mi sembra di vivere in un sogno ricorrente, uno di quelli che fai e rifai e fai di nuovo ancora e ancora una volta, sempre più spesso di sempre, sempre, ogni notte, ogni volta che appoggi la testa al cuscino, chiudi gli occhi, li chiudi abbassando le palpebre: ecco come fai. non è dormire, caso mai è una corsa; e ciò che forse ferisce di più, più ancora di un ago puntato ficcato dentro un occhio, è che in tutto questo mi sento maledettamente zoppo. più arranco mi affanno mi stanco, perdo terreno e non solo quello: fosse il male del tempo, sprecato ad accartocciare i minuti le ore le mezze giornate per non dire le giornate intere, neppure fossero carta straccia da buttare, gettare via: il tempo usato non si può riciclare, si brucia appena lo tocchi, si consuma più in fretta e facilmente dei sogni o delle false speranze. non sono i ricordi, quelli si che invecchiano ingiallendo ma non si spengono mai del tutto: affievoliscono pian piano, perdendo il sapore di lampi e lamponi che nei primi giorni passavi a riassaggiare leccandoti appena le labbra, ma mai appassiscono o diventano neri come lastre sparate a vuoto nel vuoto.
il tempo è forse la somma che non possiamo più correggere, che scriviamo sbagliando su un foglio che non tollera più cancellature con gomma o con penna; la risposta che diamo alzando la mano dal fondo dell'aula, parlando con la voce che balla traballa come un tavolo con le zampe discordi.
così i minuti passati, accanto di fianco o davanti, sono gli origami che facciamo costruendo castelli immaginari di carta, con il tempo che passiamo, rubiamo, agli altri e degli altri: non li possiamo neppure toccare, toccarci. abbiamo le mani troppo bagnate per non smembrarli disfarli slacciando i legami delicati della cellulosa che si unisce alla cellulosa e ai nostri rimpianti.
li collezioniamo, ecco cosa facciamo. ne abbiamo una casa piena, stracolma, con le pareti coperte dalla carta da parati disegnata con i nostri propositi. i palpiti, o le frasi appena accennate, morte in gola ancora prima di nascere, uscire tra i denti, lo sbattere della lingua sul palato, il mio il tuo quello di entrambi; i sospiri i respiri, le azioni interrotte come l'allungare una mano per stringerti in abbraccio subito arrese e ritratte ficcate con forza in tasca con i pugni serrati; ti dico non ti dico: contano più i nostri fantasmi, tutti quanti, che popolano i momenti dei nostri fatti non fatti. loro si stringono, si baciano, passeggiano per mano tenendosi la mano, parlando ridendo e facendo ogni cosa che noi a suo tempo abbiamo lasciato andare o abbiamo lasciato in disparte. c'è un paese intero di questi noi non veri, alternativi, che vivono in questo mondo pur appartenendo per sempre a mondi paralleli che solo a tratti sfioriamo prendendo una strada anziché un'altra nelle nostre singole private scelte.
la consolazione, che poco consola ma allieva soltanto un poco il dolore, è che non siamo eterni, costanti, e un giorno o quell'altro, chissà quando sarà e chi mai lo saprà, diventeremo pure noi fantasmi leggeri, e pesanti saranno al contrario gli abbracci o i baci che ci scambieremo.
mercoledì 30 giugno 2010
martedì 29 giugno 2010
Wise Up
Per imparare certe cose, per esempio, non devi sapere di starle imparando. Ci ripensi tempo dopo e ricordi quella passeggiata in riva al lago con la mano di tuo padre sulla spalla che ti spiega perché a volte è meglio dire no, e non te lo aspettavi certo quando sei uscita di casa sbattendo la porta e il cancello, correndo verso il pontile per fare perdere le tue tracce e restare per ore con le gambe penzoloni a guardare l’acqua blu e fumare sigarette e pensare di cercare di nuotare fino all’altra riva sapendo che la stanchezza ti avrebbe sorpresa a metà strada facendoti affondare. Non te ne accorgi neanche subito, di averle imparate, quelle cose, e credi che dirai di sì fino a quando non ti viene posta la domanda e il no ti sale alle labbra spontaneo, senza che tu abbia il tempo di pensarlo.
Per conoscere se stessi è la stessa cosa, ed è ancora più difficile perché, di noi stessi, conosciamo solo la teoria. In alcuni manuali – per il telefono o per il televisore – c’è una pagina a parte, una guida rapida all’utilizzo; è l’unica che viene letta, probabilmente, per il resto si finisce per andare a tentativi o ci si ritrova, dopo mesi o dopo anni, a cercare il manuale nei cassetti, sperando di non averlo gettato durante le pulizie di una qualche primavera. A me sembra di conoscermi allo stesso modo, so quali sono i miei tasti principali, le mie funzioni primarie – so accendermi e spegnermi l’interruttore; vorrei essermi letta la pagina dedicata alla risoluzione dei problemi, per quando non mi si ricarica la batteria o mi lampeggia qualcosa nella pancia.
Conosco la mia teoria ma poi vengo sopraffatta dalla vita e dalle eccezioni, e mi ritrovo a dover riconoscere la discrepanza tra la persona che mi penso di essere, quella che mi desidero di essere e quella che poi, alla fine, sono. E allora sono convinta di essermi letta gentile e invece mi capita di essere rude, sono convinta di essermi letta indifferente fino a quando non mi accorgo che mi importa. Credo di sapere che non commetterei mai un certo torto fino a quando la vita non mi persuade suadente che tutto è lecito, e io mi fido o fingo di fidarmi fino alla punizione della colpa.
Le cose si complicano ulteriormente quando mi ritrovo a dovere confrontare la mia teoria con la teoria degli altri, il mio manuale con il tuo manuale che ha una sezione che parla di me. Nel primo paragrafo ti spiega come prendermi, nel secondo paragrafo ti dice come tenermi, nel terzo come lasciarmi – nel quarto hai scritto le istruzioni per risolvere eventuali anomalie. Il tuo è un manuale non ufficiale e non autorizzato, l’hai scritto spingendomi pulsanti a tentativi, riavviandomi quando mi inceppavo, credendomi indistruttibile e distruttrice.
Meno male che ho imparato. Dico: no.
Madame Psychosis
Per conoscere se stessi è la stessa cosa, ed è ancora più difficile perché, di noi stessi, conosciamo solo la teoria. In alcuni manuali – per il telefono o per il televisore – c’è una pagina a parte, una guida rapida all’utilizzo; è l’unica che viene letta, probabilmente, per il resto si finisce per andare a tentativi o ci si ritrova, dopo mesi o dopo anni, a cercare il manuale nei cassetti, sperando di non averlo gettato durante le pulizie di una qualche primavera. A me sembra di conoscermi allo stesso modo, so quali sono i miei tasti principali, le mie funzioni primarie – so accendermi e spegnermi l’interruttore; vorrei essermi letta la pagina dedicata alla risoluzione dei problemi, per quando non mi si ricarica la batteria o mi lampeggia qualcosa nella pancia.
Conosco la mia teoria ma poi vengo sopraffatta dalla vita e dalle eccezioni, e mi ritrovo a dover riconoscere la discrepanza tra la persona che mi penso di essere, quella che mi desidero di essere e quella che poi, alla fine, sono. E allora sono convinta di essermi letta gentile e invece mi capita di essere rude, sono convinta di essermi letta indifferente fino a quando non mi accorgo che mi importa. Credo di sapere che non commetterei mai un certo torto fino a quando la vita non mi persuade suadente che tutto è lecito, e io mi fido o fingo di fidarmi fino alla punizione della colpa.
Le cose si complicano ulteriormente quando mi ritrovo a dovere confrontare la mia teoria con la teoria degli altri, il mio manuale con il tuo manuale che ha una sezione che parla di me. Nel primo paragrafo ti spiega come prendermi, nel secondo paragrafo ti dice come tenermi, nel terzo come lasciarmi – nel quarto hai scritto le istruzioni per risolvere eventuali anomalie. Il tuo è un manuale non ufficiale e non autorizzato, l’hai scritto spingendomi pulsanti a tentativi, riavviandomi quando mi inceppavo, credendomi indistruttibile e distruttrice.
Meno male che ho imparato. Dico: no.
Madame Psychosis
venerdì 25 giugno 2010
Farewell
E sorridevi e sapevi sorridere coi tuoi vent' anni portati così,
come si porta un maglione sformato su un paio di jeans;
come si sente la voglia di vivere
che scoppia un giorno e non spieghi il perchè:
un pensiero cullato o un amore che è nato e non sai che cos'è.
Giorni lunghi fra ieri e domani, giorni strani,
giorni a chiedersi tutto cos' era, vedersi ogni sera;
ogni sera passare su a prenderti con quel mio buffo montone orientale,
ogni sera là, a passo di danza, a salire le scale
e sentire i tuoi passi che arrivano, il ticchettare del tuo buonumore,
quando aprivi la porta il sorriso ogni volta mi entrava nel cuore.
Poi giù al bar dove ci si ritrova, nostra alcova,
era tanto potere parlarci, giocare a guardarci,
tra gli amici che ridono e suonano attorno ai tavoli pieni di vino,
religione del tirare tardi e aspettare mattino;
e una notte lasciasti portarti via, solo la nebbia e noi due in sentinella,
la città addormentata non era mai stata così tanto bella.
Era facile vivere allora ogni ora,
chitarre e lampi di storie fugaci, di amori rapaci,
e ogni notte inventarsi una fantasia da bravi figli dell' epoca nuova,
ogni notte sembravi chiamare la vita a una prova.
Ma stupiti e felici scoprimmo che era nato qualcosa più in fondo,
ci sembrava d' avere trovato la chiave segreta del mondo.
Non fu facile volersi bene, restare assieme
o pensare d' avere un domani e stare lontani;
tutti e due a immaginarsi: "Con chi sarà?" In ogni cosa un pensiero costante,
un ricordo lucente e durissimo come il diamante
e a ogni passo lasciare portarci via da un' emozione non piena, non colta:
rivedersi era come rinascere ancora una volta.
Ma ogni storia ha la stessa illusione, sua conclusione,
e il peccato fu creder speciale una storia normale.
Ora il tempo ci usura e ci stritola in ogni giorno che passa correndo,
sembra quasi che ironico scruti e ci guardi irridendo.
E davvero non siamo più quegli eroi pronti assieme a affrontare ogni impresa;
siamo come due foglie aggrappate su un ramo in attesa.
"The triangle tingles and the trumpet plays slow"...
Farewell, non pensarci e perdonami se ti ho portato via un poco d' estate
con qualcosa di fragile come le storie passate:
forse un tempo poteva commuoverti, ma ora è inutile credo, perchè
ogni volta che piangi e che ridi non piangi e non ridi con me...
come si porta un maglione sformato su un paio di jeans;
come si sente la voglia di vivere
che scoppia un giorno e non spieghi il perchè:
un pensiero cullato o un amore che è nato e non sai che cos'è.
Giorni lunghi fra ieri e domani, giorni strani,
giorni a chiedersi tutto cos' era, vedersi ogni sera;
ogni sera passare su a prenderti con quel mio buffo montone orientale,
ogni sera là, a passo di danza, a salire le scale
e sentire i tuoi passi che arrivano, il ticchettare del tuo buonumore,
quando aprivi la porta il sorriso ogni volta mi entrava nel cuore.
Poi giù al bar dove ci si ritrova, nostra alcova,
era tanto potere parlarci, giocare a guardarci,
tra gli amici che ridono e suonano attorno ai tavoli pieni di vino,
religione del tirare tardi e aspettare mattino;
e una notte lasciasti portarti via, solo la nebbia e noi due in sentinella,
la città addormentata non era mai stata così tanto bella.
Era facile vivere allora ogni ora,
chitarre e lampi di storie fugaci, di amori rapaci,
e ogni notte inventarsi una fantasia da bravi figli dell' epoca nuova,
ogni notte sembravi chiamare la vita a una prova.
Ma stupiti e felici scoprimmo che era nato qualcosa più in fondo,
ci sembrava d' avere trovato la chiave segreta del mondo.
Non fu facile volersi bene, restare assieme
o pensare d' avere un domani e stare lontani;
tutti e due a immaginarsi: "Con chi sarà?" In ogni cosa un pensiero costante,
un ricordo lucente e durissimo come il diamante
e a ogni passo lasciare portarci via da un' emozione non piena, non colta:
rivedersi era come rinascere ancora una volta.
Ma ogni storia ha la stessa illusione, sua conclusione,
e il peccato fu creder speciale una storia normale.
Ora il tempo ci usura e ci stritola in ogni giorno che passa correndo,
sembra quasi che ironico scruti e ci guardi irridendo.
E davvero non siamo più quegli eroi pronti assieme a affrontare ogni impresa;
siamo come due foglie aggrappate su un ramo in attesa.
"The triangle tingles and the trumpet plays slow"...
Farewell, non pensarci e perdonami se ti ho portato via un poco d' estate
con qualcosa di fragile come le storie passate:
forse un tempo poteva commuoverti, ma ora è inutile credo, perchè
ogni volta che piangi e che ridi non piangi e non ridi con me...
Performed by Francesco Guccini
giovedì 24 giugno 2010
La ferita non equivale alla somma degli strappi
poi fu la volta di roberto. lo vennero a prendere mentre io ero sotto la doccia che mi stavo lavando. quando uscii e arrivai in cucina in accappatoio lo avevano già portato via. non aveva avuto il tempo neppure di lasciare un biglietto, neppure di spegnere la tv. non riesco a togliermi dalla testa il pensiero che se non avessi curato così tanto il mio aspetto, se non mi fossi lavata i capelli magari, forse sarei riuscita a salutarlo.
ricordo quando portarono via cosimo. anche lui sparì senza aver la possibilità di dirmi addio. io ero a fare la spesa: arrivata a casa lui non c'era più. i suoi abiti, le sue giacche, le camicie, era ancora tutto quanto in ordine dentro l'armadio. a quanto pare anche a lui non avevano concesso molto tempo.
la gente che incontravo per strada mi chiedeva spesso cosa facesse, dove fosse. io non sapevo bene come rispondere; dicevo che si trovava fuori città per lavoro, una convention, una riunione. dopo un mese però la scusa cominciò a scricchiolare, non poteva essere più credibile. perciò iniziai a dire la verità: cosimo non c'era più. al suo posto c'era giulio, franco, fabio; tutti uomini che incontravo, conoscevo, e che poi si venivano a prendere non appena gli pareva fosse il momento giusto.
avevo iniziato a considerare gli uomini con una data di scadenza, da consumarsi preferibilmente entro. per questo quando conobbi gianni, pochi giorni dopo la scomparsa di roberto, avevo tutta questa fretta. non volevo sprecare tempo. quando telefonai per chiedergli se volesse uscire con me la sera, già avevo voglia di baciarlo: lo sentivo sulle labbra. fu così carino da passarmi a prendere in auto, e una volta salita dovetti trattenermi con tutte le mie forze per non saltargli addosso, svestirlo, spogliarlo di qualsiasi cosa e trascinarlo con me nei sedili posteriori.
andammo a fare una passeggiata in un piccolo paese poco fuori città. c'era una specie di festa, il patrono o qualcosa del genere, e il centro era pieno stracolmo di bancarelle artigianali. passammo quasi due ore a girare tra i banchi di commercianti autonomi che esponevano i loro prodotti: spille per capelli raffiguranti farfalle, statue in legno di fauni. fosse successo solo qualche anno prima avrei apprezzato tantissimo; ma in quel momento era quanto di più sbagliato potesse fare. non volevo passare del tempo romantico, non volevo sprecare minuti a conoscerci, parlarci. per quello ci sarebbero stati giorni e giorni, dopo. quella sera avevo un solo e semplice desiderio: appartarci, prendere la sua macchina e parcheggiare in mezzo ad un bosco, dove nessuno potesse vederci. volevo togliermi i vestiti, il reggiseno, le mutande; farmi accarezzare tutta, dentro e fuori. avevo la necessità di sentire le sue mani passarmi ruvide sulla pelle, le sue dita strette sulle mie tette.
sapevo che un giorno o l'altro sarebbero venuti a prendersi pure lui. era solo questione di tempo, ormai l'avevo imparato. perciò avevo iniziato a scomporre qualsiasi cosa ai minimi termini. era un esercizio semplice e aiutava molto. prendevo ciò che ero abituata a fare ed iniziavo a togliere il superfluo. i saluti di circostanza? via. la cena al ristorante come prima tappa di un appuntamento? via. i pensieri, prima e dopo, essere uscita con un uomo? via. qualsiasi cosa appesantisse il concetto che puntavo andava preso ed eliminato. così facendo spogliavo i miei desideri di qualsiasi orpello inutile, facevo diradare la nebbia in modo da poter guardare meglio ciò che avevo davanti e ciò che davvero volevo.
