lunedì 31 maggio 2010

Lo Spazio Bianco


lo spazio bianco è un vuoto che si decide di lasciare tra un momento e un altro per prendere tempo e non soffermarsi troppo sulle cose che ti attanagliano e da cui non riesci ad uscirne via dalla morsa ma che in qualche modo devi comunque superare disincastrarsi dalle catene per poter andare avanti ed affrontare altri e altri problemi. mettiamo uno spazio bianco e poi vediamo: un attimo di sospensione, una pausa dal continuo.
ma è anche una gravidanza vista dall'esterno, senza calci durante la notte del bambino irrequieto, una lunga ed infinita ecografia tridimensionale che mette apprensione, perché quando una cosa la sia ha sotto gli occhi, costantemente, è più fragile di quando invece ancora non la si è vista e si può fingere sia ancora qualcosa di distaccato, separato da tutto quanto, quando invece, lo sappiamo bene, non lo è affatto; ma vederla lì, questa cosa, piccolina, quasi minuscola, anzitempo, non ti dà appunto il tempo di prepararti, psicologicamente soprattutto ma anche per quanto riguarda tutti i ritmi della tua stessa vita; e manca al contempo dello strappo che può dare un dolore improvviso, perché a differenza delle cose normali, dalla normale successione degli eventi, in un contesto del genere, in questo spazio bianco, ti trovi ad essere preparato, e vivi per questo in tensione, sempre pronta, sempre all'erta, con i nervi tesi, in attesa di uno strappo che speri non avvenga mai ma che temi ogni giorno, ed anche se a sera non avviene senti male uguale.
lo spazio bianco poi è margherita buy.

venerdì 28 maggio 2010

No Excuses

It's alright
There comes a time
Got no patience
To search for peace of mind

Laying' low
Want to take it slow
No more hiding
Or disguising truths I've sold

Everyday
Something hits me all so cold
Find me sittin' by myself
No excuses that I know

It's okay
Had a bad day
Hands are bruised from
Breaking rocks all day

Drained and blue
I bleed for you
You think it's funny
Well you're drowning in it too

Everyday
Something hits me all so cold
Find me sittin' by myself
No excuses that I know

Yeah, it's fine
We'll walk down the line
Leave our rain
A cold trade for warm sunshine

You're my friend
I will defend
And if we change
Well I love you anyway

Everyday
Something hits me all so cold
Find me sittin' by myself
No excuses that I know

Performed by Alice In Chains

giovedì 27 maggio 2010

Bondi e la dentatura di Elio Germano

Chissà se Javier Bardem ha un po' invidiato il nostro Elio Germano dopo la consegna del premio ex equo al festival di Cannes. Una volta sceso dal palco a lui lo attendevano i baci e gli abbracci di Penelope Cruz, mentre al suo collega romano le attenzioni del proprio ministro dei beni e delle attività culturali.
Eh si, proprio così: perché fare il ministro non significa soltanto presenziare, o non presenziare, a certe manifestazioni guarda caso culturali, ma bisogna anche saper prendersi cura di chi, in un certo senso fa ciò di cui tu sei il rappresentante. Perciò basta, smettiamola di lamentarci per gli eccessivi stipendi dei politici, perché tutti i soldi che guadagnano sono sudati e meritati fino all'ultimo centesimo. Bondi, ad esempio, si sveglia ogni mattina e deve ricordarsi magari di allacciare le scarpe a quel determinato cantante, comprare i corn flakes preferiti del tale attore, che magari non è neppure poi tanto famoso ma si sa: sono tutti come delle specie di figli e non ce n'è uno a cui si vuole più bene e uno a cui si vuole meno bene, a prescindere da quello che fanno e come lo fanno. Possono essere i più scapestrati dei ragazzi, combinare quanti più disastri possibili ed immaginabili, essere pure cacciati via da scuola, ma è inutile: il ministro Bondi gli vuole bene nonostante tutto.
Per questo Elio Germano, e tutti quanti noi, dovremmo essere orgogliosi di poter avere un ministro del calibro di Bondi, uno che come in questo caso si preoccupa pure dei denti del nostro attore. Forse ben prima del festival, o addirittura prima ancora che Germano iniziasse le riprese de La Nostra Vita, il ministro si era accorto di quanto poco perfetto fosse il sorriso di Elio. Un attore, quando riceve un premio così prestigioso come una palma d'oro, deve poter essere tranquillo di poter sorridere a quarantaquattro mila denti, mica quel sorriso poco accennato e tirato con le labbra sfoggiato da Germano in occasione dei vari photocall dopo la premiazione.
Per questo Bondi deve aver pensato che fosse necessario un bell'apparecchio correttivo, uno di quelli fissi, da tenere giorno e notte, in grado di aggiustare ogni dente ed arrivare all'evento in perfette condizioni. E siccome in Italia siamo sempre attenti a questi aspetti, Bondi aveva pensato pure ad un modello ben preciso di apparecchio. Memore magari dall'esperienza con il figlio Francesco il ministro ipotizzava quel particolare modello per il quale ogni dente viene abbellito da una specie di quadro metallico che ne controlla la crescita e la pendenza, perpendicolare a terra deve essere questa, e su tutti e quattro i canini, sia quelli dell'arcata superiore che su quelli dell'arcata inferiore, dei piccoli ganci sui quali applicare degli altrettanto piccoli elastici. In questo modo la mandibola non si aprirà troppo, trattenuta da questi elastici applicati per collegare il canino superiore destro al canino inferiore destro e il canino superiore sinistro al relativo canino inferiore sinistro, causando magari una crescita errata di tutta la dentatura. Che poi questo impedisca anche di alzare un po' la voce, o di urlare quando c'è da urlare, questo è solo un piccolo e trascurabile effetto collaterale. Vuoi mettere il non poter parlare con una perfetta dentatura? Un sorriso splendente, quasi lavato in lavastoviglie con il brillantante, può sopperire qualsiasi altra mancanza, e noi in Italia dovremmo saperlo purtroppo bene: un sorriso può fare miracoli anche quando gli si accosta accanto l'aggettivo paraculo.
Perciò ben vengano le attenzioni del buon ministro Bondi sul sorriso del nostro Elio Germano, che poi in fin dei conti l'apparecchio avrebbe potuto anche evitare quelle infelici uscite che l'attore ha avuto durante il discorso di ringraziamento. Il sorriso deve essere perfetto, deve apparire dritto, limpido, se poi i denti sono marci dentro questo non importa. L'importante è apparire impeccabili, ben vestiti, e già che c'era si poteva pure tagliare un po' quella barbetta incolta, no? Non dovrebbe essere così difficile, facciamo come a casa: non puliamo sul serio, mettiamo tutto sotto il tappeto. Tanto i nostri ospiti, così come i francesi o chiunque altro, sono tutti quanti ciechi, non si accorgono mica di quello che nascondiamo: no no.
Vabbè, poi ad essere proprio critici critici, se vogliamo esser pignoli e cercare il pelo nell'uovo, potremmo dire che se il buon ministro Bondi fosse andato a Cannes avrebbe potuto prendere da parte il figlioccio Elio Germano e fargli un discorsetto sul tempismo o il pisciare fuori dal vaso, che in Italia, cazzo, ci sono sempre tutti quegli schizzettini fastidiosi di pipì vicino al cesso.
"Vedi caro, capisco benissimo il tuo malessere, e guarda: non dico che non è legittimo, questo non lo dico anche se poi non dico il contrario, mi limito a rimanere in un limbo di non dichiarazioni. Ti vedo, cosa credi? anche quando non pensi di esser visto, quando imbratti i muri dei centri commerciali con atti vandalici da quattro soldi; ma a me questo non importa, chiudo un occhio, faccio finta di non vedere, perchè so che tu in fondo sei buono, e ti voglio bene. Però, vedi, il problema è ben altro. Tutti i tuoi discorsi sono legittimi, solo che sbagli il momento e il luogo in cui vuoi dirli. Non ti dico di non dire niente, di non urlare, sbraitare, sfogare la rabbia; ma fallo in altre circostanze, magari quando sei a casa, in cantina, con la lavatrice accesa mentre sta facendo la centrifuga: ecco, in quel momento lì puoi urlare quanto vuoi e dire qualsiasi cosa, anche quello che pensi. L'importante è che tu lo faccia quando nessuno ti sente."
Il problema però è che magari quando Bondi ha esternato al suo staff di non voler andare a Cannes per la famosa e pubblicizzata, e qui partano sorrisoni perfetti di circostanza, questione Draquilia qualcuno potrebbe anche averlo avvertito che c'era pure Elio Germano, mica solo Sabina Guzzanti, in concorso con il film di Daniele Luchetti. E lui purtroppo:
"Elio chi?"
Nel frattempo Javier Bardem si consola con Penelope Cruz; ma sotto sotto digrigna i denti per l'invidia. Addio bel sorriso.

