mi sembra di vivere in un sogno ricorrente, uno di quelli che fai e rifai e fai di nuovo ancora e ancora una volta, sempre più spesso di sempre, sempre, ogni notte, ogni volta che appoggi la testa al cuscino, chiudi gli occhi, li chiudi abbassando le palpebre: ecco come fai. non è dormire, caso mai è una corsa; e ciò che forse ferisce di più, più ancora di un ago puntato ficcato dentro un occhio, è che in tutto questo mi sento maledettamente zoppo. più arranco mi affanno mi stanco, perdo terreno e non solo quello: fosse il male del tempo, sprecato ad accartocciare i minuti le ore le mezze giornate per non dire le giornate intere, neppure fossero carta straccia da buttare, gettare via: il tempo usato non si può riciclare, si brucia appena lo tocchi, si consuma più in fretta e facilmente dei sogni o delle false speranze. non sono i ricordi, quelli si che invecchiano ingiallendo ma non si spengono mai del tutto: affievoliscono pian piano, perdendo il sapore di lampi e lamponi che nei primi giorni passavi a riassaggiare leccandoti appena le labbra, ma mai appassiscono o diventano neri come lastre sparate a vuoto nel vuoto.
il tempo è forse la somma che non possiamo più correggere, che scriviamo sbagliando su un foglio che non tollera più cancellature con gomma o con penna; la risposta che diamo alzando la mano dal fondo dell'aula, parlando con la voce che balla traballa come un tavolo con le zampe discordi.
così i minuti passati, accanto di fianco o davanti, sono gli origami che facciamo costruendo castelli immaginari di carta, con il tempo che passiamo, rubiamo, agli altri e degli altri: non li possiamo neppure toccare, toccarci. abbiamo le mani troppo bagnate per non smembrarli disfarli slacciando i legami delicati della cellulosa che si unisce alla cellulosa e ai nostri rimpianti.
li collezioniamo, ecco cosa facciamo. ne abbiamo una casa piena, stracolma, con le pareti coperte dalla carta da parati disegnata con i nostri propositi. i palpiti, o le frasi appena accennate, morte in gola ancora prima di nascere, uscire tra i denti, lo sbattere della lingua sul palato, il mio il tuo quello di entrambi; i sospiri i respiri, le azioni interrotte come l'allungare una mano per stringerti in abbraccio subito arrese e ritratte ficcate con forza in tasca con i pugni serrati; ti dico non ti dico: contano più i nostri fantasmi, tutti quanti, che popolano i momenti dei nostri fatti non fatti. loro si stringono, si baciano, passeggiano per mano tenendosi la mano, parlando ridendo e facendo ogni cosa che noi a suo tempo abbiamo lasciato andare o abbiamo lasciato in disparte. c'è un paese intero di questi noi non veri, alternativi, che vivono in questo mondo pur appartenendo per sempre a mondi paralleli che solo a tratti sfioriamo prendendo una strada anziché un'altra nelle nostre singole private scelte.
la consolazione, che poco consola ma allieva soltanto un poco il dolore, è che non siamo eterni, costanti, e un giorno o quell'altro, chissà quando sarà e chi mai lo saprà, diventeremo pure noi fantasmi leggeri, e pesanti saranno al contrario gli abbracci o i baci che ci scambieremo.
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