è troppo facile dire di desiderare di essere felici, chi non lo vorrebbe? la felicità è solo una fibra di muscolo aggrappata ad uno scheletro: se si vuole arrivare all'osso bisogna essere in grado di saperla strappare via. prima quella, poi magari il pensiero, fasullo, di voler esser ricchi, di avere soldi. una volta tolte le cose più ovvie, si deve cominciare ad eliminare quelle meno ovvie, quelle che magari fanno pure un po' male ad ammetterle: il matrimonio? i figli? a dire la verità non avevo mai sentito il bisogno di legarmi di fronte a Dio - quale fra i tanti? - ad un uomo. si, ne avevo bisogno, ma solo per conto mio personale, non certo per un motivo religioso o per dimostrare chissà cosa a qualcuno. i figli poi: fanculo il naturale istinto materno. ne avevo sempre avuto paura, sia a livello fisico - mi avrebbero deformato il corpo, andando a strappare fibre e tessuti che non avrei mai pensato fossero possibili da rompere - sia sotto l’aspetto più prettamente doloroso. mi era sempre rimasta in testa la similitudine che avevo sentito in un film: era come dover far passare un anguria dentro un buco largo più o meno quanto un limone.
più andavo avanti così e più scavavo verso ciò che davvero volevo. perché a volte sapere cosa si vuole è forse ancor più difficile di ottenerlo. quando hai un obbiettivo ti puoi dannare l'anima per raggiungerlo, ma quando non hai un traguardo è solo fatica sprecata; come una corsa che non puoi mai finire. non che non puoi vincere, ma che non puoi mai portare a termine perché un termine lei stessa non lo ha.
così la sera che uscii con gianni avevo tagliato via tutto quello che non ritenevo indispensabile. non ne avevamo tempo, sarebbero venuti a prenderlo, chissà quando. quindi la passeggiata per le bancarelle era del tutto fuori luogo. i sorrisi e le chiacchiere vacue, vuote, appena salita in macchina; la birra offerta, il suo "vuoi un gelato?"; tutte le sue frasi misurate, la sua gentilezza dilatata fino all'inverosimile, il non voler rischiare, non sbilanciarsi in alcun modo; quando invece doveva semplicemente fare quello che molto probabilmente pure lui avrebbe di gran lunga preferito fare: trascinarmi in qualche parcheggio nascosto, strapparmi via i vestiti per poi poter finalmente spalancare le mie gambe, con forza se necessario, e tuffarsi dentro con furia, violento. scopare in modo primitivo, senza troppi coinvolgimenti emotivi.
ecco cosa volevo veramente, cosa mi avrebbe reso davvero felice quella sera. dimenticare roberto.
ricordo quando portarono via cosimo. anche lui sparì senza aver la possibilità di dirmi addio. io ero a fare la spesa: arrivata a casa lui non c'era più. i suoi abiti, le sue giacche, le camicie, era ancora tutto quanto in ordine dentro l'armadio. a quanto pare anche a lui non avevano concesso molto tempo.
la gente che incontravo per strada mi chiedeva spesso cosa facesse, dove fosse. io non sapevo bene come rispondere; dicevo che si trovava fuori città per lavoro, una convention, una riunione. dopo un mese però la scusa cominciò a scricchiolare, non poteva essere più credibile. perciò iniziai a dire la verità: cosimo non c'era più. al suo posto c'era giulio, franco, fabio; tutti uomini che incontravo, conoscevo, e che poi si venivano a prendere non appena gli pareva fosse il momento giusto.
avevo iniziato a considerare gli uomini con una data di scadenza, da consumarsi preferibilmente entro. per questo quando conobbi gianni, pochi giorni dopo la scomparsa di roberto, avevo tutta questa fretta. non volevo sprecare tempo. quando telefonai per chiedergli se volesse uscire con me la sera, già avevo voglia di baciarlo: lo sentivo sulle labbra. fu così carino da passarmi a prendere in auto, e una volta salita dovetti trattenermi con tutte le mie forze per non saltargli addosso, svestirlo, spogliarlo di qualsiasi cosa e trascinarlo con me nei sedili posteriori.
andammo a fare una passeggiata in un piccolo paese poco fuori città. c'era una specie di festa, il patrono o qualcosa del genere, e il centro era pieno stracolmo di bancarelle artigianali. passammo quasi due ore a girare tra i banchi di commercianti autonomi che esponevano i loro prodotti: spille per capelli raffiguranti farfalle, statue in legno di fauni. fosse successo solo qualche anno prima avrei apprezzato tantissimo; ma in quel momento era quanto di più sbagliato potesse fare. non volevo passare del tempo romantico, non volevo sprecare minuti a conoscerci, parlarci. per quello ci sarebbero stati giorni e giorni, dopo. quella sera avevo un solo e semplice desiderio: appartarci, prendere la sua macchina e parcheggiare in mezzo ad un bosco, dove nessuno potesse vederci. volevo togliermi i vestiti, il reggiseno, le mutande; farmi accarezzare tutta, dentro e fuori. avevo la necessità di sentire le sue mani passarmi ruvide sulla pelle, le sue dita strette sulle mie tette.
sapevo che un giorno o l'altro sarebbero venuti a prendersi pure lui. era solo questione di tempo, ormai l'avevo imparato. perciò avevo iniziato a scomporre qualsiasi cosa ai minimi termini. era un esercizio semplice e aiutava molto. prendevo ciò che ero abituata a fare ed iniziavo a togliere il superfluo. i saluti di circostanza? via. la cena al ristorante come prima tappa di un appuntamento? via. i pensieri, prima e dopo, essere uscita con un uomo? via. qualsiasi cosa appesantisse il concetto che puntavo andava preso ed eliminato. così facendo spogliavo i miei desideri di qualsiasi orpello inutile, facevo diradare la nebbia in modo da poter guardare meglio ciò che avevo davanti e ciò che davvero volevo.
è troppo facile dire di desiderare di essere felici, chi non lo vorrebbe? la felicità è solo una fibra di muscolo aggrappata ad uno scheletro: se si vuole arrivare all'osso bisogna essere in grado di saperla strappare via. prima quella, poi magari il pensiero, fasullo, di voler esser ricchi, di avere soldi. una volta tolte le cose più ovvie, si deve cominciare ad eliminare quelle meno ovvie, quelle che magari fanno pure un po' male ad ammetterle: il matrimonio? i figli? a dire la verità non avevo mai sentito il bisogno di legarmi di fronte a Dio - quale fra i tanti? - ad un uomo. si, ne avevo bisogno, ma solo per conto mio personale, non certo per un motivo religioso o per dimostrare chissà cosa a qualcuno. i figli poi: fanculo il naturale istinto materno. ne avevo sempre avuto paura, sia a livello fisico - mi avrebbero deformato il corpo, andando a strappare fibre e tessuti che non avrei mai pensato fossero possibili da rompere - sia sotto l’aspetto più prettamente doloroso. mi era sempre rimasta in testa la similitudine che avevo sentito in un film: era come dover far passare un anguria dentro un buco largo più o meno quanto un limone.
più andavo avanti così e più scavavo verso ciò che davvero volevo. perché a volte sapere cosa si vuole è forse ancor più difficile di ottenerlo. quando hai un obbiettivo ti puoi dannare l'anima per raggiungerlo, ma quando non hai un traguardo è solo fatica sprecata; come una corsa che non puoi mai finire. non che non puoi vincere, ma che non puoi mai portare a termine perché un termine lei stessa non lo ha.
così la sera che uscii con gianni avevo tagliato via tutto quello che non ritenevo indispensabile. non ne avevamo tempo, sarebbero venuti a prenderlo, chissà quando. quindi la passeggiata per le bancarelle era del tutto fuori luogo. i sorrisi e le chiacchiere vacue, vuote, appena salita in macchina; la birra offerta, il suo "vuoi un gelato?"; tutte le sue frasi misurate, la sua gentilezza dilatata fino all'inverosimile, il non voler rischiare, non sbilanciarsi in alcun modo; quando invece doveva semplicemente fare quello che molto probabilmente pure lui avrebbe di gran lunga preferito fare: trascinarmi in qualche parcheggio nascosto, strapparmi via i vestiti per poi poter finalmente spalancare le mie gambe, con forza se necessario, e tuffarsi dentro con furia, violento. scopare in modo primitivo, senza troppi coinvolgimenti emotivi.
ecco cosa volevo veramente, cosa mi avrebbe reso davvero felice quella sera. dimenticare roberto.
mercoledì 23 giugno 2010
C'è chi: crack
c'è chi questa estate non ha ancora capito quando diavolo sia iniziata, o se per caso sia già finita. c'è chi parte e sbaglia a fare le valige, chi percorre chilometri e chilometri per trovarsi solo sempre dietro ai temporali; chi viaggia e trova prima pioggia, poi sole all'improvviso all'uscita dell'ennesima galleria, asfalto drenante e non drenante.
c'è chi parla e mentre lo si ascolta attentamente si ha l'impressione di stare a parlare con una pizza quattro stagioni: estate autunno inverno e primavera. pensa che per aver bel tempo basti girare un poco il piatto per vedere le foglie verdi ancora appese ai rami, oppure gialle cadute sulle strade.
poi c'è chi si sfascia i piedi non tanto per diletto quanto invece per caso. non si tratta di calciatori, che magari puntano il piede dentro il terreno e obbligano le articolazioni a movimenti innaturali, tanto innaturali da non poterne più, e: crack. non son neppure dei cestisti, che sotto canestro saltano per ricadere poi caso mai male su ginocchia che non reggono, o se reggono reggan peggio, piegandosi nel verso sbagliato o di lato, così tanto e d'improvviso che senza neppure accorgersene: crack. non sono sportivi in generali. sono persone che quando qualcuno dice loro: scaldati, entri nel secondo tempo; non possono far altro che replicare: sono infortunata, non gioco. persone che camminano tranquille, senza guardare con attenzione dove mettono i piedi, perché in certi casi è giusto far così, bisogna pur sempre dare per scontato qualche cosa, tipo che le gambe non ti cedano all'improvviso, lasciandoti andare giù verso il terreno o il marciapiede, che magari una buca non ti faccia un agguato mentre sei perso per i fatti tuoi, pensando a quanto sia bella una città rispetto ad un'altra, e: crack.
certe cose succedono sempre quando meno te lo aspetti, perché altrimenti se si potesse saperlo, se si fosse consci del momento in cui ci facciamo male, potremmo dirci poi: saremmo stati più attenti; avrei indossato una protezione, avrei camminato per benino un passo dietro l'altro, avrei annodato più stretti in modo che non si sciogliessero tutti quanti i legamenti che dentro ho. ma in questo modo sarebbe un po' come barare, sapere già prima di alzare il mazzo quali carte avremo per le mani. e poi potremmo farci del male nell'altro modo, in senso opposto: potremmo fare nodi e doppi nodi ai tendini per esser certi che non si slaccino alla prima difficoltà, ma rischieremmo di legarci troppo stretti, di accumulare fiocchi e controfiocchi laddove non dovrebbero esserci che stringhe ben tirate, mentre noi non facciamo altro che appesantirle di pensieri, di pressioni, di premure, cure, e: crack.
quando si fa crack ci si rompe ed il tempo si dilata, quasi quanto la ferita che non squarta la pelle ma si allarga al suo interno. più si gonfia, dice, e più impiegherà a tornare delle dimensioni normali, perché anche se fuori non si vede sanguinare si sanguina pur dentro, e se ci fosse un taglio, un buco, una fessura, almeno tutto questo sangue saprebbe dove andare, sgorgando fuori per fuggire via; l'unica preoccupazione sarebbe quella di non finirlo, il sangue, morendo appunto dissanguati. ma è assai difficile. mentre invece quando ci si fa male senza tagliarci si sanguina lo stesso, solo che tutto il sangue non ha alcun modo di scappare e rimane intrappolato dentro, prendendo spazio che non dovrebbe prendere perché in fondo non è suo. i muscoli che dicono: hey, qui ci dovrei stare io! poi i nervi, le vene secondarie, e chissà quanto altro abbiamo nascosto sottopelle e non ci rendiamo neppure conto di possedere. si innesca una reazione a catena che porta a traslocare da un punto ad un altro un sacco di cose che si smuovono non certo senza dolore, mentre il sangue gonfia gonfia, quasi stesse riempiendo una diga o un bacino naturale.
in certi casi non bisogna far altro che aspettare. attendere che il nostro corpo riprenda un po' in mano la questione, che dica a tutti di rimettersi al proprio posto, di fare in modo che dei globuli - chissà se rossi bianchi o rosa - attivino le pompe per far sgorgare il sangue via, o più verosimilmente: aspettare che l'ematoma si assorbi.
in qualsiasi caso il tempo si trasforma tutto ad un tratto in tempo libero. si sta ore e ore sdraiati sul divano o sul letto, tanto che all'ospedale ti danno queste fiale di liquido trasparente, se non ricordo male, che ti devi iniettare sulla pancia appena sotto pelle. la prima volta che lo fai, che prepari la siringa ed affondi l'ago di traverso sul tuo ventre - non "nel" tuo ventre, perché mi raccomando, ti dicono, non deve andare in profondità - vedi una bolla che è poi la medicina gonfiarsi come una mongolfiera, ed un po' ti preoccupi perché la prima volta hai sempre paura di aver esagerato nell'aver fatto la puntura troppo di traverso e che prima o poi scoppi. ma poi si sgonfia, piano piano, e le volte successive non ci fai neppure caso.
ci sono persone che durante tutto questo tempo libero fanno mille e mille cose: si fanno la pedicure; si mettono lo smalto alle dita dei piedi anche se prima di allora non lo hanno mai fatto ed invece giurano spergiurano di averlo fatto sempre; si iscrivono via internet a lezioni di burlesque plantare, oppure a lezioni di inglese che gli insegnino una buona volta a non scrivere burlesque così come pensano che si pronunci: barlasque; oppure si divertono ad imitare con i propri alluci i personaggi famosi del presente e del passato. ci sono invece persone che tutto questo tempo libero lo riempiono invece con il lavoro, perché in fondo non riescono a fermarsi neppure un minuto, un secondo, una mamma una sorella o un cugino di secondo.
a queste persone, e a tutte quante, vanno i più sentiti in bocca al lupo per una buona guarigione, sperando poi che il lupo crepi, inciampando in tutti questi maledetti legamenti.
c'è chi parla e mentre lo si ascolta attentamente si ha l'impressione di stare a parlare con una pizza quattro stagioni: estate autunno inverno e primavera. pensa che per aver bel tempo basti girare un poco il piatto per vedere le foglie verdi ancora appese ai rami, oppure gialle cadute sulle strade.