mercoledì 26 maggio 2010

Un Piccolo Salto nel Futuro

lascia perdere la luna, lascia perdere il mare; lascia perdere la spiaggia, il tramonto, e la sera. abbiamo bevuto mangiato e parlato, questo conta: solo e soltanto. non importa della nave attraccata al fiume, quella nave sulla quale per salirci ci siamo puliti le scarpe senza togliercele, ed il cameriere ci ha invitati a seguirlo.
buonasera, buonasera. rispondiamo quasi in silenzio, senza esagerare. siamo pesci fuor d'acqua, siamo stranieri in terra straniera: abbiamo paura di sbagliare qualcosa, di fare un passo falso o di essere scoperti. non apparteniamo a questo mondo; ma mentre ci sediamo, avvicinandoci con la testa, ci diciamo: chi in realtà in fondo ci appartiene davvero, a questo mondo qua di eleganza sfrenata? forse il grassone che ride sputando mollichine di pane inzuppate di saliva, mezze masticate? oppure la bionda che ride svampita senza neppure sapere perché?
tranquillo. rilassati. siamo esploratori vestiti bene, ecco cosa siamo. non abbiamo la frusta, il cappello, il machete con il quale farci strada tra la giungla selvaggia, ma stiamo ugualmente cercando o studiando delle antiche civiltà indigene. mettila così: siamo scienziati che osservano osservano e annotano nei propri taccuini ogni singolo particolare, sia quest'ultimo stupido cretino o di interesse profondissimo. guarda, sbircia, come quando da bambini i nostri genitori ci mettevano a letto durante le loro feste, se feste si potevano chiamare i loro raduni notturni per parlare di cose da grandi, a cui noi non potevamo partecipare; così ci lasciavamo rimboccare le coperte, ricordi?, la mamma ci dava il bacio della buona notte sulla fronte e poi usciva dalla camera spegnendo la luce, per tornare in salotto a parlare con altre persone, magari la zia lo zio, o gli amici di amici o di entrambi: mamma papà e zio e zia; ma noi non dormivamo mica. ci alzavamo facendo attenzione a non fare rumore e con le orecchie tese appena fuori dalla porta accostata semi aperta della nostra stanza cercavamo di capire cosa diavolo si stessero dicendo di così segreto i nostri cari genitori. ricordi? facciamo finta di fare esattamente la stessa cosa con tutte le persone qui, quelle che a vederle, o anche a non vederle, pensiamo siano più a loro agio di noi. se vuoi possiamo chiudere gli occhi, stringerli forte forte ad annodare le ciglia, e far finta di non essere qui, di essere altrove, di trovarci in qualche luogo folle e straordinario dove non abbiamo tutta questa paura di sbagliare, di sporcare, di fare figure provinciali in una grande illuminata a festa metropoli di migliaia di abitanti.
così chiudiamo gli occhi e ci immergiamo nell'oscurità delle nostre palpebre abbassate, dove possiamo anche muoverci svogliati senza grazia od eleganza, far cadere tutto, distruggere preziosi soprammobili di cristallo: tanto che ci frega? ricostruiremo tutto.
ridiamo, e ridiamo così tanto da perdere quasi il fiato, camminiamo mano nella mano in questo luogo che è un non luogo, senza armadi, senza letti, senza alcun tipo di arredamento. neppure il paesaggio, dici te, esiste qua dentro. guarda lo sfondo: è nero. non c'è neppure la linea dell'orizzonte. potremmo camminare così mano nella mano in eterno senza mai arrivare alla fine di questo posto.
un po' come il mondo, dico io. potremmo viaggiare in lungo e in largo, visitare ogni singolo paese sviscerando le strade più piccole e piccolissime di tutte quante le città, frazioni, comuni e borghi; e continuare a camminare fino a quando le nostre suole non siano così consumate da camminare scalzi, ma andare avanti fino all'inverosimile, ogni giorno a cercare un percoso nuovo, sconosciuto; fino alla fine del mondo. e poi ancora oltre: prendere un missile e spararsi insieme nello spazio; abitare nelle stazioni orbitanti, nei satelliti per le telecomunicazioni; usare l'Hubble per cercare nuove destinazione e perderci tra le stelle.
sorridi. mi stringi forte. va bene anche il nero, dici. a riempirlo poi ci pensiamo noi.

martedì 25 maggio 2010

Tutto questo D'Artagnan di desideri che chiamiamo sentimenti

mi domando cosa altro si potrà fare se ancora non è stato fatto: saltellare ridacchiare far di conto chiacchierare. cosa conta? conta poco, giusto un soffio a cuor leggero di pesante c'è ben altro e di altro altro ancora si dovrà cominciare ad imparare a far di meno. meno più più e meno, addizioni di sottrazioni di speranze che son sogni son desideri, sono come i petali che si staccano pizzicando le margherite con la filastrocca sulle dita: mi ama non mi ama mi ama non mi ama ama ama chi ama altro ama l'altro mentre io mi tormento lo amo, con la lenza con le lenzuola, lo prendo all'amo con chi ama e gli punto contro il dito, glielo punto addosso, fosse quasi un fucile carico di cartucce di stampanti mal funzionanti, di quelle che stampano a comando ma stampan male stampano a righe tragicomiche orizzontali, segna tracce di bianco sporco tra le linee interlinee separate, una due tre parole e si perde il senso del discorso di perdono che sto battendo dentro la mia testa a suon di rumori e tormenti, che anche solo per scriver ciao la c è divisa in tre, mentre la i son più di un simbolo di codice morse, la a di ancona la a di altrove la a di ancora ancora ti prego ti scongiuro straziami violento di tutte le tue attenzioni, o la o di oppure prendimi opprimimi ornami come un origami fatto male tutto storto strappato e piegato a quadretti, dammi una o di ottenere qualche cosa sia pure piccola ma pur qualcosa, da poter cullare fosse questo il mio omonimo desiderio di te. fammi questo fammi quello quel che vuoi che io voglio che desideriamo assieme nel bene e nel male in prosperità ed in malattia finché morte non ci separi o la vita di qualcun altro intromesso nel mezzo a noi del cammin di nostra vita si inchiodi come un cuneo tra di noi separandoci le mani e slacciandoci via le scarpe con i nodi a fiocco come i bambini dell'asilo.
ti dicevo: lega più stretto, ancora più stretto, non aver paura di farmi male, io non sento niente e questo mi fa pensare che forse potremmo stringerci ancor di più e più forte ancora; fai un nodo, un doppio nodo, fai in modo che non si sciolga mai perché non ho soldi per comprare un nuovo cono con tutto il gelato sopra per aspettare che mi coli poi sulle mani rendendomele tutte quante appiccicose come quasi sono io. Lega, ti dicevo, lega che non voglio fermarmi a dover allacciarmi da solo tutte quante le stringhe di cui mi sono ricoperto il corpo.
ma tu rispondevi che non ce n'era bisogno, e come se invece c'era, cazzo!, il bisogno: c'è sempre un bisogno da annaffiare con acqua e vite, vino rosso da colorare di altri colori che poi sono i sorrisi seduti ad un tavolo mentre strizzi gli occhi per veder un poco a fuoco quando invece il fuoco arde dentro e le tue labbra, quelle tue labbra mie, si piegano verso l'altro cercando di toccare la fine delle sopracciglia. è stato quello forse l'attimo di un battito durante il quale tutto si è poi spento, perché i litigi dopo l'alcol son troppo forti, anche più del vento e del sentimento, le sbornie arrabbiate quando si vuole star con l'altro e l'altro non sei te, non son io, ma ancora e ancora altro, altro ancora; un'altro che si affaccia alla finestra e ci vede passare via non più mano nella mano ma soltanto così vicini passeggiare tra i vicoli maleasfaltati e stretti tra le case di qua e di là, destra e sinistra, senza marciapiedi su cui montare cavalcare i sogni, così che camminiamo in mezzo di strada per saziare quel briciolo di brandello di egocentrismo che ruota nel nostro petto in stile atomo geniale; si affaccia dalla finestra del secondo piano, questo altro che non sei te non sono io non siamo noi ma una cellula impazzita che pare staccarsi da tutto quanto per moltiplicarsi e moltiplicare l'aria; si affaccia e dice sbraita che c'è ancora posto, di non andare, non andare via.
quando ci fermiamo e ti guardo in faccia hai già gli occhi che son lontani; poco importa che ti dica che son stanco che voglio tornare a casa che voglio solo dormire e far passare il mal di testa e tutte queste mie stupide paranoie da coniuge tradito e infranto. è tardi, è troppo tardi, son le una e mezzo passate da mezz'ora, e tu sei già da lui, con lo sguardo con la mente, già sul suo letto, con le sue braccia abbracciate strette strette tra i tuoi abbracci di risposta ai suoi.

lunedì 24 maggio 2010

Ragioni per Vivere

More about Ragioni per vivere

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Il mio cuore – credevo si fermasse. Così ho preso la macchina e sono andata a cercare Dio. Ho superato due chiese con qualche auto parcheggiata davanti. Mi sono fermata alla terza perché non c’era nessuno.
Era pomeriggio presto, a metà settimana. Ho scelto una panca nella fila centrale. Episcopale o metodista, non aveva importanza. Era silenziosa come una chiesa.
Ho pensato a quel battito mancato, e ai successivi che si precipitavano a colmare il vuoto. Sono rimasta seduta – nel sublime abbraccio del silenzio e dei vetri istoriati – e ho ascoltato.

