martedì 30 novembre 2010

La storia dell'amore

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Quando ero ragazzo mi piaceva scrivere. Era la sola cosa che volessi fare nella vita. Inventavo persone immaginarie e riempivo quaderni con le loro storie. Scrissi di un ragazzo che crescendo diventava talmente peloso che la gente gli dava la caccia per la sua pelliccia. Doveva nascondersi fra gli alberi e si innamorava di un uccello, e l'uccello pensava che lui fosse un gorilla di centocinquanta chili. Scrissi di due gemelle siamesi, uan delle quali era innamorata di me. Pensavo che le scene di sesso fossero molto originali. Comunque. Quando fui più grande decisi che volevo essere un vero scrittore. Cercai di scrivere di cose reali. Volevo descrivere il mondo perchè a vivere in un mondo non descritto mi sentivo troppo solo.

Ieri ho visto un uomo che dava un calcio a un cane e l’ho sentito dietro gli occhi. Non so dire bene dove, è un posto che sta prima delle lacrime.

11. Avevo sei anni quando a mio padre diagnosticarono un cancro al pancreas.
Quell’anno io e mia madre viaggiammo insieme in auto. Mi chiese di passarle la borsa. “Non ce l’ho” risposi. “Forse è sul sedile posteriore” disse lei. Ma non c’era. Accostò e si mise a cercarla, ma la borsa non si trovava. Si prese la testa fra le mani e cercò di ricordare dove l’aveva lasciata. Perdeva sempre tutto. “Uno di questi giorni” disse “perderò la testa.” Cercai di immaginare che cosa sarebbe successo se avesse perso la testa. Alla fine però fu mio padre che perse tutto: chili, capelli e vari organi interni.

Un giorno lo zio Julian mi ha detto che secondo Alberto Giacometti per dipingere una testa a volte è necessario rinunciare alla figura intera. Per dipingere una foglia, bisogna sacrificare l’intero paesaggio. Subito può sembrare una limitazione, ma dopo un po’ ti rendi conto che avendo solo un pezzetto di una cosa hai più opportunità di salvare un certo sentimento dell’universo di quante ne avresti facendo finta di avere tutto il cielo.

Che faceva sogni spaventosi e riusciva ad addormentarsi, se ci riusciva, solo dopo avere bevuto un bicchiere di latte caldo.

(“Mettiamoci in piedi sotto l’albero” disse. “Perché?” “Perché è più bello.” “Forse dovresti sederti sulla sedia e io mi metto in piedi vicino a te, come fanno marito e moglie.” “Che sciocchezza.” “Perché?” “Perché noi non siamo sposati.” “Ci teniamo per mano?” “Non possiamo.” “Ma perché?” “Perché lo capirebbero.” “Che cosa?” “Di noi.” “E allora?” “È meglio se resta un segreto.” “Perché?” “Così nessuno ce lo può portare via.”)

(Perciò la sensazione più antica del mondo potrebbe semplicemente essere stata la confusione.)

C’era un tempo in cui non era insolito usare un pezzo di filo per guidare le parole che altrimenti avrebbero faticato ad arrivare a destinazione. Le persone timide si portavano in tasca un rocchetto di filo, ma anche chi aveva facilità a esprimersi sentiva di averne bisogno dal momento che, chi era abituato a farsi ascoltare da tutti, spesso si trovava in difficoltà quando voleva essere ascoltato da una persona in particolare.

La falena si mosse debolmente sul palmo. Aveva perso un’ala. Lei gemette. Non sono stato io, dissi. Mi accorsi che aveva gli occhi pieni di lacrime. Una sensazione che non conoscevo ancora mi prese allo stomaco. Mi dispiace, sussurrai. Sentii il bisogno imperioso di abbracciarla, di cancellare con un bacio la falena e l’ala rotta. Lei non disse nulla. I nostri sguardi restarono intrappolati l’uno in quello dell’altra.