poi c'è chi si sfascia i piedi non tanto per diletto quanto invece per caso. non si tratta di calciatori, che magari puntano il piede dentro il terreno e obbligano le articolazioni a movimenti innaturali, tanto innaturali da non poterne più, e: crack. non son neppure dei cestisti, che sotto canestro saltano per ricadere poi caso mai male su ginocchia che non reggono, o se reggono reggan peggio, piegandosi nel verso sbagliato o di lato, così tanto e d'improvviso che senza neppure accorgersene: crack. non sono sportivi in generali. sono persone che quando qualcuno dice loro: scaldati, entri nel secondo tempo; non possono far altro che replicare: sono infortunata, non gioco. persone che camminano tranquille, senza guardare con attenzione dove mettono i piedi, perché in certi casi è giusto far così, bisogna pur sempre dare per scontato qualche cosa, tipo che le gambe non ti cedano all'improvviso, lasciandoti andare giù verso il terreno o il marciapiede, che magari una buca non ti faccia un agguato mentre sei perso per i fatti tuoi, pensando a quanto sia bella una città rispetto ad un'altra, e: crack.
certe cose succedono sempre quando meno te lo aspetti, perché altrimenti se si potesse saperlo, se si fosse consci del momento in cui ci facciamo male, potremmo dirci poi: saremmo stati più attenti; avrei indossato una protezione, avrei camminato per benino un passo dietro l'altro, avrei annodato più stretti in modo che non si sciogliessero tutti quanti i legamenti che dentro ho. ma in questo modo sarebbe un po' come barare, sapere già prima di alzare il mazzo quali carte avremo per le mani. e poi potremmo farci del male nell'altro modo, in senso opposto: potremmo fare nodi e doppi nodi ai tendini per esser certi che non si slaccino alla prima difficoltà, ma rischieremmo di legarci troppo stretti, di accumulare fiocchi e controfiocchi laddove non dovrebbero esserci che stringhe ben tirate, mentre noi non facciamo altro che appesantirle di pensieri, di pressioni, di premure, cure, e: crack.
quando si fa crack ci si rompe ed il tempo si dilata, quasi quanto la ferita che non squarta la pelle ma si allarga al suo interno. più si gonfia, dice, e più impiegherà a tornare delle dimensioni normali, perché anche se fuori non si vede sanguinare si sanguina pur dentro, e se ci fosse un taglio, un buco, una fessura, almeno tutto questo sangue saprebbe dove andare, sgorgando fuori per fuggire via; l'unica preoccupazione sarebbe quella di non finirlo, il sangue, morendo appunto dissanguati. ma è assai difficile. mentre invece quando ci si fa male senza tagliarci si sanguina lo stesso, solo che tutto il sangue non ha alcun modo di scappare e rimane intrappolato dentro, prendendo spazio che non dovrebbe prendere perché in fondo non è suo. i muscoli che dicono: hey, qui ci dovrei stare io! poi i nervi, le vene secondarie, e chissà quanto altro abbiamo nascosto sottopelle e non ci rendiamo neppure conto di possedere. si innesca una reazione a catena che porta a traslocare da un punto ad un altro un sacco di cose che si smuovono non certo senza dolore, mentre il sangue gonfia gonfia, quasi stesse riempiendo una diga o un bacino naturale.
in certi casi non bisogna far altro che aspettare. attendere che il nostro corpo riprenda un po' in mano la questione, che dica a tutti di rimettersi al proprio posto, di fare in modo che dei globuli - chissà se rossi bianchi o rosa - attivino le pompe per far sgorgare il sangue via, o più verosimilmente: aspettare che l'ematoma si assorbi.
in qualsiasi caso il tempo si trasforma tutto ad un tratto in tempo libero. si sta ore e ore sdraiati sul divano o sul letto, tanto che all'ospedale ti danno queste fiale di liquido trasparente, se non ricordo male, che ti devi iniettare sulla pancia appena sotto pelle. la prima volta che lo fai, che prepari la siringa ed affondi l'ago di traverso sul tuo ventre - non "nel" tuo ventre, perché mi raccomando, ti dicono, non deve andare in profondità - vedi una bolla che è poi la medicina gonfiarsi come una mongolfiera, ed un po' ti preoccupi perché la prima volta hai sempre paura di aver esagerato nell'aver fatto la puntura troppo di traverso e che prima o poi scoppi. ma poi si sgonfia, piano piano, e le volte successive non ci fai neppure caso.
ci sono persone che durante tutto questo tempo libero fanno mille e mille cose: si fanno la pedicure; si mettono lo smalto alle dita dei piedi anche se prima di allora non lo hanno mai fatto ed invece giurano spergiurano di averlo fatto sempre; si iscrivono via internet a lezioni di burlesque plantare, oppure a lezioni di inglese che gli insegnino una buona volta a non scrivere burlesque così come pensano che si pronunci: barlasque; oppure si divertono ad imitare con i propri alluci i personaggi famosi del presente e del passato. ci sono invece persone che tutto questo tempo libero lo riempiono invece con il lavoro, perché in fondo non riescono a fermarsi neppure un minuto, un secondo, una mamma una sorella o un cugino di secondo.
a queste persone, e a tutte quante, vanno i più sentiti in bocca al lupo per una buona guarigione, sperando poi che il lupo crepi, inciampando in tutti questi maledetti legamenti.
martedì 22 giugno 2010
Non siamo noi/Braccati
sono venuti con i rilevatori di calore a cercarci. puntavano delle ingombranti pistole con uno schermo a colori caldi e colori freddi nei posti dove eravamo stati: panchine, sedie, prati. speravano di poterci rintracciare. avevano questa stramba teoria secondo la quale i nostri corpi avevano bruciato così tanto da lasciare dei residui nell'aria. non credevo funzionasse, ma dopo qualche secondo alcune immagini hanno iniziato a comparire sui loro display. non eravamo noi, anche se potevamo sembrarlo. erano piuttosto delle ombre delineate male, con i bordi giallo acceso mentre l'interno di un rosso più largo.
avevi ragione te, quando mi dicevi di non appoggiare le mani sulle tue gambe. lasci il segno, mi rimproveravi. non capivo cosa intendessi. mi guardavo ogni volta i palmi per controllare che non fossero sporchi; ma non lo erano mai. così continuavo a toccarti. e più ti toccavo più lasciavo segni.
lo sentivo, ma non credevo sarebbero stati visibili questi segni. sapevo di lasciare qualcosa, tipo: ogni lasciata è persa; ma mai e poi mai avrei potuto pensare che un giorno sarebbero stati capaci di trovarci grazie a questi miei momenti di piccola perdizione.
perché lo fai? mi chiedevi a volte. perché continui a toccarmi e toccarmi quasi la mia pelle, nuda o vestita, fosse ossigeno e del tocco tu ne avessi tutto questo bisogno vitale. perché? mi chiedevi.
no so, rispondevo. forse soltanto perché, in fin dei conti, un perché vero e proprio non c'è. perché quando sono vicino vorrei esserlo ancora di più, e quando magari ti appoggio una mano sul lato di una tua gamba, così del tutto per caso, forse tu neppure te ne accorgi mentre pensi ad altro e ad altro pensi che non sia la mia mano furtiva sulla tua gamba, conto dentro di me i secondi che passano: uno due tre, e trattengo il respiro. mi dico: ancora un secondo, soltanto uno ancora. pongo un obbiettivo, di arrivare a contare almeno fino a cento centodieci centoventi, prima di prenderti alle spalle e abbracciarti qualsiasi cosa tu faccia o tu dica.
non credevo di fare del male a nessuno. davvero. sul serio. ho sempre pensato al contrario, che invece facesse piacere. ricevere un abbraccio come ricevere un bacio, un augurio un favore. mai ho pensato in tutta la vita che stessi sbagliando, andando in una direzione mia solo e soltanto, contromano e contro tutti. invece ora mi ritrovo a guardare questi rivelatori di calore, così puntati sul nulla, quel nulla che qualche tempo fa riempivamo di noi, e mi pare ci stiano quasi inchiodando al paesaggio, ritirando su dal passato tutti i miei sentimenti sensazioni e respiri sospiri. è come se le nostre impronte fossero bruciate, e bruciando avessero lasciato un alone nel mondo.
ci stanno cercando, lo so, e forse ci stanno pure trovando. non credevo l'ombra di un fuoco facesse così tanto scalpore, o grigiore, da permettere a chi vuole di seguirne le orme. ho sempre guardato hai nostri rintocchi come a dei suoni di tatto che scacciassero il buio accogliendo al suo posto la luce. le volte che ti toccavo, che resistevo per cinquanta sessanta settanta secondi, c’erano i fuochi d'artificio per aria ad illuminare la notte, le stelle cadenti splendenti a correrci incontro; ma tutto un qualcosa che purtroppo si spegneva, che durava si e no il tempo di un lampo. invece ora scopro, senza trattenere il rimpianto, che gli avanzi dei resti lasciati alle spalle continuano a brillare e dribblare l'avanzo dei giorni, che passano passano ma non sbiadiscono mai per intero le tracce del nostro toccarci leggero, che definirlo toccarci quasi arrossisco e mi vergogno.
mi pento e mi dolgo, con il cuore e soltanto, di non aver trovato la forza, l'energia, o l'idea, di catturare i restanti bagliori riflessi, quegli attimi appena, i soffi repressi, che ho lasciato indietro e che ora non ci portiamo più appresso, alleggeriti di qualcosa che ormai è perso.
avevi ragione te, quando mi dicevi di non appoggiare le mani sulle tue gambe. lasci il segno, mi rimproveravi. non capivo cosa intendessi. mi guardavo ogni volta i palmi per controllare che non fossero sporchi; ma non lo erano mai. così continuavo a toccarti. e più ti toccavo più lasciavo segni.
lo sentivo, ma non credevo sarebbero stati visibili questi segni. sapevo di lasciare qualcosa, tipo: ogni lasciata è persa; ma mai e poi mai avrei potuto pensare che un giorno sarebbero stati capaci di trovarci grazie a questi miei momenti di piccola perdizione.
perché lo fai? mi chiedevi a volte. perché continui a toccarmi e toccarmi quasi la mia pelle, nuda o vestita, fosse ossigeno e del tocco tu ne avessi tutto questo bisogno vitale. perché? mi chiedevi.
no so, rispondevo. forse soltanto perché, in fin dei conti, un perché vero e proprio non c'è. perché quando sono vicino vorrei esserlo ancora di più, e quando magari ti appoggio una mano sul lato di una tua gamba, così del tutto per caso, forse tu neppure te ne accorgi mentre pensi ad altro e ad altro pensi che non sia la mia mano furtiva sulla tua gamba, conto dentro di me i secondi che passano: uno due tre, e trattengo il respiro. mi dico: ancora un secondo, soltanto uno ancora. pongo un obbiettivo, di arrivare a contare almeno fino a cento centodieci centoventi, prima di prenderti alle spalle e abbracciarti qualsiasi cosa tu faccia o tu dica.
non credevo di fare del male a nessuno. davvero. sul serio. ho sempre pensato al contrario, che invece facesse piacere. ricevere un abbraccio come ricevere un bacio, un augurio un favore. mai ho pensato in tutta la vita che stessi sbagliando, andando in una direzione mia solo e soltanto, contromano e contro tutti. invece ora mi ritrovo a guardare questi rivelatori di calore, così puntati sul nulla, quel nulla che qualche tempo fa riempivamo di noi, e mi pare ci stiano quasi inchiodando al paesaggio, ritirando su dal passato tutti i miei sentimenti sensazioni e respiri sospiri. è come se le nostre impronte fossero bruciate, e bruciando avessero lasciato un alone nel mondo.
ci stanno cercando, lo so, e forse ci stanno pure trovando. non credevo l'ombra di un fuoco facesse così tanto scalpore, o grigiore, da permettere a chi vuole di seguirne le orme. ho sempre guardato hai nostri rintocchi come a dei suoni di tatto che scacciassero il buio accogliendo al suo posto la luce. le volte che ti toccavo, che resistevo per cinquanta sessanta settanta secondi, c’erano i fuochi d'artificio per aria ad illuminare la notte, le stelle cadenti splendenti a correrci incontro; ma tutto un qualcosa che purtroppo si spegneva, che durava si e no il tempo di un lampo. invece ora scopro, senza trattenere il rimpianto, che gli avanzi dei resti lasciati alle spalle continuano a brillare e dribblare l'avanzo dei giorni, che passano passano ma non sbiadiscono mai per intero le tracce del nostro toccarci leggero, che definirlo toccarci quasi arrossisco e mi vergogno.
mi pento e mi dolgo, con il cuore e soltanto, di non aver trovato la forza, l'energia, o l'idea, di catturare i restanti bagliori riflessi, quegli attimi appena, i soffi repressi, che ho lasciato indietro e che ora non ci portiamo più appresso, alleggeriti di qualcosa che ormai è perso.
lunedì 21 giugno 2010
Non abitiamo più qui
In un matrimonio esistono diversi tipi di bugie la cui malignità uccide pian piano ogni cosa: quel giorno io stavo sperimentando l’intera gamma, che andava dalla bugia bell’e buona dell’adulterio, fino all’accurata selezione d’informazioni che avviene quando tra due persone iniziano ad esserci argomenti di cui non si può più parlare. È dura dire quale delle due cose uccida prima, ma direi questa selezione degli argomenti di conversazione, perché è una resa: eviti di toccare le ferite e di conseguenza eviti di toccare le profondità del cuore.
In quei mesi di aprile e maggio, le ci voleva un vero e proprio atto di volontà per tirarsi giù dal letto. Anche l’aria che respirava in casa era contro di lei: sembrava appiccicosa e grigia e fitta, più fitta della nebbia, e lei ci passava attraverso per arrivare al bagno dove restava seduta a fissare a lungo il pavimento o la tenda della doccia dopo essersi lavata.
Una volta nell’Iowa, mentre Edith si trovava in una lavanderia a gettoni – un locale angusto frequentato da studenti universitari che stavano lì a leggere Mann e Tide senza fare troppa differenza, e donne robuste con i bigodini in testa: un posto squallido, che lei abbandonò di buon grado una volta sposato Hank quando poté avere una casa tutta sua con lavatrice e asciugatrice – conobbe una ragazza da poco sposata che veniva da una città del sud. Il marito era uno studente e lavorava di notte come receptionist in un motel. Siccome avevano trovato una buona offerta da sessanta dollari al mese, vivevano in una fattoria lontana dalla città, lontana da tutti. Dalla finestra, la sera, guardando il paesaggio piatto e privo di alberi, lei poteva vedere le luci del quartiere più vicino, che distava circa un miglio e mezzo. Avevano anche un figlio, una bambina. Quella ragazza non aveva mai vissuto in campagna, e ai contadini piaceva raccontarle storie di paura. Mentre andava a ritirare la posta in strada, questi contadini grossi e bruciati dal sole, simili ai maiali che allevavano, fermavano il loro trattore per parlare con lei. Le raccontavano storie di maiali che sbranavano gli ubriaconi che trovavano lungo la strada e di bambini rimasti intrappolati dentro i recinti. E le avevano raccontato che un anno prima, durante il lungo e terribile inverno, un uomo si era impiccato proprio nel granaio della casa dove ora lei viveva; abitava lì da solo e l’avevano sepolto in città.
Così di sera, mentre suo marito era alla reception del motel, quella donna aveva paura. Quando era pronta per andare a letto si faceva forza per scendere di sotto a spegnere tutte le luci, ma in cuor suo avrebbe voluto lasciare le luci accese e dormire in una casa illuminata a giorno. Poi saliva le scale e spegneva anche la luce in corridoio, dato che stava insegnando alla sua bambina a dormire al buio. Quindi andava a letto e, dopo aver sfogliato un libro per un po’, i suoi occhi incominciavano a chiudersi e riusciva a dormire; ma la paura era sempre lì, e se le capitava di svegliarsi nella notte – perché le scappava la pipì, perché aveva sentito un rumore dalla stanza della bambina o perché sulla strada di fronte a casa sua c’era una delle poche e solitarie macchine di passaggio – restava lì terrorizzata in quel buio, che sembrava parlarle, toccarla. In quei primi terribili istanti pensava di essere spaventata dal buio stesso: che se lo avesse fatto svanire con la luce, la paura sarebbe passata. Ma non accendeva la luce. E mentre restava immobile scoprì che anche dentro al buio ci sono angoli di salvezza. Lei non aveva paura della sua stanza. Distesa al buio passò in rassegna le altre stanze. Non aveva paura della stanza della bambina. O del bagno. E neanche del corridoio, delle scale, del soggiorno. Si trattava solo della cucina. Di quell’angolo in ombra fra il frigorifero e la credenza. A dire il vero non credeva che qualcuno se ne stesse accovacciato lì. Ma era quell’angolo che le faceva paura. A letto lo poteva vedere con più chiarezza di quanto non riuscisse a vedere la sua stanza nel buio. Alla fine si alzava dal letto e, a luci spente, scendeva di sotto in cucina e si metteva di fronte all’angolo buio, fissandolo. Lo fissava fino a quando non aveva più paura; poi saliva di sopra e andava a dormire.