A casa posso fermarmi davanti alla portafinestra scorrevole e da lì, immersa nella luce, guardare il terrazzo. Sul terrazzo ci sono margherite e piante grasse dentro ciotole di terracotta. Una ciotola è vuota. È larga e poco profonda, ed è piena d’acqua come una vaschetta per gli uccelli.
La mia gatta sonnecchia nella fioriera sul davanzale. Ha il mento grigio incipriato dalla polvere iridescente che ricopre le ali delle farfalle. Se busso sul vetro non alza la tesa.
Non è il rumore della pappa.
Quando era ragazzina, sgattaiolavo fuori di notte. Rasentavo le siepi e mi fondevo con l’ombra degli alberi. Camminavo fino ad un cantiere vicino al lago. Prendevo una vasca per il cemento, la spingevo fino a riva e mi sedevo, come dentro una scodella. Mi davo la spinta con un remo rubato, e poi galleggiavo per ore, senza udire alcun suono.
La vaschetta per gli uccelli ha la forma di quella vasca.

Mi guardo le unghie nella luce cruda del bagno. La paura apparirà come un rilievo alla base. Ci vorranno un paio di settimane per riuscire a vederla.
Chiudo a chiave la porta e riempio al vasca.
In genere non è un suono percepibile. Il battito del cuore è una sensazione. Lo si avverte anche a riposo. A volte, di notte, lo senti pulsare nel cuscino. Ma so che esiste un luogo dove si può sentirlo ancora meglio.
Ecco come si fa. Si entra in una vasca piena d’acqua, adagio senza fretta. Ci si sdraia e si aspetta che la superficie sia perfettamente liscia. Poi si respira a fondo, si immerge la testa sott’acqua e si ascolta la giocosità del cuore.

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Holly e questo suo ex stanno lì seduti senza far niente, deprimendosi a vicenda. Conoscono i punti deboli e i difetti reciproci, e riescono a demoralizzarsi a vicenda in due decimi di secondo.
Holly dice che quegli incontri sono come i tramonti sulla spiaggia: una volta sparito il sole, la sabbia si raffredda velocemente. Allora sono come tanti altri momenti, che erano belli dieci minuti fa e adesso non contano più.

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Continuiamo a desiderare che le persone siano diverse.

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Io avevo il mio letto. Ci dormiva da sola, tranne le volte in cui avevamo bisogno: non di sesso, ma il sesso era il mezzo per soddisfare il bisogno.

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“Raccontami qualcosa che non mi dispiacerà dimenticare” mi disse. “Roba inutile, sennò lascia perdere.”
Cominciai. Le raccontai che gli insetti volano sotto la pioggia schivando ongi goccia, senza mai bagnarsi. Le raccontai che in America nessuno aveva mai posseduto un registratore a nastro prima di Bing Crosby. Le raccontai che la luna è a forma di banana: quando la vedi piena, è perché la stai guardando di fronte.

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“E poi?” chiese lei. “Hai qualcos’altro da raccontare?”
Oh, si.
Per lei avrei avuto sempre qualcos’altro da raccontare.
“Lo sai che la prima scimpanzé a cui hanno insegnato a parlare ha detto subito una bugia?”

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Dopo un terremoto, il telegiornale delle sei mostra un gruppo di bambini di prima elementare che, obbedendo alla maestra, gridano contro il cortile della scuola squarciato dalle scosse.
“Terra cattiva!” strillano, perché la rabbia è più forte della paura.

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Il mattino in cui la portarono al cimitero, quello dove è sepolto Al Jolson, mi iscrissi a un corso sulla “Paura di volare”.
“Qual è la tua più grande paura?” chiese l’istruttore, e io risposi: “Finire il corso e avere ancora paura.”

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Io pensavo che il presente fosse la cosa sicura. Nel futuro si può solo morire, pensavo; nel presente siamo sempre vivi.

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Quando l’acqua della piscina venne filtrata e riclorata, Grey salì sul trampolino con una tanica di benzina. Indossava una felpa col cappuccio e pantaloni abbinati con un cordino in vita. Si tuffò in acqua vestito, poi uscì dalla scaletta laterale. Era sera, e io avevo la macchina fotografica pronta.
Si spruzzò la benzina sui vestiti bagnati come se stesse innaffiando le piante. Disse che la stoffa bagnata avrebbe tenuto la benzina lontana dalla pelle.
Mi disse di immaginare il momento in cui avrebbe toccato l’acqua avvolto dalle fiamme, nell’imminente Notte della Piscina: una vera cannonata!
Poi tirò fuori l’accendino e si diede fuoco.

Fotografai tutto: la torcia umana, le spirali di fiamme che descrisse nell’aria, il sibilo della vita ritrovata quando l’acqua lo accolse.
Durò solo pochi secondi. Me era sembrato un rischio eccessivo, e glielo dissi.
Lui rispose: “Ma lì ho fatti vivere, quei secondi.”

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So che le case bruciano, e che bisognerebbe sapere cosa salvare prima che succeda. Non perché, nella foga del momento, tutto sembra ugualmente prezioso. Ma perché niente sembra valere lo sforzo, neppure la tua vita.

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La polizia e quelli del pronto intervento non cavano un ragno dal buco. La voce implorante del consorte non ottiene l’effetto sperato. La donna resta sul cornicione, ma minaccia, non ancora per molto.
Immagino che tocchi a me convincerla a scendere. Vedo la scena, che si svolge così.
Le parlo di un uomo di Bogotà. Era una persona ricca, un industriale che era stato rapito a scopo di estorsione. Non era un telefilm: la moglie non poteva telefonare alla banca e procurarsi un milione di dollari in ventiquattr’ore. Ci sarebbero voluti mesi. L’uomo era malato di cuore, e i rapitori dovevano tenerlo in vita.
Stai a sentire, dico alla donna sul cornicione. I sequestratori lo fecero smettere di fumare. Gli cambiarono la dieta e lo costrinsero a fare ginnastica tutti i giorni. Lo tennero così per circa tre mesi.
Una volta pagato il riscatto, l’uomo venne rilasciato e fu visitato da un medico: questi lo trovò in ottima salute. Racconto alla donna quello che disse il medico: il rapimento era la cosa migliore che potesse capitare a quell’uomo.

Forse non è una storia che convince la gente a scendere dai cornicioni. Ma la racconto pensando che la donna sul cornicione si farà una domanda, la stessa domanda che si fece l’uomo di Bogotà. Come facciamo a sapere che quello che ci succede non sia un bene?

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Credi di essere al sicuro, pensò il padre, ma è come credere di essere invisibile perché hai chiuso gli occhi.

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Ed ecco la cosa più eccitante della mia giovane vita: mi bacia.
E capisco che tutto questo tempo passato a non toccarci è stato come andare in spiaggia a bordo di una macchina con i finestrini chiusi, così poi l’acqua sembrerà molto più fredda.

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Voglio che tu sappia quello che a me sembra chiaro: che, se è vero che tutta la tua vita ti passa veloce davanti agli occhi quando stai per morire, è altrettanto vero che la tua vita comincia a correre quando sei pronta a sentirti veramente viva.

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Perché se siete come me, sapete che alcuni di noi non sono il mondo, alcuni di non sono i bambini, alcuni di non creeranno un giorno migliore (riferimento al testo della canzone We are the world, incisa per beneficenza nel 1985 dal supergruppo USA for Africa). Alcuni di noi soffrono in silenzio un male rumoroso. E questo è quanto ho da dire sulla paura.