Mi infilò la lingua in bocca. Non sapevo se dovessi tenerla a contatto con la mia o se invece fosse meglio lasciare che si muovesse liberamente con la sua. Prima che avessi il tempo di decidermi, lui la ritirò e richiuse la bocca mentre io la lasciai aperta, il che aveva l’aria di essere uno sbaglio. Pensai che questo significasse che la cosa era finita lì, ma a quel punto lui aprì di nuovo la bocca mentre io la chiudevo, così finì che mi leccò le labbra. Allora io riaprii la bocca e tirai fuori la lingua, ma era troppo tardi, perché lui aveva già richiuso la sua. Poi in qualche modo ci azzeccammo, aprendo entrambi la bocca nello stesso momento come se fossimo lì lì per dire qualcosa

Alla fine, tutto ciò che resta di te sono gli oggetti che possiedi. Forse è per questo che non sono mai stato capace di buttare via niente. Forse è per questo che tendo a far tesoro di ogni cosa, a conservarla, con la speranza che, quando sarò morto, la somma totale di ciò che possiedo possa far pensare a una vita più importante di quella che in realtà ho vissuto.

Chiesi a Herman se avesse mai sentito parlare di Antoine de Saint-Exupéry e quando mi risposte di no gli chiesi se avesse mai sentito parlare del Piccolo principe e lui mi disse che gli sembrava di si. Allora gli raccontai della volta che Saint-Ex si schiantò con l’aereo nel deserto della Libia, bevve la rugiada che si era depositata sulle ali dell’aereo e che aveva raccolto con uno straccio macchiato d’olio, e camminò per centinaia di chilometri, disidratato e in preda al delirio per via del caldo e del freddo. Quando arrivai al punto in cui Saint-Exupéry viene ritrovato da un gruppo di beduini, Herman fece scivolare la sua mano nella mia, e io pensai che una media di settantaquattro specie di insetti, piante e animali si estingue ogni giorno e questa era una buona ragione, ma non l’unica, per tenere a qualcuno la mano, e subito dopo successe che ci baciammo, e scoprii che sapevo come si faceva, e mi sentii felice e triste in egual misura, perché capivo che mi stavo innamorando, ma non di lui.

Mi ricordo di quando per la prima volta mi accorsi di vedere cose che non esistevano. Avevo dieci anni e stavo tornando a casa da scuola. Alcuni miei compagni di classe mi passarono vicino di corsa, urlando e ridendo. Volevo essere come loro. Comunque. Non sapevo come fare. Mi ero sempre sentito diverso dagli altri, e la differenza faceva male. E poi girai l’angolo e lo vidi. Un grande elefante, in mezzo alla piazza, tutto solo. Sapevo che era semplicemente frutto della mia immaginazione. Comunque. Volevo crederci.
Così ci provai.
E scoprii che ci riuscivo.

Dal giorno in cui vidi l’elefante, permisi a me stesso di vedere e credere sempre più cose. Era un gioco che facevo tra me e me. Quando parlavo ad Alma delle cose che vedevo, lei rideva e mi diceva che adorava la mia fantasia. Per lei trasformai ciottoli in diamanti, scarpe in specchi, vetro in acqua, le diedi ali ed estrassi uccelli dalle sue orecchie, e nelle tasche le feci trovare le piume, chiesi a una pera di diventare un ananas, a un ananas di diventare una lampadina, a una lampadina di diventare la luna, e alla luna di diventare una moneta che lanciai in aria scommettendo sul suo amore: testa su entrambi i lati; sapevo di non poter perdere.

Ci sono tanti modi di essere vivi, ma uno solo di essere morti.