Altre notte le capitava di avere paura di altri posti. A volte era la soffitta, e allora saliva le scale, respirando l’aria viziata, superava le finestre polverose, e si metteva al centro della stanza fra scatole e scatoloni; era consapevole che se fosse arrivato un topo correndo l’avrebbe messa in fuga fra le urla, ma pregava che non succedesse. La cantina era anche peggio: era fredda e umida, il soffitto era basso, e indipendentemente da dove lei si trovasse c’era sempre un angolo che non riusciva a vedere: dietro la fornace al centro del pavimento, dietro le colonne ch sostenevano il soffitto. La cosa peggiore di tutte era il granaio: alcune sere si svegliava e vi entrava: un posto terribile anche di giorno, con tutte quelle travi. Non sapeva quale fosse la trave che quell’uomo aveva usato per impiccarsi. Sapeva solo che si era arrampicato su una di essere, aveva legato la corda, si era messo il cappio attorno al collo, e si era lasciato andare. Certe notti, abbandonava il letto e usciva per andare nel granaio. Era autunno e doveva soltanto infilarsi l’accappatoio e le scarpe. Attraversava il prato, si avvicinava alla porta spalancata e non aveva paura di vedere l’uomo: entrando nel granaio, aveva solo paura di alzare gli occhi al cielo e di vedere la trave che quell’uomo aveva scelto per impiccarsi.
Tornando a casa in macchina, domenica notte, Edith ripensò a quella donna – non riusciva a ricordarne il nome, solo la storia – in preda alle sue paure infantili: perché non era il fantasma dell’impiccato a spaventarla; lei non credeva ai fantasmi. Era il buio. Quel certo tipo di buio in un certo tipo di notte. Edith aveva visto coi suoi occhi quel posto e ciò la spaventava. Ma mancava sempre qualcosa in quella storia, qualcosa a cui Edith non aveva mai pensato fino a quel momento: la donna andava a vedere i posti che nel buio le mettevano paura. Ma non vi aveva mai trovato quello che la spaventava.
Quest’amore ti svuota senza riempirti, ti sciupa, e finirai per invecchiare ridotta in frantumi.
Quando finalmente lasciano l’appartamento, la giornata è frizzante quanto basta per indossare maglioni e giacche a vento, l’aria è asciutta, il cielo di un blu profondo e sulla maggior parte degli alberi ci sono ancora foglie morenti rosse, arancioni e gialle, scaldate dal sole.
Quello che non capisce è perché Lori lo ami, ma preferisce non sforzarsi a cercare d’indovinarlo, perché ha paura di non trovare una ragione abbastanza forte a cui affidarsi.
Hank era abbastanza giovane da farsi incantare dal suo accento, così aveva finito per ascoltare il suono della sua voce più di quello che diceva.
una bionda dai capelli color miele
sembrava arrivato il momento: il momento di portare a termine le cose o di cominciare, o entrambe.
In quei mesi di aprile e maggio, le ci voleva un vero e proprio atto di volontà per tirarsi giù dal letto. Anche l’aria che respirava in casa era contro di lei: sembrava appiccicosa e grigia e fitta, più fitta della nebbia, e lei ci passava attraverso per arrivare al bagno dove restava seduta a fissare a lungo il pavimento o la tenda della doccia dopo essersi lavata.
Una volta nell’Iowa, mentre Edith si trovava in una lavanderia a gettoni – un locale angusto frequentato da studenti universitari che stavano lì a leggere Mann e Tide senza fare troppa differenza, e donne robuste con i bigodini in testa: un posto squallido, che lei abbandonò di buon grado una volta sposato Hank quando poté avere una casa tutta sua con lavatrice e asciugatrice – conobbe una ragazza da poco sposata che veniva da una città del sud. Il marito era uno studente e lavorava di notte come receptionist in un motel. Siccome avevano trovato una buona offerta da sessanta dollari al mese, vivevano in una fattoria lontana dalla città, lontana da tutti. Dalla finestra, la sera, guardando il paesaggio piatto e privo di alberi, lei poteva vedere le luci del quartiere più vicino, che distava circa un miglio e mezzo. Avevano anche un figlio, una bambina. Quella ragazza non aveva mai vissuto in campagna, e ai contadini piaceva raccontarle storie di paura. Mentre andava a ritirare la posta in strada, questi contadini grossi e bruciati dal sole, simili ai maiali che allevavano, fermavano il loro trattore per parlare con lei. Le raccontavano storie di maiali che sbranavano gli ubriaconi che trovavano lungo la strada e di bambini rimasti intrappolati dentro i recinti. E le avevano raccontato che un anno prima, durante il lungo e terribile inverno, un uomo si era impiccato proprio nel granaio della casa dove ora lei viveva; abitava lì da solo e l’avevano sepolto in città.
Così di sera, mentre suo marito era alla reception del motel, quella donna aveva paura. Quando era pronta per andare a letto si faceva forza per scendere di sotto a spegnere tutte le luci, ma in cuor suo avrebbe voluto lasciare le luci accese e dormire in una casa illuminata a giorno. Poi saliva le scale e spegneva anche la luce in corridoio, dato che stava insegnando alla sua bambina a dormire al buio. Quindi andava a letto e, dopo aver sfogliato un libro per un po’, i suoi occhi incominciavano a chiudersi e riusciva a dormire; ma la paura era sempre lì, e se le capitava di svegliarsi nella notte – perché le scappava la pipì, perché aveva sentito un rumore dalla stanza della bambina o perché sulla strada di fronte a casa sua c’era una delle poche e solitarie macchine di passaggio – restava lì terrorizzata in quel buio, che sembrava parlarle, toccarla. In quei primi terribili istanti pensava di essere spaventata dal buio stesso: che se lo avesse fatto svanire con la luce, la paura sarebbe passata. Ma non accendeva la luce. E mentre restava immobile scoprì che anche dentro al buio ci sono angoli di salvezza. Lei non aveva paura della sua stanza. Distesa al buio passò in rassegna le altre stanze. Non aveva paura della stanza della bambina. O del bagno. E neanche del corridoio, delle scale, del soggiorno. Si trattava solo della cucina. Di quell’angolo in ombra fra il frigorifero e la credenza. A dire il vero non credeva che qualcuno se ne stesse accovacciato lì. Ma era quell’angolo che le faceva paura. A letto lo poteva vedere con più chiarezza di quanto non riuscisse a vedere la sua stanza nel buio. Alla fine si alzava dal letto e, a luci spente, scendeva di sotto in cucina e si metteva di fronte all’angolo buio, fissandolo. Lo fissava fino a quando non aveva più paura; poi saliva di sopra e andava a dormire.
Altre notte le capitava di avere paura di altri posti. A volte era la soffitta, e allora saliva le scale, respirando l’aria viziata, superava le finestre polverose, e si metteva al centro della stanza fra scatole e scatoloni; era consapevole che se fosse arrivato un topo correndo l’avrebbe messa in fuga fra le urla, ma pregava che non succedesse. La cantina era anche peggio: era fredda e umida, il soffitto era basso, e indipendentemente da dove lei si trovasse c’era sempre un angolo che non riusciva a vedere: dietro la fornace al centro del pavimento, dietro le colonne ch sostenevano il soffitto. La cosa peggiore di tutte era il granaio: alcune sere si svegliava e vi entrava: un posto terribile anche di giorno, con tutte quelle travi. Non sapeva quale fosse la trave che quell’uomo aveva usato per impiccarsi. Sapeva solo che si era arrampicato su una di essere, aveva legato la corda, si era messo il cappio attorno al collo, e si era lasciato andare. Certe notti, abbandonava il letto e usciva per andare nel granaio. Era autunno e doveva soltanto infilarsi l’accappatoio e le scarpe. Attraversava il prato, si avvicinava alla porta spalancata e non aveva paura di vedere l’uomo: entrando nel granaio, aveva solo paura di alzare gli occhi al cielo e di vedere la trave che quell’uomo aveva scelto per impiccarsi.
Tornando a casa in macchina, domenica notte, Edith ripensò a quella donna – non riusciva a ricordarne il nome, solo la storia – in preda alle sue paure infantili: perché non era il fantasma dell’impiccato a spaventarla; lei non credeva ai fantasmi. Era il buio. Quel certo tipo di buio in un certo tipo di notte. Edith aveva visto coi suoi occhi quel posto e ciò la spaventava. Ma mancava sempre qualcosa in quella storia, qualcosa a cui Edith non aveva mai pensato fino a quel momento: la donna andava a vedere i posti che nel buio le mettevano paura. Ma non vi aveva mai trovato quello che la spaventava.
Quest’amore ti svuota senza riempirti, ti sciupa, e finirai per invecchiare ridotta in frantumi.
Quando finalmente lasciano l’appartamento, la giornata è frizzante quanto basta per indossare maglioni e giacche a vento, l’aria è asciutta, il cielo di un blu profondo e sulla maggior parte degli alberi ci sono ancora foglie morenti rosse, arancioni e gialle, scaldate dal sole.
Quello che non capisce è perché Lori lo ami, ma preferisce non sforzarsi a cercare d’indovinarlo, perché ha paura di non trovare una ragione abbastanza forte a cui affidarsi.
Hank era abbastanza giovane da farsi incantare dal suo accento, così aveva finito per ascoltare il suono della sua voce più di quello che diceva.
una bionda dai capelli color miele
sembrava arrivato il momento: il momento di portare a termine le cose o di cominciare, o entrambe.
Andre Dubus
venerdì 18 giugno 2010
Straight No Chaser
Always be there
Face I live with
Always be there
Face I live with
Abscess memory
With broken fingers
All the fallen down angels
War paint distress
It's all in the way we know that we could have it all
Some satellites of pain can't always be ignored
War on all sides
War on all sides
Drink life as it comes
Straight, no chaser
Life as it comes
Straight, no chaser
Climb inside you
Away from strangers
We're building a system
Of alleys and motorways
It's all in the way we know that we could have it all
Some satellites of pain can't always be ignored
It's all in the face of what we thought we knew before
War on all sides
War on all sides
War on all sides
Keep on driving
Hair left morning wet
There's nothing like losing you
There's nothing like losing you
There's nothing like losing you
There's nothing like losing you
Face I live with
Always be there
Face I live with
Abscess memory
With broken fingers
All the fallen down angels
War paint distress
It's all in the way we know that we could have it all
Some satellites of pain can't always be ignored
War on all sides
War on all sides
Drink life as it comes
Straight, no chaser
Life as it comes
Straight, no chaser
Climb inside you
Away from strangers
We're building a system
Of alleys and motorways
It's all in the way we know that we could have it all
Some satellites of pain can't always be ignored
It's all in the face of what we thought we knew before
War on all sides
War on all sides
War on all sides
Keep on driving
Hair left morning wet
There's nothing like losing you
There's nothing like losing you
There's nothing like losing you
There's nothing like losing you
Performed by Bush
mercoledì 16 giugno 2010
Pacman
la cosa incredibile non è tanto la distesa pressoché infinita di fauci pronte a mordere e sbranare, quanto piuttosto la facilità con la quale si pretende di digerire situazioni senza masticarle minimamente. si ingoiano a pezzi, lasciandole scivolare verso lo stomaco, lamentandosi poi di come quest'ultime deformino in slarghi dolorosi l'esofago tutto per l'intero percorso. si ha fede quando la fede non ha niente a che vedere con la meccanica o la chimica del corpo. diciamo: ci penseranno i succhi gastrici a scomporre in elementi semplici tutto quello che inghiottiamo con una fretta il più delle volte fuori luogo, sbavando fuori dalla bocca, sporcandoci tutti senza l'uso di bavaglini da infanti ricamati con i nostri nomi propri di battesimo.
buttiamo dentro, inscatoliamo nell'apparato digestivo, un pacco dono fatto di budella viscere e intestini, ogni cosa non riusciamo a capire, a comprendere, a spiegare con leggi che dovrebbero regolare il naturale processo di vita morte e miracoli, e che invece sempre più spesso non fanno altro che ingarbugliare ancora ancora e ancora più a fondo tutto quanto il rotolo di circostanze che ci ha portato a banchettare con i fatti.
c'è una legislatura che spesso infrangiamo, rubando rapendo scrivendo, che dovrebbe esser capace di regolare qualsiasi transazione tra il dare e l'avere, il darsi e il ricevere,l’ affetto e la comprensione; ma il più delle volte si finisce per deragliare dal percorso, finendo per perderci in luoghi non luoghi che sono le fantasie di ognuno di noi, luoghi dove la gravità non ha tutto questo potere così come pure il libero arbitrio. fai questo fai quello, diciamo a noi e agli altri, inscenando una recita che per quanto veritiera possa essere non è affatto reale.
per questo afferriamo qualsiasi cosa ci capiti per le mani e la buttiamo giù dritta in bocca: pistole, castelli, amori, illusioni, pugnali, ponti, pontili, panchine, aiuole - l'erba verde appena bagnata dalla pioggia - occhiali, cellulari, orologi, scarpe, pantaloni, camicie, discorsi, rossetti, mani intrecciate le une alle altre; la notte, il giorno, i pomeriggi, i bicchieri, la sete, la luna ed il sole. ci bruciamo scottiamo facendo esplodere le bolle di ustioni bollenti su gengive sulle quali ormai non nascon più denti. crediamo, forse sbagliando forse cadendo per caso nel giusto, che tutto quello che riusciamo a mangiare alla fine non ci farà poi più tanto male. divoriamo le persone, i fatti, la loro mente; mangiamo i luoghi dove siamo per restare immacolati sicuri e tranquilli in uno spazio bianco infinito. guardiamo lontano e non c'è niente di niente se non appunto il niente assoluto: bianco vergine che ci fa stupidamente sentire perfetti.
ma rimuovere i problemi non significa risolverli. per la fretta li aggiriamo, superandoli in un balzo mordendoli al fianco, ma loro rimangono, invece che fuori se vuoi più potenti all'interno di noi. bussano da sotto la pelle, di tanto in tanto per farci capire che aspettano ancora, che non si ingannano con questi trucchetti ma voglion esser sciolti come giusto o sbagliato che sia. fai una mossa, suggeriscono da dentro, mentre noi non facciamo altro se non maledire la fretta che ci ha fatto correre senza guardarci alle spalle, a ciò che lasciavamo dietro di noi, o a ciò che ci mettevamo insaziabili in bocca.
mangia il tempo, ci diceva la fame, quel batuffolo riccioso di aculei e spine. non aveva intenzione di perdere il tempo, di lasciarlo su un piatto di una partita in fin dei conti già finita. aveva fretta, più fretta di noi; così l'abbiamo assecondata, la fame che ci prendeva alla gola del collo dei sogni, chiedendoci spiegazioni per capire qualsiasi cosa ci trovassimo davanti. ignari, o felici contenti distratti, che così facendo alla fine in un modo o nell'altro, nel bene o nel male, ne sarebbe poi uscita solo e soltanto merda.