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Ogni volta che vedi una bella donna, ricorda che qualcuno è stanco di lei, dicono gli uomini. E io so dove vanno, queste donne, con la loro stanca bellezza che qualcuno non desidera, queste donne che devono vivere come i pini bianchi dell’alta Sierra, lì da prima di Cristo, nutrititi chissà come dal vento di montagna.
Si dedicano agli animali, giorno dopo giorno, accarezzandoli dentro una gabbia e dicendo: “Come sta il cucciolo della mamma? Si sente solo il cucciolo della mamma?”
Le donne se ne vanno alla fine della giornata, fermandosi a domandare a un guardiano: “Andranno a stare in un bel posto?” E tornano dopo un giorno o due, chinandosi ad osservare un gatto con un occhio solo e chiedendo, come se intendessero adottarlo: “Come faccio a presentare un nuovo gatto al mio cane?”
Ma le adozioni sono rare: la cosa importante è che, quando si lasciano alle spalle le tenere creature che non le lascerebbero mai, le donne abbiano qualcuno da lasciare, sempre che abbiano donato loro il cuore.

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Non basta, dice, che una pillola la aiuti a superare la notte: in qualche modo deve anche superare il giorno.

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Vedo la mia faccia riflessa nel finestrino e guardo in faccia la triste verità: sono più bella quando nessuno mi osserva.

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Ho scritto lettere che sono un fiasco, ma ne ho scritte poche, credo, che sono una bugia.

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Come posso smettere, se estrarre suoni dal mio corpo e mostrarteli mi fa stare così bene? Questi suoni – questa lettera – sono il mio rossetto, la mia lingerie, i miei tacchi alti.

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Mi sono sforzata di vedere cose che non volevo vedere. La peggiore che abbia mai visto era un corpo senza testa. Allora ho capito che non mi dispiace vedere tutto, finché mi è dato di vedere tutto.

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Era spossante avere sempre due lavori: il tuo, più quello di essere in grado di svolgerlo.

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Normalmente le cose che gli altri trovano affascinanti nei nostri genitori – le bizzarrie, il provincialismo, le strane idee su tutto – sono proprio quelle che ci fanno venir voglia di metterli davanti al plotone d’esecuzione.

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Ciarla mi ha bisbigliato all’orecchio che se Jean-Paul Belmondo non fosse mai nato, Warren non avrebbe avuto una personalità.

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L’orologio che perdetti il giorno del nostri incontro era un orologio da pochi soldi, con dodici puntini di radio verde al posto dei numeri ma niente radio sulle lancette. Il fatto di saperlo non mi impediva di guardarmi il braccio al buio, dove riuscivo a scorgere l’orologio ma non l’ora.

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Proverei da diventare la donna che desideri senza neppure accorgermi che ci sto provando. Sta di fatto che sono a malapena la donna che sono.

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Ed è stata la prima volta che ho creduto a chi sostiene che si possa aiutare di più una persona ponendole la giusta domanda che fornendole la risposta.

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C’è una teoria della guarigione che si basa sul comportamento degli animali allo stato selvatico. Osservando gli animali sfuggiti per un pelo a un predatore, si è visto che si sdraiano e cominciano a tremare, e così facendo in qualche modo si liberano del trauma. Noi esseri umani, invece, lo assorbiamo, e il trauma non smaltito si insedia dentro di noi, dove produce una quantità di effetti e sintomi nocivi.

Amy Hempel

venerdì 21 maggio 2010

Needle And The Damage Done

I caught you knockin'
at my cellar door
I love you, baby,
can I have some more
Ooh, ooh, the damage done.

I hit the city and
I lost my band
I watched the needle
take another man
Gone, gone, the damage done.

I sing the song
because I love the man
I know that some
of you don't understand
Milk-blood
to keep from running out.

I've seen the needle
and the damage done
A little part of it in everyone
But every junkie's
like a settin' sun.

Performed by Neil Young

giovedì 20 maggio 2010

Tutta Colpa di Giuda


"Ti è mai capitato di innamorarti di un personaggio?"
Siamo seduti con le spalle appoggiate al muro sul letto del tuo appartamento, quello dove hai deciso di venire ad abitare di punto in bianco, adducendo una scusa qualsiasi per nasconderne il vero motivo.
Quando mi ci hai fatto entrare, ridendo, mi hai chiesto di non essere duro, di non criticarti aspramente per una scelta che, dici di saperlo, hai preso in modo impulsivo. Ti ho promesso di non essere duro, di non esserlo troppo, ed infatti non ti ho criticata anche se a prima vista più che un appartamento sembrava una vera e propria cella. All'inizio ti volevo giusto dire che stavi prendendo la faccenda troppo maledettamente sul serio, che ti stavi lasciando coinvolgere fin quasi al midollo, e questo non era un bene: non è mai bene quando ci si lascia immergere così velocemente nelle sabbie mobili. Non ti ho esposto tutti questi dubbi solo perché ho contato fino a dieci prima di farlo, e già quando sono arrivato a sette mi sono reso conto che magari non era da tutta questa storia della recita che ti eri fatta prendere troppo. E anche che magari eri solo stanca. Stanca sfinita.
"Innamorarsi mi pare una parola così grossa."
"Beh, si. Diciamo infatuarsi."
Fumiamo una sigaretta, una per uno. Lo facciamo sincronizzati alla perfezione, prima aspiri tu poi aspiro io, come in una di quelle danze che inventi lasciandoti prendere dall'ispirazione, forse solo per evitare in un modo o nell'altro di guardarci negli occhi mentre ci parliamo.
"Scusa ma anche così non capisco cosa intendi."
"Voglio dire: questa qua, questa dalla maglie a maniche corte, così come le camice, o dai pantaloni sempre larghi; questa qua non sei te, no? Eppure è strano perché certi aspetti non puoi certo fingerli, come ad esempio saper suonare la fisarmonica."
"Sono esperienze che si portano dentro al personaggio."
"Si lo so, ma proprio qui viene da domandarsi quanto ci sia di tuo e quanto invece ci sia del personaggio. E la cosa ancor più strana è che questo sia un film interpretato da carcerati, carcerati veri, che però per interpretare dei carcerati devono comunque in qualche modo recitare. I volti, le mani, tutto quanto a livello estetico può rappresentare la realtà della o delle prigioni, ma alla fin fine devono pur sempre seguire un copione, perseguire una storia comune. Non può essere verità al cento per cento, non può iniziare e finire con le riprese con camera a mano e le interviste ai protagonisti."
"Ci sono anche dei personaggi inventati o interpretati veramente."
"Certo, non lo metto in dubbio. Anzi: a volte sono così quadrati, spigolosi; stretti nei loro ruoli che infatti sembrano proprio finti. Ma non è questo ciò di cui volevo parlare."
"E di cosa volevi parlare? Di me? Del mio personaggio? Del personaggio del direttore? Di come avresti voluto esserci te al suo posto?"
"Siete calati i contesti che fanno si... situazioni vivibili, o per lo meno desiderabili: facilmente desiderabili da vivere."
"Tipo?"
"Tipo il primo bacio."
"Ogni primo bacio dovrebbe essere desiderabile di esser vissuto, non credi?"
"Si, ma ci sono momenti e momenti. Ad esempio quando avvicini la tua sedia alla sua."
"Ed è di questo che ti sei... ehm.. innamorato? Infatuato?"
"No. Perché in fondo tutta la storia è, diciamo, affascinante sotto il punto di vista del progetto: lo spettacolo, la messa in scena, lo studio, e gli attori utilizzati; ma non riesce a convincere del tutto. Quello che davvero affascina è la capacità del tuo personaggio di riuscire a ragionare sulle cose, sui concetti. Farsi un'opinione propria sui fatti, anche antichi o di nuovi testamenti. Leggere i vangeli per la prima volta e farsi delle idee proprie, senza essere inquinate da resti vari di infanzia catechizzata. Il riuscire a ragionare con la propria testa."
"Perché, tu non lo fai?"
"Forse. Ma forse non abbastanza."

