoltare. (L’America focalizza tutta la sua attenzione politica e militare sul Medio Oriente, ma quanti americani possono dire di avere letto una sola parola di letteratura araba in traduzione?) Come cittadino americano inorridisco al pensiero di un futuro in cui i rapporti con coloro con cui è necessario avere dei rapporti non saranno umani, ma diplomatici.
Una cultura esprime al meglio la propria umanità attraverso l’arte.
L’immaginazione è uno strumento di comprensione. Condividendo delle visioni – siano esse comiche, fantastiche, religiose; o quelle della tragedia, della satira, delle storie d’amore – condividiamo ciò che ci può unire nonostante gli abissi economici e tecnologici, malgrado la distanza nel tempo e nello spazio e, a volte, secoli di conflitti…
Mentre camminavo nei giardini del tempio di Tokofuji, a Kyoto, ho condiviso qualcosa di significativo con il suo architetto, che è vissuto più di mille anni prima della mia nascita, non parlava l’inglese e non ha dovuto vedersela con dei genitori ebrei o assistere ai reality show televisivi, o sapere chi era Amleto, o volare in aeroplano, o maneggiare le cerniere lampo o inviare e-mail o tirare lo sciacquone del bagno. A dispetto di tutte le ragioni per pensare che fossimo diversi, la sua arte ci aveva resi membri della stessa famiglia. La sua immaginazione è stata lo strumento della mia comprensione.
Come scrittore, so che se non parteciperò al dialogo fra culture – se sarò parlatore, ma non ascoltatore – le mie opere varranno di meno. Come la scienza, la letteratura dipende dagli esperimenti altrui. I progressi decisivi non vengono raggiunti tanto dagli individui, quando dagli ambienti (non è una coincidenza se le innovazioni tendono a presentarsi a gruppi). In questo senso, è un pessimo momento per essere uno scrittore americano.
O un lettore americano. A volte penso ai libri che non leggerò mai e che avrebbero cambiato la mia vita. Penso a tutta quella comprensione perduta. (Ci dev’essere una parola che indica questo mancato contatto. Può darsi che esista, in un’altra lingua…). E chi non vorrebbe avere più modelli? Chi non vorrebbe disporre di tutte le fonti di ispirazione possibili?
America è una parola con la lettera maiuscola. E come tutte le parole con la maiuscola parla a nome di molti, e nello stesso tempo non significa nulla. Quale verità si può dire di tutti gli americani? Che sono nati in America? No. Che vivono in America? È possibile immaginare degli americani che non ci sono mai stati, in America.
Così questa parola inizia a sembrare inutile. Ma come le altre parole con la lettera maiuscola – come Scienza e Letteratura – l’America è qualcosa che, anche nella sua imperscrutabilità, va difesa. E la sua difesa deve incominciare dalle persone come noi, perché gli esperimenti possono averla vinta sull’ignoranza, le storie possono farci superare l’isolamento e, che ci piaccia o no, siamo tutti americani.

lunedì 13 luglio 2009

Milk


A volte la sensazione la voglia il desiderio di vivere in un'altra epoca (storica, sociale), in un altro luogo, diverso dal nostro, prende chiunque e lo afferra alla gola, per il bavero della camicia, per il colletto della maglia, e lo attacca al muro, dove non puoi più scappare. Altre volte però vedere quello che non abbiamo vissuto, capire che il presente è l'evoluzione del passato, e che certe parti del passato ora non riusciresti mai e poi mai a comprenderle, fa venire voglia di rimanere ben saldi nell'adesso, non montare in nessuna DeLorean volante, o magari faci un viaggetto in avanti, non certo indietro. Discorsi da fantascienza in un film recentemente storico, con Sean Penn specchio negli atteggiamenti e un poco pure nel fisico; Emile Hirsch irriconoscibile dal viaggio nelle terre selvagge; un James Franco che con la permanente, e non solo, si allontana dall'amico di Peter Parker e veste i panni di una piacevole sorpresa. Non pretende di sorprendere, la fine è rivelata e mai nascosta, ma di documentare: un personaggio, un periodo, una corrente.

