giovedì 24 giugno 2010

La ferita non equivale alla somma degli strappi

poi fu la volta di roberto. lo vennero a prendere mentre io ero sotto la doccia che mi stavo lavando. quando uscii e arrivai in cucina in accappatoio lo avevano già portato via. non aveva avuto il tempo neppure di lasciare un biglietto, neppure di spegnere la tv. non riesco a togliermi dalla testa il pensiero che se non avessi curato così tanto il mio aspetto, se non mi fossi lavata i capelli magari, forse sarei riuscita a salutarlo.
ricordo quando portarono via cosimo. anche lui sparì senza aver la possibilità di dirmi addio. io ero a fare la spesa: arrivata a casa lui non c'era più. i suoi abiti, le sue giacche, le camicie, era ancora tutto quanto in ordine dentro l'armadio. a quanto pare anche a lui non avevano concesso molto tempo.
la gente che incontravo per strada mi chiedeva spesso cosa facesse, dove fosse. io non sapevo bene come rispondere; dicevo che si trovava fuori città per lavoro, una convention, una riunione. dopo un mese però la scusa cominciò a scricchiolare, non poteva essere più credibile. perciò iniziai a dire la verità: cosimo non c'era più. al suo posto c'era giulio, franco, fabio; tutti uomini che incontravo, conoscevo, e che poi si venivano a prendere non appena gli pareva fosse il momento giusto.
avevo iniziato a considerare gli uomini con una data di scadenza, da consumarsi preferibilmente entro. per questo quando conobbi gianni, pochi giorni dopo la scomparsa di roberto, avevo tutta questa fretta. non volevo sprecare tempo. quando telefonai per chiedergli se volesse uscire con me la sera, già avevo voglia di baciarlo: lo sentivo sulle labbra. fu così carino da passarmi a prendere in auto, e una volta salita dovetti trattenermi con tutte le mie forze per non saltargli addosso, svestirlo, spogliarlo di qualsiasi cosa e trascinarlo con me nei sedili posteriori.
andammo a fare una passeggiata in un piccolo paese poco fuori città. c'era una specie di festa, il patrono o qualcosa del genere, e il centro era pieno stracolmo di bancarelle artigianali. passammo quasi due ore a girare tra i banchi di commercianti autonomi che esponevano i loro prodotti: spille per capelli raffiguranti farfalle, statue in legno di fauni. fosse successo solo qualche anno prima avrei apprezzato tantissimo; ma in quel momento era quanto di più sbagliato potesse fare. non volevo passare del tempo romantico, non volevo sprecare minuti a conoscerci, parlarci. per quello ci sarebbero stati giorni e giorni, dopo. quella sera avevo un solo e semplice desiderio: appartarci, prendere la sua macchina e parcheggiare in mezzo ad un bosco, dove nessuno potesse vederci. volevo togliermi i vestiti, il reggiseno, le mutande; farmi accarezzare tutta, dentro e fuori. avevo la necessità di sentire le sue mani passarmi ruvide sulla pelle, le sue dita strette sulle mie tette.
sapevo che un giorno o l'altro sarebbero venuti a prendersi pure lui. era solo questione di tempo, ormai l'avevo imparato. perciò avevo iniziato a scomporre qualsiasi cosa ai minimi termini. era un esercizio semplice e aiutava molto. prendevo ciò che ero abituata a fare ed iniziavo a togliere il superfluo. i saluti di circostanza? via. la cena al ristorante come prima tappa di un appuntamento? via. i pensieri, prima e dopo, essere uscita con un uomo? via. qualsiasi cosa appesantisse il concetto che puntavo andava preso ed eliminato. così facendo spogliavo i miei desideri di qualsiasi orpello inutile, facevo diradare la nebbia in modo da poter guardare meglio ciò che avevo davanti e ciò che davvero volevo.
è troppo facile dire di desiderare di essere felici, chi non lo vorrebbe? la felicità è solo una fibra di muscolo aggrappata ad uno scheletro: se si vuole arrivare all'osso bisogna essere in grado di saperla strappare via. prima quella, poi magari il pensiero, fasullo, di voler esser ricchi, di avere soldi. una volta tolte le cose più ovvie, si deve cominciare ad eliminare quelle meno ovvie, quelle che magari fanno pure un po' male ad ammetterle: il matrimonio? i figli? a dire la verità non avevo mai sentito il bisogno di legarmi di fronte a Dio - quale fra i tanti? - ad un uomo. si, ne avevo bisogno, ma solo per conto mio personale, non certo per un motivo religioso o per dimostrare chissà cosa a qualcuno. i figli poi: fanculo il naturale istinto materno. ne avevo sempre avuto paura, sia a livello fisico - mi avrebbero deformato il corpo, andando a strappare fibre e tessuti che non avrei mai pensato fossero possibili da rompere - sia sotto l’aspetto più prettamente doloroso. mi era sempre rimasta in testa la similitudine che avevo sentito in un film: era come dover far passare un anguria dentro un buco largo più o meno quanto un limone.
più andavo avanti così e più scavavo verso ciò che davvero volevo. perché a volte sapere cosa si vuole è forse ancor più difficile di ottenerlo. quando hai un obbiettivo ti puoi dannare l'anima per raggiungerlo, ma quando non hai un traguardo è solo fatica sprecata; come una corsa che non puoi mai finire. non che non puoi vincere, ma che non puoi mai portare a termine perché un termine lei stessa non lo ha.
così la sera che uscii con gianni avevo tagliato via tutto quello che non ritenevo indispensabile. non ne avevamo tempo, sarebbero venuti a prenderlo, chissà quando. quindi la passeggiata per le bancarelle era del tutto fuori luogo. i sorrisi e le chiacchiere vacue, vuote, appena salita in macchina; la birra offerta, il suo "vuoi un gelato?"; tutte le sue frasi misurate, la sua gentilezza dilatata fino all'inverosimile, il non voler rischiare, non sbilanciarsi in alcun modo; quando invece doveva semplicemente fare quello che molto probabilmente pure lui avrebbe di gran lunga preferito fare: trascinarmi in qualche parcheggio nascosto, strapparmi via i vestiti per poi poter finalmente spalancare le mie gambe, con forza se necessario, e tuffarsi dentro con furia, violento. scopare in modo primitivo, senza troppi coinvolgimenti emotivi.
ecco cosa volevo veramente, cosa mi avrebbe reso davvero felice quella sera. dimenticare roberto.

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