mercoledì 19 maggio 2010

An Invisible Sign of My Own

adesso spiegami come si riesce a mettere in ordine i sentimenti, prima quelli più urgenti — come quando ti scappa forte la pipì e allora lasci a metà quello che stavi facendo, pazienza se poi perdi il filo e devi ricominciare da capo — o quelli più alti o più magri o più belli, e poi dietro tutti gli altri, in fila e senza spingere né fare i furbi, e dlin dlon, adesso serviamo la rabbia che mi riempie gli occhi di lacrime e dopo invece il mio bisogno di crollarti addosso di dormirti addosso di alzare il volume e sfilare gli occhiali da sole e viverti il resto delle mie giornate addosso.
l’altro giorno qualcuno accennava a qualcosa che costa come il bianco degli occhi, e hai già capito che sto per dirti che ho pensato a te dopo neanche un secondo, e che ormai ho le braccia pesanti per gli abbracci che non posso darti e che mi restano appiccicati addosso, e porca miseria c’è sempre troppa europa tra i piedi e tra i parchi e sui letti su cui sdraiamo la notte, e se sapessi scriverti una storia fatta come si deve, una con anche una fine e non solo passaggi a livello aperti e gole arrossate dal troppo volere, ecco allora che ti chiamerei e ti verserei la mia voce roca dentro alla cornetta, e ti porterei per mano dentro a un sonno di prime persone singolari e tempi verbali semplici, ti massaggerei e mescolerei e ti rimonterei a forma di sorriso.

la costa lungo l’azzurro dei tuoi occhi è il posto in cui vorrei mettere radici, e non è mica lo stesso colore del cielo o del lago e comunque, non ho ben capito, un bel giorno c’ho arenato il cuore contro e adesso son qui che spero nessuno mi trovi o mi venga a cercare, e butto a mare le parole perché non sanno disegnarti un contorno o darti un confine, e riempio i vuoti come mi viene o come mi riesce, disordinata com’è mio solito, e sorrido fuori fuoco come la bambina nella foto,
chiamandoti per nome
voltandomi a guardarti
e accelerando il giro di giostra col pensiero
per tornare a vederti
di nuovo


la ragazza dai capelli strani

martedì 18 maggio 2010

Un patto con il diavolo

c'è gente che si sdraia nuda sui tappeti rossi per strada che stupidamente altre persone della sua stessa razza hanno steso in onore e gloria a tutto il niente che individui di tale genere sono riusciti a fare: tirar fuori la fama da un bicchiere vuoto, o dal nulla, questa si che è magia prodigiosa, far volare le stelle in alto nello spazio o esplodere in centomila bombe atomiche trattenute dalla gravità di una galassia intera. e alzano le gambe al cielo, in posizioni che non si riesce a capire se non nell'atto volontario di far scalpore, come se il fine ultimo fosse solo far parlare di sé in qualsiasi modo, non importa ciò che fai o come lo fai, basta solo che gli altri ne parlino: anche la critica più negativa è un bene se può far diffondere la faccia, le gambe con sopra ricamati fiori steli petali intrecciati in disegni contorti quanto forse la stessa mente. autocelebriamo la magnifica intelligenza vuota di chi è riuscito a costruirsi da solo un vero e proprio culto di se stesso, con tanto di chiese moschee e riti religiosi, chiamando a raccolta altri ingenui seppur fanciulli facendo leva su ciò che di più basso può significare il clamore.
ave quindi, evviva evviva, a chi è capace di nascondere il significato mostrando un corpo che non è neppure il suo. altra magia da palloncini trasformati in galoppanti cavalli: privare agli occhi degli altri ciò che davvero è importante rinchiudendolo dentro un cassetto a forma di essere umano che nonostante tutto rimane pur sempre vuoto.
perché si vedono le cicatrici attraverso le quali si è deciso di far asportare via qualsiasi cosa, cuore cervello anima e passione. una specie di patto con il diavolo dove lui è seduto davanti ad una scrivania e tu invece sei sdraiato su un lettino ospedaliero, senza anestesia, pronto ad esser operato ma non in senso fisico quanto piuttosto nel più viscerale dei tuoi io. allora via: con le mani legate e i piedi stretti in funi annodate agli angoli del lettino, gli arti a formare una grande gigantesca X che segnava il punto dove scavare. ed il diavolo che apriva varchi attraverso la tua carne, incidendo la pelle in superficie con le sue zozze corna affusolate. potevi sentire lo stridere che faceva la punta sul tuo ventre, mentre un rivolo di sangue sottolineava il taglio che bruciava del peggior inferno tu avessi mai potuto immaginare. ma niente a confronto con il ravanare affannoso delle sue mani dalle unghie appuntite, che come si muovevano dentro di te non facevano altro che tranciar via nervi spezzando ogni condotto neuronale diretto al tuo cervello.
è stato per poco, vero? solo qualche minuto di lunga e lenta agonia che sembrava non aver mai fine. è dura quando si soffre con un significato che si evolve a potenza in ogni singolo secondo: cresce cresce cresce e non pare mai arrivare ad un soffitto, questo tremendo dolore che credevi già insopportabile dopo pochi istanti e che invece continua ad evolvere in forme sempre più spigolose e appuntite.
ma come dicevo immagino sia stato per poco, anche se sembrava eterno. giusto il tempo di tagliare via qualsiasi ponte che univa i tuoi sensi al tuo stesso cervello. poi è stato il buio, sia di vista che di udito che di tatto. niente più gusto in quel suo operarti maligno da sveglio. lo vedevi il diavolo mentre ghignando col suo sorriso infimo ad arco continuava il suo lavoro con meticolosa precisione, e tu, tu non sentivi assolutamente niente se non la sua voce dentro la tua testa che ti prometteva tutto ciò che sempre avevi desiderato e sognato. non ci saranno limiti a quelle che potrai fare ed ottenere, ripeteva: hai fatto bene ad affidarti alle mie sapienti mani.
anche oggi tieni in faccia un'espressione che non sa di niente: né gioia, se non falsa, né dolore, o paura. potresti fare tutto e ti potrebbero far qualsiasi cosa, senza minimamente sbatter ciglia o cambiare i lineamenti del tuo viso. è dura risalire a galla quando si è subito il peggior stupro di tutta quanta una vita, un'esistenza.

lunedì 17 maggio 2010

L'amore e non la sete

spiegami come fai, l'amore e non la sete, distinguere le emozioni, la pelle e i rettili che si posano su di esse. i colori tutti quanti, il giallo il verde il viola, l'arcobaleno dei tuoi pensieri. ubriacami di parole, quelle dolci, quelle dure, quelle lunghe e affusolate; quelle che escono dalla bocca come sospiri, tubi, nuvole e vapori vari. disegnami gli elenchi con i quali descriviamo il mondo, i punti uno ad uno di ogni singolo paesaggio. passami le matite, i pennarelli, i pastelli a cera, per riempire i contorni di fuoco, neve, gelo, caldo o freddo.
sono queste le mie ustioni, quelle che bruciano più di tutte, che fanno male e si infettano di aria, putride nell'aggrinzirsi di croste prima molli e poi solide ma leggere come un velo (nero): il non sapere mai, il dubitare sempre, l'incertezza di ogni passo, teso d'avanti a me ma anche quelli già camminati. non è la nebbia, o la messa a fuoco automatica, né le lenti degradate su degli occhi che non ne hanno affatto bisogno; è questa alternanza, spento acceso spento acceso acceso spento, un codice morse trattenuto a volte a stento ed altre ancora invece silenzioso tanto quasi quanto la neve.
c'erano due bambini, un maschio ed una femmina, che si divertivano a comunicare in questo modo tamburellando con le dita sulla parete che li separava; ma uno dei due era un vampiro, un vampiro vero. aveva venduto l'anima al diavolo e non solo: aveva patito le pene dell'inferno, era stato seviziato, torturato, maltrattato, scritto lettere, lo sai.
non voglio capire, o cercare di capire, chi è vampiro e chi no, mordere il collo e fermarsi solo a quello. lo so già, mi conosco ed è così che andrebbe la natura: senza freni, in discesa ripida. nessuno nel mondo reale non vietato ai minori si fermerebbe a due morsi piccoli sul collo. la giugulare sarebbe solo la partenza, per prendere energie, farsi forza per partire con la fame vera, sbranare ogni cosa, aprire torace e affondare la testa dentro fino in fondo: prosciugare qualsiasi spazio, ogni vena, anche le idee.
e non finirebbe certo lì. lo sai bene, lo so bene. macchiato ancora, sempre sporco, attenderei la notte per volare basso e continuare a mangiare bere, mordere sul serio. sarebbe una strage, con mille corpi stesi al suolo, inermi senza vita: un tappeto a coprir le strade, della pelle vuota con solo le ossa dentro, senza polpa. forse resteremmo solo io e te, alla fine, in questa città deserta, dopo notti e notti di tragedie, banchetti negli angoli dei parchi: non alla luna piena quanto piuttosto alla nostra solitudine.
quindi, prima di far morire persone su persone, pure amici conoscenti e parenti vari, ti prego: spiegami come fai, per evitare tutto questo.