Giudizio: Dvd
  • Cinema ==> Da vedere assolutamente, correre al cinema
  • Dvd ==> Da vedere, ma si può aspettare il noleggio
  • Tv ==> Niente di esaltante, se proprio si deve vedere aspettare il passaggio in tv
  • Passeggiata ==> Perdibilissimo. Andate pure a fare una passeggiata.. anche sotto la pioggia

venerdì 10 luglio 2009

The Woman in You

Could've sworn I heard you say amen this morning,
showing some kind of sign that you believe
Did it fall from your tongue without warning
or just another trick to fall from your sleeve
Did I hear you say that you believe in angels?
I guess I bring the devil out in you
But we can both remove our halos
'cause even an angel needs love too
even an angel needs love too

The woman in you is the worry,
the worry in me
The woman in you is the worry,
the worry in me

Some things never change;
Some things never stay the same
But your so innocent, I'll take all the blame
How I hate to remember for that means the day is past
Sometimes I wonder if I know her or if I really need to ask
or if i really need to ask

The woman in you is the worry,
the worry in me
The woman in you is the worry,
the worry in me
The woman in you is the worry,
the worry in me
Woman...

Half-man walks with no shadow of life he utters his distaste
No apology is expected
Love carved sorry in his face
Love carved sorry in his face

The woman in you is the worry,
the worry in me
The woman in you is the worry,
the worry in me
The woman in you is the worry,
the worry in me
Woman...

Performed by Ben Harper

giovedì 9 luglio 2009

Le nostre corriere immaginarie

Venivi a svegliare tuo fratello e sussurravi parole corte a me: a due millimetri dalle mie orecchie, la tua bocca si muoveva al rallentatore con solo le tue labbra a riempire tutta la visuale. Era inverno, quello delle cioccolate calde nei rifugi sopra le piste da sci; quello degli occhiali scuri da pagliaccio e i cappelli avvolti attorno al collo. Poi era l'estate, quella dell'erba gialla sotto il sole fresco di montagna, quella delle partite a calcio con sconosciuti sudati e vocianti; quella del rinchiudersi nella sala giochi spenta, con i tuoi occhi a sfiorare il pavimento di legno, il sole che filtrava in quel seminterrato dalle finestre sottili appena sotto il soffitto. Era l'estate del nostro silenzio, dove la timidezza schiva che conoscevamo entrambi non ci faceva neppure toccare. Le notti insonni dentro la tenda costruita al posto del letto, passate a drogarci arrotolando le pagine del pasto nudo che stavamo mangiando con una lettura lenta e attenta; quei giorni che stiravo fino all'alba per cercare un modo nascosto per dirti tutto, senza la voce e con gli occhi chiusi. Disegnavo bottiglie di vino vuote con dentro ossa, passavo da una persona all'altra come se il fisico fosse un semplice vestito, e le vene, i muscoli, i tendini, le articolazioni, tutto quanto si potesse appendere ad una gruccia e aspettare il momento buono per indossare chi preferivi. E poi di nuovo inverno. Le nostre corriere immaginarie dove sedevamo accanto, guardando dai finestrini la neve iniziare ad accumularsi ai bordi della strada. Troppo presto per parlare, per immaginare parole da infilarci in bocca, anche se poi avevamo musica di sottofondo e nelle immagini ci vedevamo l'uno rivolto verso l'altra, intenti a discutere. Di tutte quelle chiacchierate io non mi ricordo che l'atmosfera, sognante e leggermente distaccata. E pensare che all'epoca non c'era neppure la nebbia a darci fastidio: era bel tempo e l'orizzonte bianco rimaneva saldo sotto di noi. Ci salutavamo con grazia senza farci male, senza dolore, senza alcun rito. Ci alzavamo da tavola andando via, mi alzavo da tavola e andavo verso un bosco dove ogni albero conduceva ad un mondo proprio. Mi alzavo da tavola ed un giorno ero in coma, mentre l'altro no, e tu venivi all'ospedale a trovarmi, un'ospedale bianco dove tutti i tubi che mi entravano in bocca e nel naso, dentro le braccia, non mi facevano male e non sentivo neppure. E tu piangevi, piangevi fino a ubriacarti gli occhi, seduta lì accanto, con la testa affondata sulle coperte del mio letto. E io disegnavo bottiglie di vino vuote. Ci mettevo dentro un osso come in quelle bottiglie dove si vedevano le navi antiche ricostruite dentro. Dipingevo cose strane per essere sicuro di non farti capire. E alla fine, alla fine non hai capito davvero.