Nicole Krauss

lunedì 29 novembre 2010

Liquidi fallimenti

hai fallito, perché pensavi che tutti i baci avessero lo stesso identico sapore. ti aspettavi di trovare sulle sue labbra la medesima liquirizia che avevi assaggiato la prima volta, quando le vostre bocche si sono incontrate di sfuggita, uno sfiorarsi, e solo dopo, giorni e giorni, si sono poi date appuntamento per vedere di parlarsi addosso, una sopra l'altra, una dentro l'altra, per cercare di mettere ordine tra gli umori e non solo, anche nella confusione sempre più sporca e devastata dei sentimenti, i tuoi e i suoi, messi prima da parte, poi ritirati fuori, appoggiati ovunque, accatastati negli angoli della casa, pile e pile traballanti, sempre in discussione con la gravità, pronti a cadere al primo movimento, rovinare per terra e creare ancora più confusione; oppure lasciati sul divano, tra un cuscino e l'altro, quasi fossero libri che uno o l'altra stava leggendo, con i segnalibri persi in pagine diverse, chi fermo a un capitolo, chi invece già pronto ad affrontare l'ultimo, o l'epilogo.
hai fallito perché partivi dallo sciocco presupposto che un bacio fosse la porta verso quei sentimenti, mentre invece è solo un navigare bagnato in bocche altrui. i sentimenti non si trovano in testa, dentro il cervello, nel collo o incastrati nella gola, indecisi tra andare su o giù, se scendere ed essere digeriti o risalire l'esofago per essere vomitati fuori. no. i sentimenti si trovano nell'alzarsi e nell'abbassarsi del petto quando si respira con affanno restandosene seduti, quando si ha il fiatone nonostante non si sia fatta alcuna corsa, quando si ha freddo e non c'è cappotto più caldo di un abbraccio. i sentimenti sono le ustioni che ti ritrovi lungo le braccia senza neppure accorgertene, quando lei ti appoggia per caso una parte di se stessa sulla tua pelle. il contatto involontario, questi sono i sentimenti. è il calore che si dipana da un punto qualsiasi del tuo corpo non appena il tatto, il tuo senso forse più sottovalutato, si accorge che lei ti sta toccando. e non importa se ti dici che sia solo un caso, che sia dovuto allo spazio ristretto, o alle situazioni, che non sia volontario, se lei lo abbia fatto apposta o senza minimamente accorgersene, se per lei sia un fatto normale o se come per te quella sciocchezza di calore anche per lei sia la cosa più importante che ti possa attraversare in quel momento la testa, il mondo, l'universo intero. no, non te ne frega e non te ne dovrebbe fregare, perché quelli, quelli che stai provando sono i tuoi di sentimenti, mentre gli altri, quelli per i quali ti fermeresti e bloccheresti pure la rotazione terreste per trovarne la soluzione, quelli sono i sentimenti di lei, e fino a quando non si deciderà a prenderti in disparte, a guardarti fisso negli occhi, a non curarsi della paura che sempre si prova a dire certe cose, a parlare sul serio di argomenti che la natura forse non vorrebbe neppure venissero mai trattati a parole, bensì a gesti, espressioni, comportamenti, di svuotarsi e riempirsi in un modo talmente adrenalinico così come inspiegabile con razionalità, fino a quando non sarà pronta a tradurre quello che prova in frasi comprensibili, in suoni che siano più distinti dai suoi palpiti o dei batticuori trattenuti a forza, del galoppare feroce che la fa quasi vergognare - se ne sarà accorto? l'avrà capito? - fino a quando non deciderà di esplicarteli, di rendersi vulnerabile, quelli non li potrai mai sapere, perché sono i suoi di sentimenti.
hai fallito perché pensavi che mescolando ciò che provavi con ciò che provava lei ne uscisse fuori un colore rosa tenue, una tonalità capace di cullare entrambi senza farvi sentire il vuoto d'animo che si prova ogni qualvolta si precipita nel vuoto, quando ti lanci da un aereo in quota senza essere sicuro di avere il paracadute ben allacciato alle spalle, e la terra nel mentre si avvicina, senti il vento schiaffeggiarti violento in faccia, strapparti quasi via i vestiti, renderti nudo di fronte a tutto quanto ti sta venendo incontro, o a cui stai andando incontro. un bacio, se è qualcosa oltre al semplice essere bacio, è lo scambio di sentimenti. tu a dare a lei i tuoi e sperare lei faccia altrettanto. solo così un bacio è un vero bacio, altrimenti qualcuno ne esce sempre soltanto sconfitto, privo di quei sentimenti per i quali ha lavorato duro per fare crescere.
hai fallito, ma non nell'atto pratico o nel sognare, nello sperare, nel riempire il vuoto che vi divideva con ipotesi di come questo vuoto potesse essere colmato, bensì perché non ti sei reso conto che ogni bacio immaginato ti allontanava sempre di più dal bacio reale. quello dato in cucina di spalle alla base del suo collo, quello per le strade buie davanti a stazioni illuminate dai lampioni arancioni, quelli dati senza schiudere le labbra ma solo appoggiandole con delicatezza sopra le sue in un sospiro trattenuto, quello dove hai portato le mani ad accarezzarle il viso, quello irto di passione che vi ha fatto cadere sul pavimento, quelli scambiati in piedi uno davanti all'altra, quelli dati sdraiati sul letto, sul divano, seduti in silenzio al cinema; ognuno di questi baci ti ha allontanato dall'unico bacio che ancora non hai baciato: il suo.
hai fallito, ma questo non significa che tu non debba continuare a cercare, rialzandoti, perdendoti, riafferrandole la mano, facendole sentire lo stesso calore, il fuoco, - bruci, per favore bruciamo insieme - non significa che fallire sia un male, o che fallire insieme a lei non sia il fallimento più gradevole e speciale che ci possa essere.