giovedì 13 maggio 2010

Pure noi come il mondo/4

Salita in auto ringraziò Dio di aver insistito fino in fondo per andare con due macchine diverse. In quel momento voleva soltanto andarsene il più veloce possibile, mettere quanto più spazio tre lei e quell'agriturismo che avevano scelto insieme. Secondo i loro piani quella vacanza avrebbe dovuto essere un felice intervallo dalla solita quotidianità sveglia lavoro cena insieme e poi di nuovo letto; una parentesi fatta di coccole carezze e sesso sentito. Invece era stata semplicemente la fine: il rendersi conto di essersi esauriti, limitandosi ad essere una successione di gesti rituali.
Mentre percorreva con attenzione lo sterrato che dal parcheggio portava alla strada vera e propria, domandò a se stessa come avesse anche solo potuto pensare, o sperare, che una semplice manciata di giorni passati lontani dai loro soliti paesaggi potesse cambiare davvero qualcosa. Come se fossero gli edifici, i quartieri, le case alte e le case basse, o addirittura la città intera ad essere la vera cosa sbagliata fra loro. Cosa sarebbe poi successo una volta tornati ai panorami cui sul serio appartenevano? Scappare nella natura era stato solo un modo come un altro di scappare, punto.
E si domandò pure, anche se avrebbe giurato di non ritrovarsi mai a farlo, come fosse stato possibile passare dai colori caldi e sognanti dei primi tempi, quando ancora tutto era magia, poesia, al freddo grigio reale dove ogni cosa ha forme rigide e deve sottostare a precise leggi fisiche. Senza sapersi dare una risposta capì quanto male potesse fare capire quanto tanto fossero cambiati senza cambiare affatto.
Gli occhi le si bagnarono, offuscando la vista. E nel traffico inesistente del pomeriggio pianse lacrime di un dolore ancora dovuto soltanto allo strappo, forte brusco e repentino. Sarebbe stato diverso il dolore che avrebbe sentito nei giorni successivi: più sordo più asciutto, come un vuoto in espansione che le si sarebbe allargato dentro, nell'abbraccio della pleura; quando si sarebbe accorta che anche solo la semplice luce degli stop di un'auto in fila davanti a lei le avrebbe ricordato la luce che faceva il suo cellulare quando lui la chiamava. Quando si sarebbe accorta infine che la cura era più dolorosa della malattia.

mercoledì 12 maggio 2010

Pure noi come il mondo/3

Nel riallacciarsi la camicetta lei ebbe un fremito. Non era paura, neppure rimpianto. Era piuttosto un fremito di chiusura, anche se aveva problemi a definirlo in modo così preciso. Un bottone dopo l'altro dentro le asole, si accorse tutto ad un tratto per davvero che si stava allontanando da lui.
Le parve strano. Giusto pochi minuti prima lui l'aveva vista nuda, ancora una volta; ma in quel momento non aveva provato alcuna particolare sensazione. Era ancora normale. Quello stesso fremito di chiusura che sentiva mentre con il piede appoggiato al letto si risistemava le calze, mentre si rivestiva, non le aveva accarezzato la schiena quando, ancora del tutto nuda, si era chinata dandogli le spalle per raccogliere la biancheria appoggiata sulla sedia della camera. Essere rimasta con solo il reggiseno e nient'altro, da sola nella stessa stanza con lui, aveva ancora una certa dose di intimità. Una volta vestita quell'ultima porzione di confidenza, quell'esile brandello del loro rapporto, era sparito del tutto. Erano tornati due persone normali: lei una donna, lui un uomo.
Giorni dopo quella sarebbe stata l'immagine con la quale avrebbe poi visto a posteriori la loro relazione: lui ancora fermo davanti alla finestra, nudo e scalzo, con le braccia sciolte lungo i fianchi, l'espressione spenta, distaccata, come se gli occhi non fossero più collegati ai sentimenti; lei vicina al letto, vestita solo di poco per metà, a coprirsi i seni ma non il ventre, i capelli sciolti ondulati fino a toccare le spalle esili. Così vicini, indifesi, privi di qualsiasi protezione, ma pure così lontani e distaccati allo stesso tempo.
Vestiti. Disse lei con un’espressione che assomigliava molto ad un ordine, mentre metteva le proprie cose in valigia.
Perché? Trovò il coraggio di chiederle lui. Io non voglio andarmene. Io rimango qui. Il suo comportamento stava cominciando ad esser simile a quello di un bambino.
Sono sempre le ultime cose a rimanerti impresse, rispose lei senza guardarlo. Non voglio ricordarti in questo modo.
Ma quando lei si avvicinò alla porta, pronta per uscire e per lasciarlo definitivamente, lui era ancora alla finestra: il petto irsuto con i peli che cominciavano a tendere al grigio, le cosce massicce con i muscoli appena accennati, il pene moscio pendulo tra le gambe.
Chiuse gli occhi per un istante, per non mostrare niente, per tenersi tutto quanto solo per se stessa; o per cancellare quell’ultima immagine di lui, tristemente arreso. Addio, disse cercando di mantenere un'espressione decisa, con lo sguardo quadrato, i lineamenti rigidi.
Definisci addio. Disse lui sottovoce. Definisci addio. Disse di nuovo rivolto a lei.
Lei non rispose. Si limitò a guardarlo con compassione. Poi con passo veloce se ne andò lasciando la porta aperta.

martedì 11 maggio 2010

Pure noi come il mondo/2

C'era stato un tempo durante il quale lui e lei non si toccavano. Erano due punti distinti e distanti su una retta, una qualsiasi. Di tanto in tanto si sfioravano, durante le loro reciproche naturali rotazioni attorno al proprio asse; ma anche in quei momenti si sentivano comunque ben lontani.
Devi stare attenta alle parole, disse poi lui una sera.
Camminavano sul tardi per la strada deserta.
Cosa intendi per stare attenta? Chiese lei. E poi perché proprio alle parole?
Perché con le parole, rispose lui, si può dire quasi tutto.
Quasi tutto? Pensavo con le parole si potesse dire tutto.
A volte è vero. Fece lui. Altre invece no. Ad esempio: come fai a definire le parole senza usare altre parole?
Lei si fermò a guardarlo, mentre lui ancora intento nella sua spiegazione proseguiva poco più avanti: la testa china e le mani in movimento a cercare di dare una forma o un senso a quello che voleva dire.
Sorrise, luminosa come non lo era mai stata. Corse verso di lui e riprese: e come mai dovrei fare attenzione?
Perché le parole sono pericolose, fece lui, sono appuntite anche quando suonano tonde o delicate. Sono sempre pronte a ferirti.
Dici?
Lui si fermò proprio di fronte a lei. Erano arrivati ad un bivio, dopo il quale lei avrebbe proseguito diritto mentre lui avrebbe svoltato a destra. Era il momento di salutarsi.
Tu ora potresti dire che hai passato una bella serata. Potresti pure aggiungere che ti è piaciuta questa breve passeggiata che abbiamo fatto.
È vero, lo interruppe lei.
E queste sono parole buone, non dovrebbero far male. Invece una volta tornato a casa potrei accorgermi che sono mutate, che hanno cominciato a tirare fuori le unghie, come i gatti cattivi. Potrei ripensarci e credere che in fondo tu le abbia dette solo per circostanza, per buona educazione.
Non ebbe il tempo di dire nulla.
Per questo devi stare attenta alle parole. Ad usarle, o anche solo ad ascoltarle. Perché le parole possono dire tutto, e possono dire niente; dipende solo da che significato vuoi dargli, tu, in quel preciso momento.
Questo, balbettò lei con un filo di voce, questo è il motivo per cui dovrei stare attenta alle parole. Ma cosa intendevi quando hai detto che le parole possono dire quasi tutto.
Lui fece un sospiro.
Adesso, ora, potremo baciarci. Potrei prenderti la faccia tra le mani e avvicinarmi fino a toccare le tue labbra con le mie. E potrei anche descriverti ogni cosa, a partire dai nostri occhi chiusi, dall'inclinazione delle nostre teste; fino ad arrivare al momento in cui farei scivolare le dita sui tuoi capelli. Questo riuscirei a descriverlo con le parole; ma la sensazione morbida delle tue labbra, il bacio bagnato che ci scambieremmo, in tutta la sua natura, con quel misto di dolcezza e urgenza; sono questi momenti, queste sensazioni, che le parole non riescono a dire. Perché certe cose o le fai o non le dici.
Fece due passi all'indietro, sempre guardandola negli occhi, poi voltandosi si allontanò.
Quella fu la prima volta che non si baciarono.