buttiamo dentro, inscatoliamo nell'apparato digestivo, un pacco dono fatto di budella viscere e intestini, ogni cosa non riusciamo a capire, a comprendere, a spiegare con leggi che dovrebbero regolare il naturale processo di vita morte e miracoli, e che invece sempre più spesso non fanno altro che ingarbugliare ancora ancora e ancora più a fondo tutto quanto il rotolo di circostanze che ci ha portato a banchettare con i fatti.
c'è una legislatura che spesso infrangiamo, rubando rapendo scrivendo, che dovrebbe esser capace di regolare qualsiasi transazione tra il dare e l'avere, il darsi e il ricevere,l’ affetto e la comprensione; ma il più delle volte si finisce per deragliare dal percorso, finendo per perderci in luoghi non luoghi che sono le fantasie di ognuno di noi, luoghi dove la gravità non ha tutto questo potere così come pure il libero arbitrio. fai questo fai quello, diciamo a noi e agli altri, inscenando una recita che per quanto veritiera possa essere non è affatto reale.
per questo afferriamo qualsiasi cosa ci capiti per le mani e la buttiamo giù dritta in bocca: pistole, castelli, amori, illusioni, pugnali, ponti, pontili, panchine, aiuole - l'erba verde appena bagnata dalla pioggia - occhiali, cellulari, orologi, scarpe, pantaloni, camicie, discorsi, rossetti, mani intrecciate le une alle altre; la notte, il giorno, i pomeriggi, i bicchieri, la sete, la luna ed il sole. ci bruciamo scottiamo facendo esplodere le bolle di ustioni bollenti su gengive sulle quali ormai non nascon più denti. crediamo, forse sbagliando forse cadendo per caso nel giusto, che tutto quello che riusciamo a mangiare alla fine non ci farà poi più tanto male. divoriamo le persone, i fatti, la loro mente; mangiamo i luoghi dove siamo per restare immacolati sicuri e tranquilli in uno spazio bianco infinito. guardiamo lontano e non c'è niente di niente se non appunto il niente assoluto: bianco vergine che ci fa stupidamente sentire perfetti.
ma rimuovere i problemi non significa risolverli. per la fretta li aggiriamo, superandoli in un balzo mordendoli al fianco, ma loro rimangono, invece che fuori se vuoi più potenti all'interno di noi. bussano da sotto la pelle, di tanto in tanto per farci capire che aspettano ancora, che non si ingannano con questi trucchetti ma voglion esser sciolti come giusto o sbagliato che sia. fai una mossa, suggeriscono da dentro, mentre noi non facciamo altro se non maledire la fretta che ci ha fatto correre senza guardarci alle spalle, a ciò che lasciavamo dietro di noi, o a ciò che ci mettevamo insaziabili in bocca.
mangia il tempo, ci diceva la fame, quel batuffolo riccioso di aculei e spine. non aveva intenzione di perdere il tempo, di lasciarlo su un piatto di una partita in fin dei conti già finita. aveva fretta, più fretta di noi; così l'abbiamo assecondata, la fame che ci prendeva alla gola del collo dei sogni, chiedendoci spiegazioni per capire qualsiasi cosa ci trovassimo davanti. ignari, o felici contenti distratti, che così facendo alla fine in un modo o nell'altro, nel bene o nel male, ne sarebbe poi uscita solo e soltanto merda.
martedì 15 giugno 2010
Parlare
cosa potremmo dirci se alla fine parlassimo anche quando non dovremmo parlare? so che dovremmo sfogarci liberarci conoscerci, sgolarci a forza di chiacchiere a perdifiato fino appunto a stancarci esausti sfiniti; ma non riesco a non pensarci come a dei silos di conversazione, dove accumulare argomenti discorsi e quanto altro ancora: dobbiamo riempirci prima di poterci svuotare. per questo passiamo tutto questo tempo senza rivolgerci alcuna parola, per cercare di collezionarne il più possibile, di discorsi, di più belli, di più affascinanti, per poi magari un giorno lanciarceli addosso bagnati, un po' come dei gavettoni in una torrida giornata di sole.
ci sono argomenti che non trattiamo, di cui non parliamo per paura del male che potremmo farci. argomenti infagottati nel filo spinato nel quale ogni volta rischiamo di rimanere aggrappati. correndo con la bocca la lingua, giù per ripide discese scoscese di frasi intrecciate, finiamo di tanto in tanto con i vestiti che rimangono impigliati in sporgenze acuminate di cui non ci eravamo accorti. si sfilano i maglioni, tirando la lana lontano dalla trama con cui abbiamo intrecciato i nostri pensieri, si rovinano le camicie, si strappano i pantaloni. ma non credere che non pensi a ciò cui magari puoi pensare te, a quello che non ci diciamo per scaramanzia o per scarsa fiducia nell'altro - in situazioni come la nostra si ha sempre la sensazione di essere in vantaggio, che nessuno possa essere bravo quanto noi stessi, se non invece di più. anche io penso spesso ai nostri fantasmi, che sono più frenetici e agitati di noi. è solo che quando mi trovo a trasformare i pensieri in parole, mi sembra di essere così cretina sciocca infantile che cerco subito dopo di rimangiarmi tutto quanto abbia detto, riavvolgere il nastro, fare finta che non sia successo niente di niente.
non voglio trovarmi a parlare del tempo, di quanto bella o piovosa possa essere una giornata di fine aprile; non con te. lascio questi stereotipi ad altri di cui mi interesso di meno, persone di cui non mi importa davvero sul serio cosa pensino, di me o in generale. dico loro: il sole, le nuvole, fa freddo fa caldo; non esistono più, le mezze stagioni. a loro do quel tanto che basta, e non mi aspetto certo di ricevere qualcosa in cambio, che poi oltretutto non vorrei minimamente. non mi accendo neppure, non mi metto in modalità recettiva: non mi apro, non faccio in modo che qualcosa possa davvero entrarmi dentro per poterci restare.
ma con te è bello parlare anche attraverso i silenzi: quei brevi momenti inzuppati di leggero imbarazzo durante i quali restiamo muti ma facciamo vagare gli sguardi, quando magari mi volto da un'altra parte ma sento i tuoi occhi scivolarmi sulla nuca, lisciarmi i capelli, accarezzarmi il collo. a volte desidero con tutta me stessa che tu lo faccia davvero, sul serio, un giorno od un altro, di accarezzarmi magari il collo sfiorandolo con il dorso della mano. potrei appoggiare la testa sulle tue gambe mentre tu stai seduto su una panchina, ed io sdraiarmi con le ginocchia piegate verso l'alto per riuscirci ad entrare tutta senza cadere giù di sotto con i piedi o rimanerne fuori con i polpacci. chiuderei gli occhi e allargherei un sorriso per quanto mi possa essere più possibile. assaporerei la serenità che riesci ad accendere con una leggera fiamma riscaldandomi il giusto, né troppo né poco.
qualche sera mi sdraio nel letto e spengo la luce. faccio finta di averti sdraiato al mio fianco e comincio a parlare sottovoce, ripetendomi come nei ripassi preesame tutto quanto ti voglio raccontare la prossima volta. poco importa se poi, quando ti incontro davvero, tutti i miei piani saltano d'un colpo, esplodendo come d'incanto sotto il tuo sguardo, comincio a sudare, mi tremano le mani quando dico: lo tocco, non lo tocco, lo sfioro, appoggio giusto qualche istante le dita qua sopra la sua gamba. al buio, di sera, di notte, un attimo prima di addormentarmi, fantastico e ti racconto invisibile la mia intera giornata: cosa è successo, cosa ho fatto, cosa speravo o sognavo. metto da parte ciò che voglio raccontarti.
hai presente quando cammini e ti scrocchiano le gambe, le caviglie le ginocchia? un amico mi ha detto è dovuto al fatto che si formano delle piccole bolle d'aria tra le cartilagini e le articolazioni, e quando scoppiano fanno questo rumore improvviso. non so quanto sia vero, neppure lui lo sapeva tanto. credevo mi stesse prendendo in giro mentre lo raccontava; ma anche se fosse falso, se fosse stato solo un semplice scherzo per strapparmi una manciata di risate, penso che in fondo noi siamo un po' così: accumuliamo accumuliamo, e poi quando ci incontriamo scrocchiamo come le gambe, come le dita, come i nostri discorsi.
ci sono argomenti che non trattiamo, di cui non parliamo per paura del male che potremmo farci. argomenti infagottati nel filo spinato nel quale ogni volta rischiamo di rimanere aggrappati. correndo con la bocca la lingua, giù per ripide discese scoscese di frasi intrecciate, finiamo di tanto in tanto con i vestiti che rimangono impigliati in sporgenze acuminate di cui non ci eravamo accorti. si sfilano i maglioni, tirando la lana lontano dalla trama con cui abbiamo intrecciato i nostri pensieri, si rovinano le camicie, si strappano i pantaloni. ma non credere che non pensi a ciò cui magari puoi pensare te, a quello che non ci diciamo per scaramanzia o per scarsa fiducia nell'altro - in situazioni come la nostra si ha sempre la sensazione di essere in vantaggio, che nessuno possa essere bravo quanto noi stessi, se non invece di più. anche io penso spesso ai nostri fantasmi, che sono più frenetici e agitati di noi. è solo che quando mi trovo a trasformare i pensieri in parole, mi sembra di essere così cretina sciocca infantile che cerco subito dopo di rimangiarmi tutto quanto abbia detto, riavvolgere il nastro, fare finta che non sia successo niente di niente.
non voglio trovarmi a parlare del tempo, di quanto bella o piovosa possa essere una giornata di fine aprile; non con te. lascio questi stereotipi ad altri di cui mi interesso di meno, persone di cui non mi importa davvero sul serio cosa pensino, di me o in generale. dico loro: il sole, le nuvole, fa freddo fa caldo; non esistono più, le mezze stagioni. a loro do quel tanto che basta, e non mi aspetto certo di ricevere qualcosa in cambio, che poi oltretutto non vorrei minimamente. non mi accendo neppure, non mi metto in modalità recettiva: non mi apro, non faccio in modo che qualcosa possa davvero entrarmi dentro per poterci restare.
ma con te è bello parlare anche attraverso i silenzi: quei brevi momenti inzuppati di leggero imbarazzo durante i quali restiamo muti ma facciamo vagare gli sguardi, quando magari mi volto da un'altra parte ma sento i tuoi occhi scivolarmi sulla nuca, lisciarmi i capelli, accarezzarmi il collo. a volte desidero con tutta me stessa che tu lo faccia davvero, sul serio, un giorno od un altro, di accarezzarmi magari il collo sfiorandolo con il dorso della mano. potrei appoggiare la testa sulle tue gambe mentre tu stai seduto su una panchina, ed io sdraiarmi con le ginocchia piegate verso l'alto per riuscirci ad entrare tutta senza cadere giù di sotto con i piedi o rimanerne fuori con i polpacci. chiuderei gli occhi e allargherei un sorriso per quanto mi possa essere più possibile. assaporerei la serenità che riesci ad accendere con una leggera fiamma riscaldandomi il giusto, né troppo né poco.
qualche sera mi sdraio nel letto e spengo la luce. faccio finta di averti sdraiato al mio fianco e comincio a parlare sottovoce, ripetendomi come nei ripassi preesame tutto quanto ti voglio raccontare la prossima volta. poco importa se poi, quando ti incontro davvero, tutti i miei piani saltano d'un colpo, esplodendo come d'incanto sotto il tuo sguardo, comincio a sudare, mi tremano le mani quando dico: lo tocco, non lo tocco, lo sfioro, appoggio giusto qualche istante le dita qua sopra la sua gamba. al buio, di sera, di notte, un attimo prima di addormentarmi, fantastico e ti racconto invisibile la mia intera giornata: cosa è successo, cosa ho fatto, cosa speravo o sognavo. metto da parte ciò che voglio raccontarti.
hai presente quando cammini e ti scrocchiano le gambe, le caviglie le ginocchia? un amico mi ha detto è dovuto al fatto che si formano delle piccole bolle d'aria tra le cartilagini e le articolazioni, e quando scoppiano fanno questo rumore improvviso. non so quanto sia vero, neppure lui lo sapeva tanto. credevo mi stesse prendendo in giro mentre lo raccontava; ma anche se fosse falso, se fosse stato solo un semplice scherzo per strapparmi una manciata di risate, penso che in fondo noi siamo un po' così: accumuliamo accumuliamo, e poi quando ci incontriamo scrocchiamo come le gambe, come le dita, come i nostri discorsi.
lunedì 14 giugno 2010
Terapia
con le parole ci gioco. cubi gialli, cubi rossi, cubi verdi: li ammonticchio uno sopra l'altro, impilandoli con equilibrio precario. a volte basta un semplice soffio perché questi cadano giù, per terra. ci costruisco case, con le parole. le congiunzioni, le e ad esempio, sono ottime per fare i cardini delle porte: ci attacco frasi un poco più solide, o almeno frasi che dovrebbero essere più solide, come "sto respirando", e le faccio scivolare ben oliate per aprirle e chiuderle. quando le apro, respiro; quando le chiudo, trattengo il fiato.
l'altra notte mi sono svegliato ed ho dovuto accendere la luce di camera dalla disperazione. al buio non mi rendevo conto di dove mi trovassi. non sapevo, non capivo, se fossi in una giungla, ai piedi delle piramidi, sull'argine di un fiume, o disperso nel bel mezzo di un deserto antartico. muovendo le mani nel disperato tentativo di orientarmi con il tatto, mi sentivo come una bussola impazzita circondata da magneti che suggerivano tutti nord sbagliati. cercavo a destra e mi sembrava di sentire un vento freddo; mi allungavo verso il basso del letto e mi trovavo con i piedi bagnati; sulla testa, stando fermo, batteva un sole caldo umido.
capita spesso. prima di addormentarmi passo ore a scrivere sui muri. compro pennarelli indelebili neri, di quelli che non vanno via, e riempio le pareti di casa con i viaggi che faccio utilizzando le parole a gonfiare le vele. ho ben presto ricoperto tutti i muri di casa, sia quelli portanti che quelli non portanti, e non ho i soldi per comprare la vernice, mettermi a lavorare per rimbiancarli tutti. così ultimamente ho iniziato a scrivere sulle lenzuola, le coperte, le federe dei cuscini. quando finisco cambio tutto, appallottolo da una parte ma non li porto mai a lavare. li lascio lì, in un angolo della camera, mentre con pazienza vesto il letto con altre pagine vuote. e riparto.
alcuni giorni fa ho chiesto al mio dottore se per caso stessi sbagliando: faccio bene, faccio male. mi dica dottore, come mi devo comportare? devo smettere di scrivere? devo iniziare a prendere delle medicine? magari qualche sciroppo che faccia in modo di far scivolare giù le parole dalla gola verso lo stomaco, per evitare che si fermino tutte quante incagliate qui, sul pomo d'adamo, senza andare né su e né giù, e l'unico modo per liberarmene è quello di vomitarle fuori. mi dica, cosa devo fare?
l'ho messo in crisi. si sentiva che non sapeva cosa rispondermi. ho ascoltato il suo silenzio mentre con una penna stilografica appuntava qualche considerazione nei miei confronti sul suo taccuino appoggiato sulle ginocchia. poi ha detto: non c'è il giusto o lo sbagliato, attaccando con una filippica che è durata chissà quanto. io ho staccato la spina.
mi stanco presto di ascoltarlo. a mio avviso dovrebbe parlare meno, rispondere alle mie domande con un no o con un si. con i suoi discorsi dice tutto ed il contrario di tutto. per avere una risposta da lui devo in pratica scegliere una delle risposte che più mi aggrada. non posso avere delle domande ed avere allo stesso tempo, io, le risposte. non sto facendo una specie di quiz, non sto conducendo un programma televisivo, nè tantomeno lui è un concorrente. caso mai dovrebbe essere lui a condurre, ed io chiuso in una cabina insonorizzata, con le cuffie alle orecchie, cercando di dare la risposta giusta.