giovedì 25 novembre 2010

Testamento

lui morì un giorno di ottobre. non c'era nebbia, ma l'aria era lo stesso grigia. in cielo si poteva guardare il sole senza infiammarsi gli occhi, coperto com'era da quelle nuvole leggere e quasi trasparenti che sembravano galleggiare per aria. erano i tempi dei primi temporali, interminabili quasi quanto la loro violenza. l'inverno cercava di farsi strada con forza. le foglie gialle cominciavano a cadere dagli alberi, andando a piastrellare morte i marciapiedi e i bordi dei viali.
quando successe sua madre stava comprando i giornali. un quotidiano e due riviste di gossip. non si accorse di quanta poca differenza potesse esserci tra loro. diede i soldi, prese il resto, e afferrò pagine su culi tetti e scandali di varia natura.
suo padre stava parlando con alcuni suoi amici degli errori arbitrali commessi durante l'ultima giornata di campionato. inveiva contro il tizio o il caio che non la pensavano come lui, proprio come succedeva ormai da quasi cinque anni, da quando la sua squadra del cuore era caduta in rovina e la sua unica soddisfazione non era altro che sputare merda sulle altre squadre mentre beveva il cappuccino del lunedì mattina.
lei invece stava ancora dormendo. si avvolgeva tra le lenzuola, stringendo il cuscino sotto la testa. sulle labbra un sorriso involontario, che non poteva controllare. sotto le coperte era caldo, sognava di essere su una spiaggia, di fronte a un mare limpido, cristallino. fuori al contrario era freddo, l'asfalto era bagnato dalla pioggia della notte, il guardrail piegato, le lamiere erano contorte.
nei film ambientati durante la seconda guerra mondiale, quelli ai quali lei non piangeva mai perché le sembravano ogni volta troppo melensi, c'erano sempre due militari che entravano nell'inquadratura con una jeep, parcheggiavano davanti a una villetta e poi scendevano per andare a bussare alla porta di casa. a quel punto una donna, o una ragazza, o una madre anziana, andava ad aprire e non c'era bisogno che nessuno dicesse niente: la figura femminile cominciava a piangere non appena intravedeva le divise al di là della soglia, si contorceva dal dolore, trasformando la sua faccia in una maschera di lacrime, e qualche volta si accasciava pure a terra. nella realtà però manca questa comunicazione. nessuno bussa alla sua porta, nessuno la trascina già dal letto, non c'è nessuno che le spazzi via da sotto il naso quel sorriso inconscio che lei neppure sapeva di avere - e per fortuna, almeno di quello non si sarebbe dovuta pentire poi.
lo viene a sapere verso mezzogiorno, dopo aver fatto colazione, essersi vestita, truccata, sistemata, aver acceso il cellulare, uscita di casa tranquilla, preso la macchina, andata a lavoro, sbrigato alcune pratiche importanti, ignorato il telefono che squillava perché troppo impegnata. aveva deciso di impiegare la pausa pranzo per fare la spesa. al supermercato a quell'ora si trovano solo persone come lei, quelle che si ritagliano il tempo per comprarsi da mangiare, o da vivere, la carta igienica che è finita, il dentifricio, acqua, caffè perché lui quando la passava a trovare aveva sempre bisogno della sua dose quotidiana, un po' di frutta, della verdura, assorbenti se era quel periodo del mese. le era solo sembrato strano che durante tutta la mattina lui non si fosse fatto mai vivo. di solito le mandava un messaggio per augurarle il buon giorno. trovava tutte le volte un pretesto per scriverle qualcosa. lei faceva finta di niente, alcuni giorni neppure gli rispondeva se aveva troppo da fare o andava di fretta. non lo avrebbe mai ammesso, ma quel suo messaggio giornaliero le scaldava il cuore, la scioglieva: cubetti di cioccolata fatti fondere al fuoco di una candela.
si trovava al reparto carni. in mano una confezione preparata, incellofanata, di petti di pollo. freddi. una sua amica che era anche amica di lui le venne incontro. non aveva il carrello, né una borsa dentro la quale mettere ciò che doveva comprare. non sembrava essere dentro al supermercato per acquistare qualcosa, pareva piuttosto stesse cercando qualcosa, o qualcuno. lei?
da lontano non poté notare subito gli occhi rossi, il volto sconvolto, stravolto, rivoltato sotto le occhiaie, fatto nero, bagnato e irritato dal continuo strofinarsi di fazzoletti di carta usa e getta. notò solo l'aspetto non curato: i pantaloni di una tuta, una felpa slargata, macchiata, i capelli sciolti ma non pettinati. quando si avvicinò vide l'ombra sul suo viso e si accorse pure del muco che le usciva dal naso. lei non ci fece caso, pensò fosse malata, avesse passato una notte d'inferno. febbre e raffreddore. era il momento dell'influenza. non si capisce come mai in certe circostanze si pensa sempre e solo alle lacrime, a scendere copiose, rigando le guancie, e mai invece agli umore che scendono altrettanto copiosi a sporcare le labbra, a far tirare in su, a spezzare la voce in singhiozzi che si rompono in gola.
l'amica si vestì da militare, lei però non capì subito. non cadde neppure a terra, non si stravolse la faccia in un pianto sfuggente. le sembrò di venire colpita da tanti colpi ovattati, ricoperti da gommapiuma. prima alla pancia, al ventre, poi alle gambe, alle braccia, ma mai al viso. forse era per quello che non riusciva a piangere. le parve tutto a un tratto che il suo corpo fosse diventato troppo grande, sovradimensionato per le sue reali dimensioni, la sua grandezza interiore, e che lei ci stesse cadendo dentro, come precipitando in un burrone, buio e scuro. si sentiva come l'ultima matrioska, quella più piccola, messa dentro da sola all'interno di quella più grande. aveva un sacco di spazio vuoto tutto attorno a lei.
la sua reazione però fu decisa, netta. lei non lo conosceva. non voleva averlo conosciuto. in modo retroattivo. cancellò qualsiasi cosa, pure i sentimenti.