lunedì 10 maggio 2010

Pure noi come il mondo/1

Spiegami il mondo, disse guardando fuori dalla finestra la coltre bianca di neve caduta in strada sui campi e su tutto il paesaggio fin oltre l'orizzonte. Sei bella, stupenda: meravigliosa; rispose lui disteso sul letto, le braccia le mani incrociate dietro la testa. Non parlarmi di me, si voltò di scatto lei, quasi arrabbiata. Sono stufa, annoiata, ne ho piene le scatole di tutte queste tue inutili sviolinate su di me. Dimmi degli alberi, dei fiori, delle api e del polline; spiegami il sole, il tramonto, le nuvole cariche di pioggia, quelle grigie e quelle bianche invece serene.
Potrei dirti che ogni singolo fiocco di neve caduto in questi freddi giorni è diverso da qualsiasi altro caduto in molti altri giorni freddi passati: per punte per stelle, per la forma dei cristalli che sembrano stirarsi dopo aver dormito in letargo per intere stagioni; disse lui alzandosi dal letto. Si mise a sedere tenendosi ritto il busto con le braccia allungate e puntate sul materasso disfatto. Potrei spiegarti come fanno i metereologi a cercare di capire che tempo farà domani o dopo domani o dopo domani ancora, anche fra una settimana; i calcoli precisi studiati per dire la minima e la massima su province città e regioni. Ma poi tutto questo che senso avrebbe, visto che poi alla fine dovrei pur sempre paragonare la neve a qualcosa. E quindi che cosa?
Non dirmi la pelle, sbuffò lei sfiorandosi un poco una guancia pallida con le dita. Non ce la faccio più, sono esausta. Sentì lo sforzo salirle la schiena, arrampicarsi usando una ad una le vertebre come scalini. Da dietro la stanchezza l'abbracciò con le braccia di lui. Chiuse gli occhi spossata, lasciando andare un leggero sospiro che appannò un poco il vetro della finestra. Tutto ad un tratto, con le palpebre abbassate, il paesaggio da bianco limpido solare divenne buio, nero più nero della pece; e spento: magnificamente spento.
È così che mi voglio sentire, pensò tra se: staccata. Spina, corrente, corde, fili. Tutto via.
Cosa c'è fuori? Chiese.
Fuori? Fece lui. Fuori c'è il mondo.
Ma io non lo vedo. Ho gli occhi chiusi. Dimmi com'è?
C'è un prato, innevato. Un albero lontano che si staglia solitario quasi all'orizzonte. Poi c'è la strada, oltre una siepe bassa, con le auto che sfrecciano veloci da una parte e dall'altra.
Vedi? Lo interruppe lei.
Lui sorrise, tranquillo, ignaro. Cosa?
Io sto tenendo gli occhi chiusi. È buio. Mi vedo le palpebre. Dovrei vedere me stessa, dentro. Ma non ci sono alberi, non ci sono prati, non ci sono macchine che passano, né macchine che stanno ferme immobili. C'è solo buio. Quindi non è possibile che tutto il mondo, il mondo intero, sia scomponibile in ogni sua parte, in una qualche singola parte di me.
Disse.
Si liberò dal suo abbraccio e si rivestì in silenzio, senza dire nessun'altra parola.

venerdì 7 maggio 2010

La Risposta

in fondo in fondo, resto sul fondo
e mi nascondo,
mille e non più mille bolle blu
e l’immortalità dell’anima
non è la mia tazza di teologia
ma spero veramente la Resurrezione della Carne
e alle tue domande la risposta è
che voglio te
voglio l’abbraccio di mia madre
voglio le corse col mio cane
voglio un’ora d’aria
e voglio anche un caffè
le parole sono mani
e le mie mani sono stanche
se anche uscissero dall’acqua
credo non le aiuteresti
voglio te

giù, restando giù
grattando il fondo delle tue domande
oltre i tuoi perché
io voglio te
voglio l’abbraccio di mia madre
voglio le corse col mio cane
voglio un’ora d’aria
e voglio anche un caffè
le parole sono sassi
e me li sono messi in tasca
come vuoi che riesca a dirti
quanto pesano i silenzi
voglio te

Performed by Virginiana Miller

giovedì 6 maggio 2010

Sonno

svegliarsi non è mai stato così difficile, con gli occhi abbottonati e gonfi che si chiudono in stile rettile, una palpebra in alto e una palpebra in basso a congiungersi nel mezzo; neppure quando abitavamo in tre nell'appartamento minuscolo alla periferia di Firenze, e passavamo la sera a parlare del futuro, del passato, dell'imperfetto e giocavamo con le virgole, la punteggiatura tutta, dopo che per cena avevamo mangiato solo dei secchi e duri cornflakes ritrovati nella credenza aperti da chissà quanto. quando dormivamo tutti e tre, uno abbracciato all'altro, nello stesso letto, nella stessa camera, d'inverno con il freddo fuori e il riscaldamento dentro che ci alitava addosso solo un poco, giusto un che di caldo: la mattina quando ci alzavamo avevamo i capelli spettinati, i pensieri ancora appiccicati addosso, i sogni, i nostri sogni, mezzi infranti nella notte mentre alcuni no, ancora vivi, tutti stretti avvinghiati lungo la colonna vertebrale, a succhiarne il midollo, a sentirsi sanguisughe della vita, i nostri sogni. per ritrovarci una volta persi di nuovo a sera, separati prima e poi uniti, di fronte casa, poco spostati a sinistra o a destra rispetto al portone d'ingresso che nascondeva le scale in marmo antico messo male; restavamo ancora e ancora, secondi minuti ore, con i sacchetti pure della spesa appesi alle mani cariche, la schiena appoggiata al muro per cercare di spostare la casa il più vicino al mare, prima di rientrare e vedere tutta la nostra confusione casalinga. quante parole abbiamo speso, più dei soldi più del tempo, più del sangue, in quei momenti di crepuscolo tra la sera e la notte, cercando di respirare l'odore della salsedine che dalla costa non riusciva a raggiungerci, per quanto si sforzasse, per quanto ci provasse, per quanto.
quelli si che eran giorni, se eran giorni perché mi pare di ricordare solo le notti di quel periodo, che facevano fatica ad iniziare, a svegliarsi si, stirarsi giù dal letto o dal materasso appoggiato in terra con solo un lenzuolo a coprirlo; ma mai come oggi, mai è successo fino a stamattina, da allora, chissà poi. perché di quei giorni andati, passati ai bordi con i treni che passavano anche di notte, sferraglianti tra i binari con i loro carichi di container, frenavano per rallentare ma non fermarsi, rispettare i cambi, svegliare noi dal dormiveglia, non ho che solo un semplice ricordo, di un sorriso, di un rosso acceso, delle guance tonde, di come si era scostato, questo ricordo, dal tavolo imbandito davanti al quale era seduto, e con felicità aveva si era voltato verso di noi, in quel giorno perso tra il calendario, incuneandosi nelle nostre teste passando dagli occhi e penetrando nella memoria. questo ricordo. di quei giorni, se eran giorni, ma non di questi.