mercoledì 8 luglio 2009

Rachel sta per sposarsi


C'è un'atmosfera sospesa, che galleggia nell'aria lenta ma allo stesso tempo non noiosa, come un fiume tranquillo che scorre senza scosse o cascate. C'è un matrimonio strano - aiutami a dire strano: S-T-R-A-N-O - dove tutti si ritrovano per qualche giorno e le diverse provenienze si azzerano e si mescolano e fanno confusione e fanno nascere qualcosa di nuovo, qualcosa di gioioso, fino a quando. C'è Anne Hathaway lontana miglia e miglia da tutti i film in cui si è soliti vederla, alle prese con un demone ben più grande, ben più grosso, affilato, che fa male quando ruggisce in silenzio e ti punzecchia costantemente con il suo strumento arroventato. Il diavolo veste senso di colpa: un abito invisibile da tenere nascosto, da non rivelare a nessuno e da coprire con la droga. Ma non è questa la vera polvere, non lasciatevi ingannare. C'è anche una sorella che sta per sposarsi, è Rachel che sta per sposarsi, ed è Rachel che dovrebbe avere l'attenzione, l'occhio di bue puntato addosso, solo per una settimana, solo per un breve periodo. C'è Rachel che esplode, che non ce la fa più, che litiga spilogosa e ferma, ma poi si riconcilia in nome dello spirito tra sorelle. C'è un padre divorziato e risposato che tiene i suoi incubi dietro ad una eccessiva iperattività. C'è una madre divorziata e distaccata che torna a fare la madre per un istante, uno scatto d'ira, quando ormai gli adulti non pensano più di essere figli di nessuno.
Ci sono anche altre cose in questo film, alcune riuscite, molte magari non molto; ma ciò che rimane al di là della storia, dell'atmosfera, dei personaggi e delle luci, è lo spirito di Anne Hathaway dentro il personaggio che si danna, si maledice, e non riesce a lavarsi, a strofinare via tutto quello sporco: un personaggio che sta in bilico, che a tratti è esuberate, a tratti è taciturno, a tratti solo e soltanto dolore.

Giudizio: Tv
  • Cinema ==> Da vedere assolutamente, correre al cinema
  • Dvd ==> Da vedere, ma si può aspettare il noleggio
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martedì 7 luglio 2009