mercoledì 24 novembre 2010

Posacenere

mi rimprovera che con il tempo ci posso fare qualsiasi cosa. non è la mancanza, quanto piuttosto il materiale di cui compongo il tempo. fai finta sia di pongo, mi dice. puoi modellarlo con le tue mani, farlo diventare una tazza da caffè - andiamo a prendere un caffè? e ci perdiamo nelle brevi passeggiate sotto la pioggia, quelle che ci accompagnano fino al bar più vicino, chiedere la nostra droga legale e iniziare a parlare. sai, faccio io, se non ne prendo almeno due al giorno mi vengono dei mal di testa terribili. crisi d'astinenza, rispondi tu. - oppure creare un vaso con il quale annaffiare i fiori - mentre il cameriere lavora con la macchinetta, ci da le spalle, noi ci sediamo sugli sgabelli. ti parlo di regali di compleanni, lasciando volare via le parole, nascondendo con esse il desiderio di regalare a te qualcosa, magari delle rose, delle scarlett carson ti donerei, in modo silenzioso. il corriere arriverebbe a casa tua di mattina, suonando il campanello mentre tu magari sei a fare colazione. aprendo la porta vedresti questo mazzo enorme di rose a nascondere il viso della persona che te le sta porgendo. sorrideresti, tu, e penseresti: per tre anni ho avuto le rose e non ho chiesto scusa a nessuno. - ogni cosa potresti fare, basta che tu sia abbastanza bravo a farla.
cosa intendi? gli domando.
il pongo è un materiale malleabile. ricordi quando all'asilo ci giocavamo quasi tutti i pomeriggi? per le feste, tipo la festa del papà, le suore ci facevano fare dei posacenere, o roba del genere. non importava quanto tu sbraitassi facendo notare che nostro padre non fumava affatto e che quindi un posacenere come regalo non era tanto per lui quanto piuttosto un regalo per qualche altro padre, uno qualsiasi che magari entrava a casa nostra. comunque, ci davano una confezione per uno, ci dicevano di bagnarlo un po' per renderlo morbido - il cameriere appoggia le tazzine sul bancone di fronte a noi. la mano gli si scioglie un po' lasciando colate di rosa acceso sui piattini. sembra cera caduta da una candela. quanto vorrei essere con te in una stanza al buio, con solo delle candele a illuminare l'ombra attorno a noi. - e ognuno di noi iniziava a modellarlo come meglio credeva. c'era chi ci appoggiava sopra una scatola e usava questa come stampo, per alzare i bordi del proprio posacenere in modo regolare, perpendicolari precisi alla base. chi invece provava a farlo rotondo, andando incontro a improbabili oggetti dalle forme geometriche non meglio definite. ricordo però che tu non avevi fatto niente di tutto questo. avevi preso la tua porzione di pongo, l'avevi fatta diventare un mattone spesso qualche centimetro, e poi ci avevi appoggiato la mano nel mezzo, spingendo verso il banco con tutta la tua forza. avevi preso un coltello di plastica, perché i coltelli veri all'asilo erano proibiti, così come le forbici con le punte non arrotondate, e tenendo sempre il palmo al centro del tuo pongo avevi tagliato via il materiale superfluo, formando in questo modo un ovale attorno alla tua mano. avevi fatto un posacenere con le tue impronte, un regalo personale, non uno dei tanti, uno fra i tanti, perso tra gli scaffali di un negozio, riprodotto in serie: un pezzo unico. - quando finisci di bere il tuo caffè lotto senza fare rumore con la voglia di accarezzarti. sento il braccio alzarsi verso il tuo viso, senza potere farci niente, anche se ho paura che tu non lo voglia, che un gesto del genere ti faccia arrabbiare. ma non ho la facoltà neppure di fermare il mio corpo. appoggio la mano destra sulla tua guancia sinistra e sento uno strano effetto bagnato sulle punte delle dita, sul lato interno delle falangi, liquido scorrere giù fino al polso. quando