ma lui, il dottore, dice sempre che non c'è una risposta giusta e una risposta sbagliata: sono le domande ad essere giuste o sbagliate. poco importa, credo io. quando lo dice penso sempre ad altro. penso che pure lui scarabocchia con la sua calligrafica incomprensibile, da dottore, delle parole su dei fogli. se sono malato io lo è pure lui. in fondo, penso, siamo tutti quanti un po' malati.
l'altra notte mi sono svegliato ed ho dovuto accendere la luce di camera dalla disperazione. al buio non mi rendevo conto di dove mi trovassi. non sapevo, non capivo, se fossi in una giungla, ai piedi delle piramidi, sull'argine di un fiume, o disperso nel bel mezzo di un deserto antartico. muovendo le mani nel disperato tentativo di orientarmi con il tatto, mi sentivo come una bussola impazzita circondata da magneti che suggerivano tutti nord sbagliati. cercavo a destra e mi sembrava di sentire un vento freddo; mi allungavo verso il basso del letto e mi trovavo con i piedi bagnati; sulla testa, stando fermo, batteva un sole caldo umido.
capita spesso. prima di addormentarmi passo ore a scrivere sui muri. compro pennarelli indelebili neri, di quelli che non vanno via, e riempio le pareti di casa con i viaggi che faccio utilizzando le parole a gonfiare le vele. ho ben presto ricoperto tutti i muri di casa, sia quelli portanti che quelli non portanti, e non ho i soldi per comprare la vernice, mettermi a lavorare per rimbiancarli tutti. così ultimamente ho iniziato a scrivere sulle lenzuola, le coperte, le federe dei cuscini. quando finisco cambio tutto, appallottolo da una parte ma non li porto mai a lavare. li lascio lì, in un angolo della camera, mentre con pazienza vesto il letto con altre pagine vuote. e riparto.
alcuni giorni fa ho chiesto al mio dottore se per caso stessi sbagliando: faccio bene, faccio male. mi dica dottore, come mi devo comportare? devo smettere di scrivere? devo iniziare a prendere delle medicine? magari qualche sciroppo che faccia in modo di far scivolare giù le parole dalla gola verso lo stomaco, per evitare che si fermino tutte quante incagliate qui, sul pomo d'adamo, senza andare né su e né giù, e l'unico modo per liberarmene è quello di vomitarle fuori. mi dica, cosa devo fare?
l'ho messo in crisi. si sentiva che non sapeva cosa rispondermi. ho ascoltato il suo silenzio mentre con una penna stilografica appuntava qualche considerazione nei miei confronti sul suo taccuino appoggiato sulle ginocchia. poi ha detto: non c'è il giusto o lo sbagliato, attaccando con una filippica che è durata chissà quanto. io ho staccato la spina.
mi stanco presto di ascoltarlo. a mio avviso dovrebbe parlare meno, rispondere alle mie domande con un no o con un si. con i suoi discorsi dice tutto ed il contrario di tutto. per avere una risposta da lui devo in pratica scegliere una delle risposte che più mi aggrada. non posso avere delle domande ed avere allo stesso tempo, io, le risposte. non sto facendo una specie di quiz, non sto conducendo un programma televisivo, nè tantomeno lui è un concorrente. caso mai dovrebbe essere lui a condurre, ed io chiuso in una cabina insonorizzata, con le cuffie alle orecchie, cercando di dare la risposta giusta.
ma lui, il dottore, dice sempre che non c'è una risposta giusta e una risposta sbagliata: sono le domande ad essere giuste o sbagliate. poco importa, credo io. quando lo dice penso sempre ad altro. penso che pure lui scarabocchia con la sua calligrafica incomprensibile, da dottore, delle parole su dei fogli. se sono malato io lo è pure lui. in fondo, penso, siamo tutti quanti un po' malati.
venerdì 11 giugno 2010
Consapevolezza
mi guardo intorno e vedo: la sensazione, la mia, di trovarmi nel posto giusto ma nel momento sbagliato. ha un volto offuscato dalla mia fatica, non riesco a distinguerne il sesso. mi dico: è un angelo. ma non ha le ali, i contorni sono netti, e quando mi attraversa, in un soffio, quasi a strapparmelo via dai polmoni, afferrandolo con una mano stretta a pungo e sturando tutti i nodi che ho dentro, mi lascia un vuoto che non è solo del respiro ma anche di sensatezza.
mi volto per cercare di rincorrerla, di prenderla per le spalle e recuperare ciò che mi ha rubato; ma dietro di me lei non c'è. non c'è dietro, non c'è davanti, non c'è di lato, a destra a sinistra, non c'è sopra, su per il cielo aggrappata alle nuvole, la mia sensazione, non c'è. si sarà scavata una buca, una buca profonda e si sarà nascosta sotto terra, sotto di me; ma non può essere: il terreno è duro, compatto, non c'è traccia di alcuno smussamento.
ho sete, mi dico. è meglio fermarmi. una voce però si lamenta, mi dice che non è vero, che non ho sete, che sto solo mentendo e mentire a me stesso vuol dire mentire il doppio, il quadruplo, mentire ed elevare all'ennesima potenza, un milione due milioni un miliardo centomila milioni di miliardi, la stessa stupida bugia che mi racconto senza parlare. ammettilo, stronzo. abbi il coraggio.
tutto ad un tratto ho come l'impressione che il mondo corra più lentamente di me, che io lo superi a passi stanchi, sudati, trascinati uno dietro l'altro con il solo intento di non raggiungere un traguardo ma di liberarmi di un peso. il mondo, mi dico, non dovrebbe andare più piano, dovrebbe essere il contrario: dovrebbe andare più veloce. solo così io mi posso affannare a recuperarlo. solo in questo modo avrebbe un senso trovarmi lo stesso dietro, essere comunque sempre secondo, terzo, quarto, quinto, esimo. non è possibile correre più veloce di tutti, di tutti quanti ed essere allo stesso tempo ultimo. non è possibile dettare l'andatura, spostare l'asticella più in alto, aumentare la velocità fino a far spaccare il quadrante dalla lancetta, essere sicuro di aver raggiunto superato e umiliato la luce sputandole negli occhi tutto il catarro rabbioso di frustrazione repressa; correre a perdifiato fino a consumarsi non tanto le suole delle scarpe quanto piuttosto i piedi stessi, prima, e le caviglie gli stinchi le ginocchia, poi: non vincere.
non ha senso. c'è qualcosa che non torna.
rilassati. va tutto bene, mi dice la mia sensazione. mi invita a sedermi su una panchina e si fa baciare, toccare, palpare, scopare fino in fondo senza alcuna paura remore pudore per il buon costume. si lascia penetrare, mi lascio penetrare. siamo due corpi avvinghiati in permutazione continua che si stringono sempre più stretti e nudi e spenti e accesi e liberi e non costretti a posizioni forzate dalla gravità ultima e terrestre; sporchi di terra, di erba, di aghi di pino caduti dagli alberi e che ci pizzicano la pelle nelle zone più morbide e delicate possibili, i rossori delle nostre unghie che afferrano la carne nel tentativo di strapparla via e di inglobarci fino in fondo nei più primitivi e naturali termini, pure cellule contro cellule, legando una ad una ogni singola fibra, muscolo, tendine e cervello.
ci ingoiamo a vicenda, digerendoci lentamente in un bagno di succhi, gastrici linfatici umorali, fluidi, zampillii di consapevolezza - non è buono, non è giusto, non è corretto, non è sano, non è civile; siamo contenti di non essere così civili da non riuscire a goderci un tuffo nelle acque così schiumose di un'ebbrezza che non è ebbrezza ma pura e semplice frenesia - sperma opaco a disegnare le onde.
a volte, mi dice con il tono genuino della spossatezza, le situazioni vanno trattate come l'acqua: vanno bevute e poi pisciate via.
mi volto per cercare di rincorrerla, di prenderla per le spalle e recuperare ciò che mi ha rubato; ma dietro di me lei non c'è. non c'è dietro, non c'è davanti, non c'è di lato, a destra a sinistra, non c'è sopra, su per il cielo aggrappata alle nuvole, la mia sensazione, non c'è. si sarà scavata una buca, una buca profonda e si sarà nascosta sotto terra, sotto di me; ma non può essere: il terreno è duro, compatto, non c'è traccia di alcuno smussamento.
ho sete, mi dico. è meglio fermarmi. una voce però si lamenta, mi dice che non è vero, che non ho sete, che sto solo mentendo e mentire a me stesso vuol dire mentire il doppio, il quadruplo, mentire ed elevare all'ennesima potenza, un milione due milioni un miliardo centomila milioni di miliardi, la stessa stupida bugia che mi racconto senza parlare. ammettilo, stronzo. abbi il coraggio.
tutto ad un tratto ho come l'impressione che il mondo corra più lentamente di me, che io lo superi a passi stanchi, sudati, trascinati uno dietro l'altro con il solo intento di non raggiungere un traguardo ma di liberarmi di un peso. il mondo, mi dico, non dovrebbe andare più piano, dovrebbe essere il contrario: dovrebbe andare più veloce. solo così io mi posso affannare a recuperarlo. solo in questo modo avrebbe un senso trovarmi lo stesso dietro, essere comunque sempre secondo, terzo, quarto, quinto, esimo. non è possibile correre più veloce di tutti, di tutti quanti ed essere allo stesso tempo ultimo. non è possibile dettare l'andatura, spostare l'asticella più in alto, aumentare la velocità fino a far spaccare il quadrante dalla lancetta, essere sicuro di aver raggiunto superato e umiliato la luce sputandole negli occhi tutto il catarro rabbioso di frustrazione repressa; correre a perdifiato fino a consumarsi non tanto le suole delle scarpe quanto piuttosto i piedi stessi, prima, e le caviglie gli stinchi le ginocchia, poi: non vincere.
non ha senso. c'è qualcosa che non torna.
rilassati. va tutto bene, mi dice la mia sensazione. mi invita a sedermi su una panchina e si fa baciare, toccare, palpare, scopare fino in fondo senza alcuna paura remore pudore per il buon costume. si lascia penetrare, mi lascio penetrare. siamo due corpi avvinghiati in permutazione continua che si stringono sempre più stretti e nudi e spenti e accesi e liberi e non costretti a posizioni forzate dalla gravità ultima e terrestre; sporchi di terra, di erba, di aghi di pino caduti dagli alberi e che ci pizzicano la pelle nelle zone più morbide e delicate possibili, i rossori delle nostre unghie che afferrano la carne nel tentativo di strapparla via e di inglobarci fino in fondo nei più primitivi e naturali termini, pure cellule contro cellule, legando una ad una ogni singola fibra, muscolo, tendine e cervello.
ci ingoiamo a vicenda, digerendoci lentamente in un bagno di succhi, gastrici linfatici umorali, fluidi, zampillii di consapevolezza - non è buono, non è giusto, non è corretto, non è sano, non è civile; siamo contenti di non essere così civili da non riuscire a goderci un tuffo nelle acque così schiumose di un'ebbrezza che non è ebbrezza ma pura e semplice frenesia - sperma opaco a disegnare le onde.
a volte, mi dice con il tono genuino della spossatezza, le situazioni vanno trattate come l'acqua: vanno bevute e poi pisciate via.
giovedì 10 giugno 2010
L'inutilità ossea
Oggi, non so come, sono sparito. In una nuvola di fumo ho fatto plof e nessuno mi ha più visto. Non avevo faccia, non avevo labbra, non avevo respiro, né un corpo. Ho visto allontanarsi tutti, o ero io che mi allontanavo da loro, o ero io che allontanavo loro, o ero io. Il vento ha iniziato a soffiare contro le insegne dei negozi. I miei capelli salutavano l'aria e mi facevano sentire inadatto. Anche io volevo salutare l'aria. Ma era l'aria che non salutava me. Facevo ciao ciao con la manina, e la manina cominciava ad andare in cancrena. Il sangue non ci arrivava più. Era oppresso da tutte le calunnie dette dietro alle spalle, e non riusciva a passare il polso.
No, non erano le stesse calunnie che mi frenano, che mi fanno esaurire. Quelle sono cattiverie solo per metà, quelle che combattono contro di me. Hanno un'armatura che ho costruito io, e che io ho convinto loro ad indossare. Vanno in guerra, orde e orde di pensieri e seghe mentali, contro un ingenuo civile. Sogno i mulini a vento, e vedo arrivare l'insicurezza. Forse è per questo che la memoria se ne scappa via, non urlando conclamata ma silenziosa per non farsi notare. Così non ricordo più la parola che ti piaceva, quell'unione di lettere che danzando sulle mie labbra hanno baciato le tue orecchie.
Fatti rosa, più di quanto io non riesca a farmi porpora. Sarà lo schiudersi di molti petali allo stesso momento a svegliare i nostri sentimenti in letargo. Abbiamo raccolto provviste per sopravvivere all'inverno, al freddo duro e solitario; ma come reagiremo quando le situazioni ci verranno contro barbare, e senza logica nè preavviso, sbattendoci verso i muri in un assolato giorno di estate?
Le ossa si spezzeranno. Lo so.
Lascia che i muri crollino. Lo spazio aperto. Le vallate verdi da 32 pollici. Il cielo terso. Le nuvole di zucchero. L'erba. E la temperatura mite. E gli insetti inoffensivi. E le fantasie più spropositate.
Per tutto questo non abbiamo bisogno di alcun scheletro che ci sostenga.
No, non erano le stesse calunnie che mi frenano, che mi fanno esaurire. Quelle sono cattiverie solo per metà, quelle che combattono contro di me. Hanno un'armatura che ho costruito io, e che io ho convinto loro ad indossare. Vanno in guerra, orde e orde di pensieri e seghe mentali, contro un ingenuo civile. Sogno i mulini a vento, e vedo arrivare l'insicurezza. Forse è per questo che la memoria se ne scappa via, non urlando conclamata ma silenziosa per non farsi notare. Così non ricordo più la parola che ti piaceva, quell'unione di lettere che danzando sulle mie labbra hanno baciato le tue orecchie.
Fatti rosa, più di quanto io non riesca a farmi porpora. Sarà lo schiudersi di molti petali allo stesso momento a svegliare i nostri sentimenti in letargo. Abbiamo raccolto provviste per sopravvivere all'inverno, al freddo duro e solitario; ma come reagiremo quando le situazioni ci verranno contro barbare, e senza logica nè preavviso, sbattendoci verso i muri in un assolato giorno di estate?
Le ossa si spezzeranno. Lo so.
Lascia che i muri crollino. Lo spazio aperto. Le vallate verdi da 32 pollici. Il cielo terso. Le nuvole di zucchero. L'erba. E la temperatura mite. E gli insetti inoffensivi. E le fantasie più spropositate.
Per tutto questo non abbiamo bisogno di alcun scheletro che ci sostenga.
mercoledì 9 giugno 2010
Al di là dello specchio
E' iniziare a darsi lo slancio con il polpaccio, tallone punta, sforzo dei muscoli che passa ai tendini e si trasforma in movimento sulle ossa: la cosa più difficile. L'azione lunga attraverso cui tutto parte e che divide il peso, il cielo sopra le nostre teste si fa lilla, le nuvole oro lucente attorno al sole. Diventa tutto così fantastico e irreale quando ci sei: leggero di una leggerezza senza conseguenze né colore. Siamo distanti dal mondo, quello vero, quello che ci sveglia la mattina facendoci aprire le palpebre contro il soffitto, contro la sveglia, contro il lato accanto al letto dove non ci sei. Quanto sarebbe tutto più facile se non ci fosse la gravità, se abitassimo sulla luna, e tutte le città e i crateri fossere dei grandi giganteschi luna park. Noi galleggeremmo ad ogni passo senza peso, allegri e felici come astronauti alle prime armi, senza toccare la polvere sotto le suole, o scontrarci contro il cielo sbattendo i caschi con i respiratori su soffitti che non esisterebbero. I nodi si slaccerebbero nel giro di un secondo: le mie emozioni, i miei umori. Vedersi non sarebbe più come queste parole crociate che facciamo ogni giorno, ogni sera; piccoli segnali di fumo come gli indiani a caccia di bisonti; le parole crociate dei primi crociati, ricchi e poveri cavalieri di ventura al galoppo verso tesori inestimabili: te.