mercoledì 5 maggio 2010

Una pazza stagione

così tanto sangue che scende e scende, insinuandosi nel caldo alla ricerca di ancor più caldo; perché è sangue ed il sangue è questo che fa: prova a scaldare anche il più freddo inverno, scorrendo tra le vene e intrecciandosi nel cuore, tra il cuore, in una ragnatela pulsante ad intervalli regolari, di ossigeno e anidride carbonica; evita a tutti di farci sentire freddo, di far ghiacciare le braccia, di tramortirle in rigido rigore.
è questo che vuoi sapere, cosa sia tutto questo sangue che cade dall'altro, da sopra di noi? puntano a questo tutte le tue appuntite domande stizzite? si, sei una ferita aperta, con lembi che si divaricano ad una velocità ancor più rapida delle tue gambe. non riesco a fermarlo, così rosso da farmi perdere ogni orientamento, da farmi dirottare da ogni strada, finire giù da scarpate alte metri e metri, per finire di nuovo ancora e ancora in eterno in quella tempesta di centinaia di venti impetuosi che sono le tue parole; e lo squarcio che trovo qui lungo il mio braccio steso: i lembi seghettati di ciò che eri sono ora le tue labbra, il morso che mi hai lasciato prima di andar via e fermare in modo magico il tempo, arrestandolo in quell'unico preciso istante, durante il quale noi due eravamo così vicini da sfiorarci la bocca, con il respiro trattenuto di palpiti spassionati. chi ha mai detto che tutto questo si sarebbe pulito da solo? che ogni cosa sarebbe passata, inosservata prima e senza peso importanza poi? tutte queste ferite riaffiorano sul mio corpo con delle lacrime che sanno di ferro, rosse quasi il cielo squartato di fuoco. ho ancora paura del freddo, così quasi quanto dei ricordi. vorrei sparare via entrambi lontano, farli schizzare fuori dalla pelle, dagli organi, da quegli intertizi di vuoto che dentro non possono esserci.
far si che la nostra sia una fontana zampillante di improbabili vene, arterie, sistemi empatici che si fermano all'unisono. la mia mano forse trema ma riuscirebbe ugualmente ad afferrare tutti i tuoi circuiti intrecciati ai miei e a portarli giù, giù in una cascata di risacca schiumosa.
galleggiando a fior d'acqua, una volta finita la discesa ripida di urla, adrenalina, impulsività, potremmo vedere il tempo passare davanti ai nostri occhi sotto forma di nuvole e stelle, e di nuovo cielo sereno tiepido o burrascoso. rivivere quella lunga infinita estate durante la quale ci siamo persi così tante volte nella pioggia da bagnarci fino alle ossa, da ammorbidirci i midolli e renderli zuppi di pensieri e speranze.
i sogni, sono i sogni che si incrinano come uno specchio rotto colpito in pieno da un sasso appuntito, o da parole dure che non possono più esser tirate indietro una volta dette, perché le parole non hanno un filo invisibile che permettono di farle arretrare e ritornare in bocca, giù fino allo stomaco dove sono nate. e solo io ricordo quell'estate piovosa, trascorsa lungo sentieri non battuti, con ai bordi alta erba dove ci nascondevamo dagli occhi più indiscreti? c'è qualcuno, qualcun altro, chiunque altro, che si ricordi di quell'estate di fate e gnomi, folletti e respiri magici che si coloravano di brillante polvere dorata. io ricordo e porto appresso tutti i sintomi di questo lungo, a tratti estenuante, ricordare: ogni giorno a cercare di salvare ogni tua immagine, ogni tua singola impercettibile espressione, dai tuoi occhi alle tue orecchie; e i sorrisi, larghi intensi e sentiti.
quando ci svegliavamo, la mattina presto con ancora l'aria ferma, immobile nel primo crepuscolo turchese. i letti stropicciati nelle lenzuola arrangiate la sera prima e stese via durante la notte. quando ci ritrovavamo sdraiati vicini, entrambi impauriti, sul grande tappeto in salotto: ci svegliavamo ed eravamo ancora giovani, pronti a cacciare qualsiasi preda, pronti a cacciarci in uno qualsiasi dei mille casini che ci si presentavano di fronte, uno meglio dell'altro. e mentre le nuvole da blu sfumavano in un arrabbiato grigio ricco di pioggia, ci rendevamo conto, in modo sempre più solido, reale, che quell'errore non sarebbe stata un semplice fase. perché le linee che uscivano dai tuoi occhi, durante quell'estate, puntavano in modo costante verso il tempo, e la luce filtrante da sotto la porta del bagno a pregare, con le mattonelle dure ficcate bene appoggiate sulla nuca non poteva mentire. ci domandavamo se anche la mattina dopo ci saremmo potuti svegliare di nuovo all'alba, con i rumori silenziosi della città lontana, attutiti dalla lontananza e dal fatto che noi, più del paesaggio e del luogo che ci abbracciava, ci stringeva, noi eravamo miglia e miglia lontani. ma quale sollievo era ogni volta, capire aprendo gli occhi che non era il tempo a fuggire, ma eravamo noi che fuggivamo dal tempo, scappando più veloce dei nostri pensieri, e di quelli che tu odiavi definire come sentimenti; ci svegliavamo ancora giovani.
sarebbero dovute passare altre e altre giornate martellanti, con spigoli duri affettati tra ciò che si è lasciato e ciò che si è disposti a stendere sotto il proprio corpo, o più semplicemente quanto si è disposti a mentire a se stessi, prima di potersi sedere uno di fronte all'altra e lasciarsi stritolare da urlanti isterie rotte come bicchieri piatti, lanciati verso il muro per sfogare rabbia, sete, pulsazioni irregolari; per aprire la diga che tratteneva tutte quante le nostre vene ingigantite alla base del collo, sulla fronte proprio a dividerla in due parti perfette.
avremmo dovuto sdraiarci sotto complessi macchinari medici, raggi x e tac ipertecnologiche, piuttosto che sopra quel finto tappeto persiano del soggiorno, per poter capire bene quali sarebbero state poi le bugie che saremmo stati capaci di dirci, e quanto sangue, di chi, sarebbe stato necessario per perdonarci sul serio, sciacquando via tutto il dolore auto indotto. alla fine i risultati sarebbero stati così chiari che avrei potuto capire anche da solo che quel sangue sarebbe stato così mio da essere alla fine il tuo, che ora pulsa pulsa verso l'unica direzione possibile: il basso. giù, giù; sempre più giù, in un gorgo che faccio fatica a credere, reale, vero: quelli sono i tuoi occhi, spalancati con la pupilla ancora rivolta verso di me. i tuoi occhi, fermi. le tue braccia, aperte. il tuo abbraccio, dinoccolato. il tuo sangue: sangue su sangue che scende, giù.

martedì 4 maggio 2010

La Sicurezza degli Oggetti

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Non sapevo cosa fosse un pazzo. Non sapevo che certe volte i pazzi non si distinguono dalle persone normali ed è proprio per questo che sono pazzi.

si sta mettendo altro mascara sugli occhi, così che le sopracciglia sembrano delle stecche di liquirizia.

Sono qui con un bloc-notes a scrivere cose che ho pensato e di cui ho cancellato il pensiero.

Sto cercando di trovare qualche parte di me stessa che sia veramente me stessa, una parte che sarei disposta a portare come un gioiello intorno al collo.

Penso ad un ladro. Arriverebbe sulla veranda, girerebbe la maniglia ed entrerebbe in casa mia. Prenderebbe delle cose: il televisore, il videoregistratore, l'argenteria, i miei gioielli, cose che ho raccolto in tutti questi anni, raccolto come simboli del mio matrimonio, cose che a volte sembrano che siano esse stesse il mio matrimonio.

Il cielo era piombato in quella sfumatura di azzurro dove tutto è immobile, l'attimo subito prima che faccia notte.

Mi stavo innamorando in una maniera che non aveva nienta a che vedere con l'amore.

Squittì all'incontrario e poi si fermò, e io rimasi lì bloccato con la mano su di lei, pensando a come attraversavo di continuo il confine fra gli abbienti e i non abbienti, fra i buoni e i cattivi, fra l'uomo e l'animale, e non c'era assolutamente niente che potessi fare per fermarmi.

A. M. Homes

domenica 2 maggio 2010

Aprile 2010


"Bastano i prodigi che tu sei
Contano i sapori che mi dai
Io ti giro intorno e ingoio fremiti
Io ti giro intorno senza limiti"

Marlene Kuntz

sabato 1 maggio 2010

Primo Maggio

Dunque: quel giorno la catturai al volo
discendente dall'alto come un soffio ultraterreno
e mi circonfuse di luce in un baleno,
come un santo, diosanto!, ma dalla testa al suolo.

E mi sembrava di sublimare
o almeno di uscirmene fuori dal normale.
Era davvero come dileguare:
collegai la spina e tutto diventò speciale.

Ero dentro la mia realtà
con un senso eccitato di morbida libertà
Ero dentro la mia realtà
e la vita nei pressi era solamente un'entità

Dunque quel giorno mi detti da fare:
sentivo che dovevo meritare quel dono.
Scrissi e riscrissi mirando all'unisono
che mi intonasse con il tremito sonoro

che mi faceva come sublimare
o almeno uscire fuori dal normale;
che era davvero come un tintinnare
di scosse gradite e dal ritmo un po' speciale.

Ero dentro la mia realtà
con un senso eccitato di morbida libertà.
Ero dentro la mia realtà
e la vita nei pressi era solamente un'entità.

Ma il giorno seguente non mi piaceva niente,
tranne una frase giocosa ed eloquente.

Diceva: "il lavoro debilita l'uomo"
"il lavoro debilita l'uomo"

Performed by Marlene Kuntz