accarezzo leggero la tua pelle, facendo scivolare la mano verso il basso, il colore viene via come se non fosse fissato in profondità nell'epidermide quanto piuttosto soltanto appoggiato sopra. macchio la tua mandibola portandoci sopra il rossore che avevi appena sotto gli occhi, un po' di nero dei tuoi capelli. il tuo volto diventa un di quei dipinti dove l'artista non si preoccupa di rappresentare in modo perfetto la realtà, dove non vuole nascondere in tutti i modi la sua mano. il tuo viso si trasforma in un quadro sul quale i movimenti del pennello si notano ancora, uno a uno, dove i colori non sono perfettamente lisci, bensì un poco sporgenti, con lineamenti in rilievo. sono i quadri che preferisco. - tutti quei posacenere erano diversi, al di là di quanto tu avessi potuto fare per differenziare il tuo, per renderlo particolare. qualsiasi posacenere avresti preso a caso in quella classe sarebbe stato sicuramente unico, perché non avrebbe avuto la perfezione di quelli trovati nei negozi, ci sarebbe stato comunque un particolare sbagliato - tu non sembri esserti accorta di nulla. mi continui a guardare, con la faccia macchiata dalla mia carezza. il tempo pare essersi fermato. mi sembra di trovarmi dentro una fotografia, o dentro un film che è stato messo in pausa. ho la libertà di muovermi come più mi piace, di girare per vedere le facce delle altre persone dentro il bar, di controllare l'espressione del cameriere; ma tutti quanti sono dipinti in modo approssimativo, proprio come ho ridotto il tuo volto, i colori escono dai contorni, non si capisce bene dove finiscano le giacche e dove inizi l'aria. l'atmosfera attorno a noi si fonde con la gente, diventa un blocco unico di colore. io cerco di sistemarti la faccia, di arrotondarti le guancie in un sorriso, uno dei tuoi sorrisi così esplosivi. ti modello le sopracciglia in modo da far posto ai tuoi occhi, tento di ridipingerti nel modo perfetto in cui ti ricordo, nella bellezza del tuo essere te. ma per quanto mi affanni, per quanto provi e riprovi, spostando i colori da un lato all'altro del tuo viso, creando sfumature di volta in volta più precise, più dettagliate, non riesco mai farti tornare come eri prima: perfetta nei tuoi contorni. allunghi una mano verso di me, ma non a velocità normale, non come se il tempo si fosse rimesso a viaggiare, bensì al rallentatore, piano piano, per raggiungere la mia guancia ci metti un'eternità. non preoccuparti, dici in un arcobaleno di movimenti, se non rientro nei miei bordi forse è perché non ci sto mai dentro, perché fuoriesco di continuo. forse hai ragione, penso. perché contenerti tutta, oltre l'aspetto fisico, sei infinita, nei tuoi smussamenti interiori, le tue contraddizioni, gli incroci stradali della tua personalità, e gli incidenti, i tamponamenti dei pensieri, gli sbalzi d'umore, la felicità così come la rabbia, è davvero difficile. - non puoi pretendere di raggiungere la perfezione, di eguagliare i posacenere di chi fa per lavoro proprio il fare posacenere, sette giorni su sette, ventiquattr'ore su ventiquattro. puoi fare qualsiasi cosa, posacenere, tazze, vasi per fiori. il tempo ti permette di fare tutto, basta metterti al tavolo e concentrarti sul farlo bene, a prescindere dal risultato che otterrai. - mi dispiace, dico. per cosa? per non riuscirti mai a descriverti in un modo migliore, di farti bella come invece sei. ogni volta mi infrango contro i miei limiti. - basta che ti ricordi che non conta la perfezione. i prodotti fatti in serie sono sempre freddi, quelli artigianali invece contengono un calore tutto loro. l'importante è che tu faccia di tutto per creare il tuo oggetto al meglio delle tue possibilità, di usare il tempo nel miglior modo possibile. - ti voglio bene.