E allora promettimi, giurami, che faremo di tutto affinché la realtà non prenda mai il sopravvento. Su me, su te, su noi. Portami a vivere su una stazione orbitante, accanto ai satelliti delle stazioni televisive, ai satelliti militari, e delle compagnie telefoniche; a guardare le stelle cadenti entrare nell'atmosfera e bruciare in polvere incandescente. Andiamo a cercare gli alieni su Marte, altre forme di vita, con quattro braccia e quattro gambe, due cuori, i tuoi occhi; con le arterie che si spostano da un corpo all'altro, ponti sospesi all'aria aperta. Andiamo a trovare uno spazio tutto nostro, solo nostro; costruiamo nuovi universi, nuove galassie, cieli sempre diversi. Scopriamo una nuova America, un nuovo regno, dei sogni e non bisogni, dove poter fare tutto quello che vogliamo. Ma ti prego, ti scongiuro: non restiamo troppo tempo in questa stupida realtà; perché il mondo vero, quello di adesso, a volte mi fa male, mentre i posti dove mi porti te, dove potemmo stare insieme, sono meraviglie che faccio ad occhi aperti.
E allora promettimi, giurami, che faremo di tutto affinché la realtà non prenda mai il sopravvento. Su me, su te, su noi. Portami a vivere su una stazione orbitante, accanto ai satelliti delle stazioni televisive, ai satelliti militari, e delle compagnie telefoniche; a guardare le stelle cadenti entrare nell'atmosfera e bruciare in polvere incandescente. Andiamo a cercare gli alieni su Marte, altre forme di vita, con quattro braccia e quattro gambe, due cuori, i tuoi occhi; con le arterie che si spostano da un corpo all'altro, ponti sospesi all'aria aperta. Andiamo a trovare uno spazio tutto nostro, solo nostro; costruiamo nuovi universi, nuove galassie, cieli sempre diversi. Scopriamo una nuova America, un nuovo regno, dei sogni e non bisogni, dove poter fare tutto quello che vogliamo. Ma ti prego, ti scongiuro: non restiamo troppo tempo in questa stupida realtà; perché il mondo vero, quello di adesso, a volte mi fa male, mentre i posti dove mi porti te, dove potemmo stare insieme, sono meraviglie che faccio ad occhi aperti.
martedì 8 giugno 2010
Quando non arrivammo da Ikea
Prima di arredare casa abbiamo provato a distruggere la macchina, buttando giù in qualche modo i sedili posteriori dove raramente ci siamo sdraiati per dormire abbracciati. Abbiamo abbassato i poggiatesta alzati dai tuoi due amanti.
Sotto casa tua ho inquinato il mondo, con il motore acceso, la radio a volume alto, e il riscaldamento con la ventola a due. Poi siamo andati ad incrementare il traffico, lungo l'autostrada del mare percorsa al contrario, facendo discorsi semiseri sugli scienziati e i dottorati su scrittori scomparsi; sui libri introvabili e sulle persone antipatiche che alla fine li trovano. Tu seria, ed io a parlare e ad incalzare il tuo sbuffare. Fino a quando non ci siamo innamorati di un letto, ed io ci volevo fare l'amore, leggerci un buon libro, scriverci storie incredbibili su navi spaziali e pirati coraggiosi, portarci la colazione con i fiori, dormirci, sognarci, farci i nostri discorsi semiseri sulla scienza e la disposizione dei pianeti.
Ed invece ora mangiamo piccante su un cielo blu che non ha nuvole. Guardiamo la tv fino a perdere la vista, e mentre l'amore perde significato in immagini a bassa definizione mi addormento con lo stomaco pieno. E mi sveglio la notte, e bevo, e vado in bagno, e mi riaddormento, e mi sveglio, e bevo, e accendo la luce, leggo, e aspetto che il sole filtri dalla finestra.
Tu mi hai preso per mano, e mi hai portato via.
Sotto casa tua ho inquinato il mondo, con il motore acceso, la radio a volume alto, e il riscaldamento con la ventola a due. Poi siamo andati ad incrementare il traffico, lungo l'autostrada del mare percorsa al contrario, facendo discorsi semiseri sugli scienziati e i dottorati su scrittori scomparsi; sui libri introvabili e sulle persone antipatiche che alla fine li trovano. Tu seria, ed io a parlare e ad incalzare il tuo sbuffare. Fino a quando non ci siamo innamorati di un letto, ed io ci volevo fare l'amore, leggerci un buon libro, scriverci storie incredbibili su navi spaziali e pirati coraggiosi, portarci la colazione con i fiori, dormirci, sognarci, farci i nostri discorsi semiseri sulla scienza e la disposizione dei pianeti.
Ed invece ora mangiamo piccante su un cielo blu che non ha nuvole. Guardiamo la tv fino a perdere la vista, e mentre l'amore perde significato in immagini a bassa definizione mi addormento con lo stomaco pieno. E mi sveglio la notte, e bevo, e vado in bagno, e mi riaddormento, e mi sveglio, e bevo, e accendo la luce, leggo, e aspetto che il sole filtri dalla finestra.
Tu mi hai preso per mano, e mi hai portato via.
lunedì 7 giugno 2010
Le perle alle orecchie
la gente è triste perché è costretta ad indossare le perle alle orecchie. e si nasconde dietro occhiali da sole grandi quanto la faccia per non far vedere la propria espressione, la direzione dello sguardo. pensa che così facendo si possa nascondere non solo le pupille e le palpebre, a volte pure le sopracciglia insieme alle ciglia, ma anche lo stato d'animo che si attraversa, senza passaporto o visto di ingresso, permesso di soggiorno.
così nel tempo che ci resta, durante il viaggio, ci spiamo in silenzio, io e la gente, senza parlare, almeno non con la bocca, ma comunicando solo con dei gesti piccoli ed innocenti. come quando volge la testa verso la mia direzione, in modo tale da potermi far pensare a quel che invece sta pensando lei. fantasticare sui suoi pensieri, i suoi sentimenti, i suoi affetti, i suoi sorrisi sofferti o sinceri che siano basta che siano. se ci avvicinassimo, anche solo di poco, io e la gente, giusto un soffio, il suo del respiro, il mio di tutti quanti i miei polmoni, potremmo discutere di quante poche possibilità di vita potrebbe avere un asmatico dentro la metropolitana; di quante facce strane sconvolte e diverse potremmo trovare dentro un singolo vagone; di come questo sembri essere tutto quanto un'enorme zoo in fuga sui binari, con dentro le sbarre ogni possibile variante di persona a rappresentare tutta per intera la già larga specie umana: c'è la signora indaffarata che prende appunti su un foglio di carta appoggiato sulle ginocchia; c'è la combriccola di amici con gli zaini ancora stracolmi dai libri di scuola che paiono prepararsi per l'esame di stato, quando fuori invece c'è un sole che sembra al contrario invitarli come un serpente a giocare per i prati; c'è la turista con il vestito corto a piccoli fiori celesti su sfondo color crema; c'è il signore addormentato con la testa reclinata in avanti a formare un angolo così strano da sembrare come appeso a ciondolar giù da un cappio invisibile legato stretto attorno al collo; c'è il tizio seduto in fondo con la canotta da muratore bella tutta quanta linda e pulita, con le braccia ricoperte da tatuaggi colorati e pacchiani.
ci sono tutti questi strani animali non ancora catalogati alla perfezione, senza il cartellino didascalico appuntato in petto con su scritto a quale famiglia appertengono, se sono erbivori o carnivori, vegani intransigenti ventiquattr'ore su ventiquattro sette giorni su sette, o vegani durante l'orario di lavoro che non appena cala il sole e si stende la notte è tutto un tranciar carni di bistecca e di vitello; c'è questo gregge di persone tutto quanto attorno a me, mentre io seduto in disparte non faccio altro che ripetermi dentro la mia testa il motivo vero e proprio per cui le persone, tutte quante, sono tristi: è perché la gente è costretta ad indossare le perle alle orecchie, mi dico mi ripeto come una filastrocca per impararmela a memoria, cadenzata a suon di battute della lingua sul palato, a schioccar le consonanti più spigolose e arrotondare quanto più possibile le vocali panciute e gonfie. non voglio dimenticarla questa cosa, il motivo della tristezza delle persone, quasi fosse il segreto inconfessabile della vita, perché penso che se in fondo fosse vero, se le persone fossero davvero tristi solo per il semplice motivo che son costrette ad indossare le perle alle orecchie, allora basterebbe togliersi gli orecchini e mettersene un paio un po' più alla moda, magari dei cerchi dorati, o non mettersene affatto, per esser felici e dimenticare ogni cosa: preoccupazioni, sentimenti, persone, città e animali. sarebbe così facile.
come quando ti dicevo che milano era grigia e tu mi rimproveravi di non tirare in ballo questi luoghi comuni, che non era vero e che avrei dovuto abitarci per saperlo davvero e poter dire una stronzata del genere rendendomi conto solo dopo averci vissuto per qualche tempo di quanto stronza fosse la stronzata che stavo dicendo dipingendo milano di grigio, con lo smog e la pioggia; ma alla fine non partivi. no: alla fine non partivi e rimanevi qui, a parlar dei fiori e del cielo, dell'aria serena e vaga, di quanto fosse strano sentirsi leggeri tenendosi per mano, nonostante tutto e nonostante chi eravamo e chi saremmo stati ancora per un sacco di tempo; e non indossavi orecchini con le perle ma sorridevi così tanto che non importava affatto cosa avessi e cosa non avessi addosso: anche se non portavi quasi mai alcun tipo di orecchini.
così nel tempo che ci resta, durante il viaggio, ci spiamo in silenzio, io e la gente, senza parlare, almeno non con la bocca, ma comunicando solo con dei gesti piccoli ed innocenti. come quando volge la testa verso la mia direzione, in modo tale da potermi far pensare a quel che invece sta pensando lei. fantasticare sui suoi pensieri, i suoi sentimenti, i suoi affetti, i suoi sorrisi sofferti o sinceri che siano basta che siano. se ci avvicinassimo, anche solo di poco, io e la gente, giusto un soffio, il suo del respiro, il mio di tutti quanti i miei polmoni, potremmo discutere di quante poche possibilità di vita potrebbe avere un asmatico dentro la metropolitana; di quante facce strane sconvolte e diverse potremmo trovare dentro un singolo vagone; di come questo sembri essere tutto quanto un'enorme zoo in fuga sui binari, con dentro le sbarre ogni possibile variante di persona a rappresentare tutta per intera la già larga specie umana: c'è la signora indaffarata che prende appunti su un foglio di carta appoggiato sulle ginocchia; c'è la combriccola di amici con gli zaini ancora stracolmi dai libri di scuola che paiono prepararsi per l'esame di stato, quando fuori invece c'è un sole che sembra al contrario invitarli come un serpente a giocare per i prati; c'è la turista con il vestito corto a piccoli fiori celesti su sfondo color crema; c'è il signore addormentato con la testa reclinata in avanti a formare un angolo così strano da sembrare come appeso a ciondolar giù da un cappio invisibile legato stretto attorno al collo; c'è il tizio seduto in fondo con la canotta da muratore bella tutta quanta linda e pulita, con le braccia ricoperte da tatuaggi colorati e pacchiani.
ci sono tutti questi strani animali non ancora catalogati alla perfezione, senza il cartellino didascalico appuntato in petto con su scritto a quale famiglia appertengono, se sono erbivori o carnivori, vegani intransigenti ventiquattr'ore su ventiquattro sette giorni su sette, o vegani durante l'orario di lavoro che non appena cala il sole e si stende la notte è tutto un tranciar carni di bistecca e di vitello; c'è questo gregge di persone tutto quanto attorno a me, mentre io seduto in disparte non faccio altro che ripetermi dentro la mia testa il motivo vero e proprio per cui le persone, tutte quante, sono tristi: è perché la gente è costretta ad indossare le perle alle orecchie, mi dico mi ripeto come una filastrocca per impararmela a memoria, cadenzata a suon di battute della lingua sul palato, a schioccar le consonanti più spigolose e arrotondare quanto più possibile le vocali panciute e gonfie. non voglio dimenticarla questa cosa, il motivo della tristezza delle persone, quasi fosse il segreto inconfessabile della vita, perché penso che se in fondo fosse vero, se le persone fossero davvero tristi solo per il semplice motivo che son costrette ad indossare le perle alle orecchie, allora basterebbe togliersi gli orecchini e mettersene un paio un po' più alla moda, magari dei cerchi dorati, o non mettersene affatto, per esser felici e dimenticare ogni cosa: preoccupazioni, sentimenti, persone, città e animali. sarebbe così facile.
come quando ti dicevo che milano era grigia e tu mi rimproveravi di non tirare in ballo questi luoghi comuni, che non era vero e che avrei dovuto abitarci per saperlo davvero e poter dire una stronzata del genere rendendomi conto solo dopo averci vissuto per qualche tempo di quanto stronza fosse la stronzata che stavo dicendo dipingendo milano di grigio, con lo smog e la pioggia; ma alla fine non partivi. no: alla fine non partivi e rimanevi qui, a parlar dei fiori e del cielo, dell'aria serena e vaga, di quanto fosse strano sentirsi leggeri tenendosi per mano, nonostante tutto e nonostante chi eravamo e chi saremmo stati ancora per un sacco di tempo; e non indossavi orecchini con le perle ma sorridevi così tanto che non importava affatto cosa avessi e cosa non avessi addosso: anche se non portavi quasi mai alcun tipo di orecchini.
venerdì 4 giugno 2010
Intro/Depedis
Arrivederci primo amore mio
chi si violenta gode
arrivederci Padre
scusi se
non ho saputo ritrovare Dio
cercando solo in me.
Anche se ho visto certe cose che
offendono la sua bellezza,
se le sue mani mi volessero
le sposerei con le mie mani
mi direi che questa vita no
non è finita.
Arriverderci Roma scusa se
ti ho ricordato che si muore
arriverderci giovinezza mia
Trastevere di brutte cose
ricordati di me
Anche se ho fatto certe cose che
amplificano la mia vanità
se le tue mani mi volessero
le sposerei tra le mie mani
ti direi che questa vita no
non è possibile, non è possibile.
chi si violenta gode
arrivederci Padre
scusi se
non ho saputo ritrovare Dio
cercando solo in me.
Anche se ho visto certe cose che
offendono la sua bellezza,
se le sue mani mi volessero
le sposerei con le mie mani
mi direi che questa vita no
non è finita.
Arriverderci Roma scusa se
ti ho ricordato che si muore
arriverderci giovinezza mia
Trastevere di brutte cose
ricordati di me
Anche se ho fatto certe cose che
amplificano la mia vanità
se le tue mani mi volessero
le sposerei tra le mie mani
ti direi che questa vita no
non è possibile, non è possibile.