Narrazioni

Procediamo con ordine. Si, ordine. Ordine, ordine, ordine: Morozzi, Bellocchio, Santoni. Ecco l'ordine.
Partiamo come cacciatori di soli, con la pioggia che scheggia il vetro, l'afa monsonica a forma di k pesante sopra la testa si appiccica uggiosa alla pelle, mi fa sudare i palmi delle mani. Guidare con il finestrino aperto, appoggiare l'avambraccio pronto come su una ghigliottina al contrario, tenere il pugno aperto, e lasciare che l'aria passi tra le dita. Morozzi, Bellocchio, Santoni. Passiamo il tempo a creare il caldo in bocca, generatore di casualità per le strade a destra e a sinistra di una ferrovia. Il passaggio a livello eternamente alzato, il suono di una campana non in lontananza ma vicina, mentre la febbre ci parla al telefono, con voce balbettante ci indicava la strada, quella giusta, quella che avevamo imboccato e dalla quale poi eravamo scappati. Morozzi, Bellocchio, Santoni. L'asfalto si fa sterrato, piccoli sassolini che non sono ghiaia rimbalzano via lontano dalle ruote, fino al parcheggio in una buca. Morozzi, Bellocchio, Santoni. Freno a mano, motore spento: Natalie stava cantando di migliaia di maniaci, salutava Kerouac, aveva la voce di Patti che già era stata quella di Bruce; ma non appena giro la chiave la sua voce si fa muta. Morozzi, Bellocchio, Santoni. Il tempo da piovoso si è fatto sereno: non fa caldo, non fa freddo, è solo leggermente medioevale. Il pavimento in grosse pietre marrone chiaro, il prato scapestrato in cui ci sono sedie, panchine, palchi. Morozzi, Bellocchio. No Santoni. Non ancora. Con ordine. Si, ordine. Ordine, ordine.
L'incontro è una conversanzione a due, lui-lei, nessun altro. Dopo aver raccontato la propria storia, l'ultima per lui, la prima per lei, si fanno domande a vicenda, si aprono, raccontano aneddoti, come costruire un qualcosa, il distacco tra autore e personaggio, la nascita, la genesi, il percorso di un personaggio, non solo il protagonista. Morozzi rimane per la sua parlata, sempre molto sorridente, la punteggiatura leggermente più lunga di quanto non. Una qualità, differenzia da altri. Bellocchio invece per la risata, per come le esce dalla bocca e dal suo trattenersi: vera, ecco come.
Poi tutto viene tranciato a metà. Non so se fosse così, ma poteva andare anche avanti. Al di là delle domande, del pubblico che si alza in piedi e prende il microfono. Invece si taglia, con cesoie piuttosto lunghe. Il tempo di spostarsi poco dopo l'ingresso, e l'ordine viene ristabilito. Si, ordine. Santoni, Santoni. In una piccola nicchia, con camicia arricciata, capelli in diagonale. La presentazione è più convenzionale: due microfoni di cui ne rimarrà soltanto uno. La presentatrice domanda, Santoni risponde, spiega, sviluppa. Ottima parlata, opinioni e idee non banali, unione tra Pazienza e Tondelli. Ci sarebbe ancora tempo per una scrittura industriale collettiva, ma l'orologio fa tic tac, le lancette procedono in avanti scivolando indietro. E' tempo di ripartire, è tempo di toranare al tempo moderno. Togliere il freno a mano, sentire Natalie cantare di nuovo, discutere, riavvolgere la strada su un gomitolo di lana e nero. Il pedaggio. E poi: Morozzi, Bellocchio, Santoni.

lunedì 6 luglio 2009

Ingorgo sonoro

Andiamo con ordine. Si, ordine. Ordine, ordine.
Ingorgo sonoro. Definisci ingorgo sonoro. Ingorgo sonoro sono N. discoteche a cielo aperto, per il clima, per la natura, sparse per il piccolo centro di un piccolo paese del Mugello. L'idea, originale, buona, ottima sotto molti punti di vista, sarebbe quella di piazzare in ogni piazza un tipo di musica diversa, in modo da creare un muro musicale compatto visto dall'alto, e differenziato visto in dettaglio. Peccato che poi, scendendo nei meandri, parcheggiando ai bordi di fiumi, tra ortica bassa e altre macchine, ci si avvicina a questo muro strisciando attraverso bancherelle ai lati, e via via la gente si fa più densa, la musica più alta. La strada inizia a salire leggermente, i ragazzi e le ragazzi prendono presto a strusciarsi gioco forza gli uni contro le altre, bere si fa di una difficoltà immensa, se non alzando il bicchiere verso il cielo e lasciarsi cadere in bocca una cascata volontaria, come pioggia mirata. L'ingorgo. La musica però è tutta uguale, non c'è variazione, su tema ogni banchetto ha colori e personaggi diversi, ma le note, no-te, no-note, rimangono le stesse. Le ragazzine si fanno strada a suon di bull-dozzer con i seni piccoli, andando a cercare le casse più basse, sputanti musica senza parole, ritmi scanditi da luci epilettiche.
Il paese intanto guarda affacciato alla finestra questo mare di persone ondeggianti con orecchie illuminate e passate da coniglio. Tireranno un sospiro? Sollievo per i giorni seguenti? A Pistoia un onda simile investe la città per tre giorni e sono giorni di accuasa dei residenti, occhi tappati sui commercianti. Vacanze invertite? Potremmo vedere la differenza di tre contro uno, di musica vera contro "musica", questa musica. Il centro contro l'ingorgo, il vero ingorgo.