Performed by Amor Fou
giovedì 3 giugno 2010
Siamo tutti prigionieri
quando le persone sono prigioniere di altre persone si tende a sbirciare il mondo dalle uniche misere finestre concesse dentro la propria cella, cercando di far passare la testa tra le sbarre. c'è chi bacia attraverso quelle sbarre, nota bene, e quando è così non si può far altro che piegarsi alla curva del tempo e dello spazio, chinare il capo verso la sfumatura più bella che ci possa passare accanto, quasi sfiorandoci in un solo punto, soffiandoci contro la bellezza di un sospiro di tangente: un leggero sussurro che pare urlare alla realtà fuori, con il rumore silenzioso o il silenzio rumoroso di sottofondo alzato verso l'alto, con i bassi, rari e pizzicati, a vibrare tra le orecchie di chi quel bacio tra le sbarre non lo riceverà mai, eppur lo agogna. c'è chi invece vede ristringersi la propria visuale, a causa del movimento degli occhi che paiono come infagottarsi uno contro l'altro, abbracciando il naso, spinti dalla forza delle tempie incuneate tra le sbarre.
si crea anche un piccolo micro sistema, una società tutta unica e particolare all'interno di un carcere dove le regole si trasformano, cambiando senso simboli e pure pene. l'essere fuorilegge quando si è già stati puniti dalla legge acquista un significato tutto particolare, un significato che oltrepassa quello indicato in qualsiasi vocabolario e che sovrasta il senso attribuibile alla parola e al concetto del mondo fuori, nella realtà dei maggior parte, nella società sana, matura al punto giusto, di chi fa e sente e beve e fuma e legge e corre e ride e odia ed ama. perché giudicare i già giudicati, puntare il dito contro persone della propria razza, dopo esser consci di essersi trasformati insieme in una specie nuova, con sempre due braccia due gambe una testa due polmoni un pene una vagina, le unghie che crescono insieme ai capelli o alla barba, è l'unica soddisfazione che ci rimane; giocare al massacro reciproco, cercando di affondare la testa del più debole sempre più in fondo sia nello scroto di chi è già morto o, in mancanza di un cadavere, nell'acqua putrida del cesso più sporco e zozzo dell'intera scozia: è un vizio che è duro a morire, anche tra i criminale più incalliti, che di solito si pensa esser dediti a peccati ancor più gravi.
questo rimane a chi ormai ha perso tutto in una sola stupida mano, o chi invece è riuscito a farsi più di un giro senza pagarne poi le conseguenze, ad ogni singola mandata, ma che alla fine è stato preso, catturato, imprigionato, indicato, non come mostro ma bensì come animale, da famigliole felici, tutte agghindate alla perfezione mentre portano i figli ancora vergini, bambini così teneri da far invidia all'innocenza stessa, a fare un giro allo zoo, per vedere cosa erano i loro antichi sogni dei loro stessi progenitori, antenati, non cartoni animati: bestie senza vestiti, che per mangiare non usano le posate e se gli porgi una forchetta loro la rompono.
divaghiamo:
chissà cosa penseranno quegli stessi genitori che ora si atteggiano come paladini della giustizia quando saranno i loro figli a strapparsi via di dosso le camice i pantaloni le mutande, si strapperanno pure la pelle via dalle ossa squartandosi la carne; chissà cosa urleranno, come imprecheranno, per spazzare via dalla memoria che pure loro stessi hanno avuto quella stagione di pazza non sviscerabile follia, durante la quale cercavano di trarre quanto più piacere si potesse dallo scavare in fondo al corpo, quando il prurito prude e prude ancor di più e non serve a niente grattarsi, serve solo a sentir ancor più prurito.
quindi non cercare di venir qui a giudicarmi. non fare insulsi giochi di parole cercando una tua improbabile innocenza nel tirare in ballo me: io sono qui da molto più tempo, si può dire che tu oggi sia entrata/o in casa mia, ed hai deciso di insultarmi, in modo sibillino da far incuneare il dubbio, ma quale dubbio?, invece di venir da me con ricchi doni, oro incenso e mirra, per non dico inchinarti al mio cospetto - no non voglio perché già io mi son sbucciato via le ginocchi a suon di chinarmi e prostrarmi come un mulo, come un umile - ma quanto meno per presentarti, farti conoscere anche se già sapevo chi tu fossi e cosa hai fatto, quale è stata ed è tutt'ora la tua colpa: quella che ci grava addosso sopra il capo a tutti noi, chiunque sia rinchiuso qui. non commettere l'errore di pensarti speciale, importante o chissà che: quel che hai fatto tu lo abbiamo già fatto noi mille e mille volte, forse pure meglio.
si crea anche un piccolo micro sistema, una società tutta unica e particolare all'interno di un carcere dove le regole si trasformano, cambiando senso simboli e pure pene. l'essere fuorilegge quando si è già stati puniti dalla legge acquista un significato tutto particolare, un significato che oltrepassa quello indicato in qualsiasi vocabolario e che sovrasta il senso attribuibile alla parola e al concetto del mondo fuori, nella realtà dei maggior parte, nella società sana, matura al punto giusto, di chi fa e sente e beve e fuma e legge e corre e ride e odia ed ama. perché giudicare i già giudicati, puntare il dito contro persone della propria razza, dopo esser consci di essersi trasformati insieme in una specie nuova, con sempre due braccia due gambe una testa due polmoni un pene una vagina, le unghie che crescono insieme ai capelli o alla barba, è l'unica soddisfazione che ci rimane; giocare al massacro reciproco, cercando di affondare la testa del più debole sempre più in fondo sia nello scroto di chi è già morto o, in mancanza di un cadavere, nell'acqua putrida del cesso più sporco e zozzo dell'intera scozia: è un vizio che è duro a morire, anche tra i criminale più incalliti, che di solito si pensa esser dediti a peccati ancor più gravi.
questo rimane a chi ormai ha perso tutto in una sola stupida mano, o chi invece è riuscito a farsi più di un giro senza pagarne poi le conseguenze, ad ogni singola mandata, ma che alla fine è stato preso, catturato, imprigionato, indicato, non come mostro ma bensì come animale, da famigliole felici, tutte agghindate alla perfezione mentre portano i figli ancora vergini, bambini così teneri da far invidia all'innocenza stessa, a fare un giro allo zoo, per vedere cosa erano i loro antichi sogni dei loro stessi progenitori, antenati, non cartoni animati: bestie senza vestiti, che per mangiare non usano le posate e se gli porgi una forchetta loro la rompono.
divaghiamo:
chissà cosa penseranno quegli stessi genitori che ora si atteggiano come paladini della giustizia quando saranno i loro figli a strapparsi via di dosso le camice i pantaloni le mutande, si strapperanno pure la pelle via dalle ossa squartandosi la carne; chissà cosa urleranno, come imprecheranno, per spazzare via dalla memoria che pure loro stessi hanno avuto quella stagione di pazza non sviscerabile follia, durante la quale cercavano di trarre quanto più piacere si potesse dallo scavare in fondo al corpo, quando il prurito prude e prude ancor di più e non serve a niente grattarsi, serve solo a sentir ancor più prurito.
quindi non cercare di venir qui a giudicarmi. non fare insulsi giochi di parole cercando una tua improbabile innocenza nel tirare in ballo me: io sono qui da molto più tempo, si può dire che tu oggi sia entrata/o in casa mia, ed hai deciso di insultarmi, in modo sibillino da far incuneare il dubbio, ma quale dubbio?, invece di venir da me con ricchi doni, oro incenso e mirra, per non dico inchinarti al mio cospetto - no non voglio perché già io mi son sbucciato via le ginocchi a suon di chinarmi e prostrarmi come un mulo, come un umile - ma quanto meno per presentarti, farti conoscere anche se già sapevo chi tu fossi e cosa hai fatto, quale è stata ed è tutt'ora la tua colpa: quella che ci grava addosso sopra il capo a tutti noi, chiunque sia rinchiuso qui. non commettere l'errore di pensarti speciale, importante o chissà che: quel che hai fatto tu lo abbiamo già fatto noi mille e mille volte, forse pure meglio.
mercoledì 2 giugno 2010
Preparativi
può non sembrare ma sono nervosa. è circa un'ora che sono qui in piedi davanti allo specchio di camera mia a spazzolarmi i capelli, con quest'aria spenta di attesa che pare non contenermi neppure. vorrei fossero più lisci, i capelli, meno riccioli di così. ad ogni colpo di spazzola cerco di stenderli al massimo della loro lunghezza, talmente tanto che mi arrivano quasi alla vita; ma poi loro non appena li lascio, mollo la presa, schizzano come molle verso l'alto, fermandosi in queste onde che sono una specie di anticamera di più veri e propri boccoli.
ho paura che a lui non piacciano; che a lui non piaccia io, in verità. fosse il male dei capelli o del loro colore: questo biondo sporco che non è un biondo vero ma tende insistente al rosso, quasi avessi dei fili di rame al posto dei capelli; ma anche le lentiggini. comincio a vergognarmi di tutte queste lentiggini che mi sono quasi esplose in faccia e hanno lasciato i segni sopra il naso, sulle guancie. anche se lui, è vero, l'ultima volta mi ha accarezzato il volto e mi ha detto che gli piacciono, sul serio, ha detto lui: sembrano delle stelle che cercano di espandersi insieme a tutto quanto l'universo.
ho sorriso, cercando di nascondere tra le spalle il fatto che stavo senza volerlo arrossendo. non sono ancora abituata ai suoi complimenti. è strano come a volte le cose che più desiderare con tutto il cuore siano anche le stesse che riescono a metterti in imbarazzo con estrema facilità. un giorno, mi son detta, non avrò problema a sentirmi dire certe cose da lui, anzi: le esigerò, pretenderò che me le dica ogni giorno di continuo, per potermi cullare nella loro dolcezza. ma ora, adesso, non ho ancora imparato a gestire certe sue parole, e di tanto in tanto mi accorgo di averne quasi paura, come se per quanto tenere esse siano nascondino lame affilate oppure sporgenze arrugginite.
così: mi piace ripensare a come lui mi ha detto certe cose, al tono della sua voce, ai suoi occhi che si avvicinavano ai miei, alle sue dita, morbide sui polpastrelli, che mi lisciavano le guance; ma allo stesso tempo cerco di allontanarmene, da tutta questa scena. mi dico che con le mani non stava lisciando la pelle, non lo faceva perché le mie lentiggini gli piacevano, quanto piuttosto cercava di pulirmele via dalla faccia, come si fa con lo sporco, con la polvere che si adagia sui mobili.
ecco a cosa penso e non penso, a cosa cerco di non pensare, mentre mi spazzolo distrattamente i capelli davanti allo specchio. mi chiedo se abbia davvero senso tutto questo, un tiro alla fune tra i miei desideri e le mie più incognite paure; perché quando vengo trascinata verso il basso, mi guardo seria per un attimo allo specchio e mi rendo conto che tutta questa pagliacciata è solo una grossa perdita di tempo: non ha importanza essersi truccata, pettinata, vestita alla perfezione; aver steso quel leggero tocco di rossetto che quasi non si nota sulle labbra, indossato le calze viola sperando che portino fortuna, intonate alla maglia con lo scollo a V profondo, aver tirato giù dall'armadio il cappotto nero più elegante che abbia mai comprato, intonato con una borsa da donna matura per far bella figura; ma anche solo dopo minuti, quando lo sconforto è passato, e tutta la mia tristezza è stato spazzata via come da un mio stesso colpo di spazzola, mi sento euforica, entusiasta, e tutto quanto non ha ugualmente senso ma sotto un altro diversissimo aspetto: il rossetto vorrei che me lo sbavasse via a suon di baci, le calze viola e la maglia intonata sfilate via per stenderci su di un letto e riempirci di carezze nude e furiose, selvatiche trattenute in gabbia per tutto questo tempo: da quando mi ha fermato per conoscermi, ed ho sognato che lo facesse afferrandomi per la vita con una mano, fino ad oggi che mi preparo per rivederlo.
mi chiedo se quando sarò con lui la smetterò di essere così scostante, con questi cambi di umori e sensazioni: dalle stelle alle stalle. magari sono solo una specie di calamita, con tutta questa carica magnetica che mi sconvolge anche nei sentimenti, e basterebbe averlo accanto, lui ferro, per abbracciarlo, appiccicarmi ad esso ed equilibrare tutta questa confusione.
vorrei solo che mi dicesse che mi vuole bene, mi basterebbe questo, giuro non desidererei altro; e vorrei che io finalmente ci credessi, alle sue parole, al suo volermi bene, smettendo di avere tutta questa maledetta paura, più di me stessa che non di lui.
ho paura che a lui non piacciano; che a lui non piaccia io, in verità. fosse il male dei capelli o del loro colore: questo biondo sporco che non è un biondo vero ma tende insistente al rosso, quasi avessi dei fili di rame al posto dei capelli; ma anche le lentiggini. comincio a vergognarmi di tutte queste lentiggini che mi sono quasi esplose in faccia e hanno lasciato i segni sopra il naso, sulle guancie. anche se lui, è vero, l'ultima volta mi ha accarezzato il volto e mi ha detto che gli piacciono, sul serio, ha detto lui: sembrano delle stelle che cercano di espandersi insieme a tutto quanto l'universo.
ho sorriso, cercando di nascondere tra le spalle il fatto che stavo senza volerlo arrossendo. non sono ancora abituata ai suoi complimenti. è strano come a volte le cose che più desiderare con tutto il cuore siano anche le stesse che riescono a metterti in imbarazzo con estrema facilità. un giorno, mi son detta, non avrò problema a sentirmi dire certe cose da lui, anzi: le esigerò, pretenderò che me le dica ogni giorno di continuo, per potermi cullare nella loro dolcezza. ma ora, adesso, non ho ancora imparato a gestire certe sue parole, e di tanto in tanto mi accorgo di averne quasi paura, come se per quanto tenere esse siano nascondino lame affilate oppure sporgenze arrugginite.
così: mi piace ripensare a come lui mi ha detto certe cose, al tono della sua voce, ai suoi occhi che si avvicinavano ai miei, alle sue dita, morbide sui polpastrelli, che mi lisciavano le guance; ma allo stesso tempo cerco di allontanarmene, da tutta questa scena. mi dico che con le mani non stava lisciando la pelle, non lo faceva perché le mie lentiggini gli piacevano, quanto piuttosto cercava di pulirmele via dalla faccia, come si fa con lo sporco, con la polvere che si adagia sui mobili.
ecco a cosa penso e non penso, a cosa cerco di non pensare, mentre mi spazzolo distrattamente i capelli davanti allo specchio. mi chiedo se abbia davvero senso tutto questo, un tiro alla fune tra i miei desideri e le mie più incognite paure; perché quando vengo trascinata verso il basso, mi guardo seria per un attimo allo specchio e mi rendo conto che tutta questa pagliacciata è solo una grossa perdita di tempo: non ha importanza essersi truccata, pettinata, vestita alla perfezione; aver steso quel leggero tocco di rossetto che quasi non si nota sulle labbra, indossato le calze viola sperando che portino fortuna, intonate alla maglia con lo scollo a V profondo, aver tirato giù dall'armadio il cappotto nero più elegante che abbia mai comprato, intonato con una borsa da donna matura per far bella figura; ma anche solo dopo minuti, quando lo sconforto è passato, e tutta la mia tristezza è stato spazzata via come da un mio stesso colpo di spazzola, mi sento euforica, entusiasta, e tutto quanto non ha ugualmente senso ma sotto un altro diversissimo aspetto: il rossetto vorrei che me lo sbavasse via a suon di baci, le calze viola e la maglia intonata sfilate via per stenderci su di un letto e riempirci di carezze nude e furiose, selvatiche trattenute in gabbia per tutto questo tempo: da quando mi ha fermato per conoscermi, ed ho sognato che lo facesse afferrandomi per la vita con una mano, fino ad oggi che mi preparo per rivederlo.
mi chiedo se quando sarò con lui la smetterò di essere così scostante, con questi cambi di umori e sensazioni: dalle stelle alle stalle. magari sono solo una specie di calamita, con tutta questa carica magnetica che mi sconvolge anche nei sentimenti, e basterebbe averlo accanto, lui ferro, per abbracciarlo, appiccicarmi ad esso ed equilibrare tutta questa confusione.
vorrei solo che mi dicesse che mi vuole bene, mi basterebbe questo, giuro non desidererei altro; e vorrei che io finalmente ci credessi, alle sue parole, al suo volermi bene, smettendo di avere tutta questa maledetta paura, più di me stessa che non di lui.
martedì 1 giugno 2010
Maggio 2010
Il cuore è una bestia della quale è prudente diffidare. Anche l’intelligenza è una bestia, ma per lo meno non parla d’amore.
Graham Greene
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