venerdì 3 luglio 2009

Montesole

Voglio cantare l'uso della forza, che nasce dalla comprensione
La forza che contiene la distruzione

Una forza cosciente e serena, che sa sostenerne la pena
Capace di pietà, tenera di compassione

Capace di far fronte, avanzare
Capace di vittoria, di pacificazione

Canto la morte che muore, per la vita di necessità
Che rifugge il martirio, l'autodafe'

Non succube di ciò che si dice, di qua sull'aldilà
Potrà guardarlo in faccia per quello che è, quando arriverà

L'amore non cantarlo, ché si canta da se'
Più lo si invoca, meno ce n'è

Canto la vita, che quando è il suo tempo sa morire e muore
Canto la vita che piange, sa attraversare il dolore

Canto la vita che ride, felice d'un giorno di nebbia
Di sole, se cade la neve, canto la sorpresa nei gesti dell'amore

Canto chi mi ha preceduto, chi nascerà, chi è qui con me
Sono in questo spazio essenziale, un valore aggiunto

L'amore non cantarlo, ché si canta da se'
Più lo si invoca, meno ce n'è

L'amore non cantarlo, ché si canta da se'
Più lo si invoca, meno ce n'è

Canto la guerra, e so, non sono in buona compagnia
Canto la pace, che non è un mestiere né un'ideologia

Canto la libertà, difficile, mai data
Che va sempre difesa, sempre riconquistata

L'amore non lo canto, è un canto di per se'
Più lo si invoca, meno ce n'è

L'amore non lo canto, è un canto di per se'
Più lo si invoca, meno ce n'è

L'amore non lo canto, è un canto di per se'
Più lo si invoca, meno ce n'è

L'amore non lo canto, è un canto di per se'
Più lo si invoca, meno ce n'è

L'amore non lo canto, è un canto di per se'
Più lo si invoca, meno ce n'è

L'amore non lo canto, è un canto di per se'

Performed by PGR

giovedì 2 luglio 2009

Hotel World

More about Hotel World

Mi manca il fatto di avere un cuore. Mi manca il rumore che faceva, come riusciva a diffondere il calore, come riusciva a tenermi sveglia.

La felicità è quella cosa che ci rendiamo conto di provare un secondo prima che sia troppo tardi.

una cartolina antica con i colori di una vivacità finta.

Bene: una parola che non aveva fondo, che sprofondava in abissi che la gente che stava bene misurava, tanto per divertirsi, buttandoci delle monetine e poi affacciandosi con la testa sull'apertura della cavità con le mani dietro le orecchie per sentire il rumore della moneta che toccava la lontanissima superficie dell'acqua per poter poi esprimere un desiderio.

Quindi dopo tutto c'era una storia, da qualche parte, persistente, tesa fra questo posto e quello prima e quello dopo, e lei cercava di ricordarsela.

Per un istante Penny vide letteralmente l'infelicità, folta come velluto, sontuosa, drammatica e tirata come un sipario che stava per calare sulla testa della ragazza.

Ali Smith

mercoledì 1 luglio 2009

Giugno 2009


"Non sono sentimentale… sono romantico. Il fatto è che i sentimentali credono che le cose durino, i romantici, invece, hanno una fiducia disperata che non durino."

Francis Scott Fitzgerald