martedì 23 novembre 2010

Stelle

"è buffo."
"cosa?"
"le stelle. le immaginiamo come un qualcosa di ben preciso, un'entità definita, a se stante, mentre invece non sono altro che soli lontanissimi da noi, o pianeti sui quali la luce si riflette."
era buio. l'aria era fredda, ma lui non aveva mai sofferto di brividi o di abbassamento della temperatura. se ne rimaneva un po' piegato in avanti, con gli avambracci appoggiati sul ferro battuto della ringhiera. in mano una bottiglia di birra, quasi vuota. la festa in casa sembrava procedere su binari standard, con la musica a uscire dalle finestre aperte, il brusio sommesso di chiacchiere vaghe, il fumo a salire alto fino al soffitto. lui era uscito in terrazza solo per avere un po' di calma, e per respirare. c'era troppa gente in uno spazio troppo ristretto, l'afa stava diventando insostenibile e lui non la sopportava. lei lo aveva raggiunto qualche minuto dopo. si era messa addosso un giubbotto, uno qualsiasi preso dal divano sul quale tutti gli invitati avevano gettato il proprio, ed era uscita con il pretesto di fumare. appena fuori aveva rabbrividito, chiudendosi in un abbraccio dentro il cappotto, un po' per attirare l'attenzione ma soprattutto perché lei non era proprio uguale a lui. lei il freddo lo soffriva.
una volta una sua amica le aveva chiesto:
"cosa ci trovi in lui?" lei non aveva saputo cosa dirle. è così complicato dare una risposta a una domanda così semplice, aveva pensato lei in quella circostanza. la chimica che si scatena nel cervello di una persona, quando si trova accanto a un'altra persona, dovrebbe rimanere confinata dentro lo spazio del cervello, invece molto spesso entra in circolo e finisce col sedimentarsi in fondo al cuore. ma era una motivazione troppo complicata da dare alla sua amica, molto probabilmente non l'avrebbe capita.
"siete così diversi." aggiunse poi questa sua amica, quasi a rispondersi da sola.
lei lo sapeva. c'erano un miliardo di cose che non li accomunavano, trova le differenze, ma pensava che non fosse in fondo un male. forse era proprio questo che l'attraeva di lui, gli spazi e gli interessi che non trovavano corrispondenza in nessuno spazio e in nessuno interesse di lei. se fossimo attratti da delle semplici copie di noi stesse, si disse, tutti quanti avrebbero una relazione con lo specchio del proprio bagno.
lui si era voltato. si era portato la bottiglia alla bocca, bevendo un sorso di birra, e poi aveva detto:
"ciao."
"ciao." aveva risposto lei avvicinandosi alla ringhiera fino ad arrivare vicino a lui, alla sua destra.
"ti stai divertendo?"
l'inizio di una conversazione è sempre la parte peggiore. tutti si affannano per incastrare al meglio le parole, per mettere a proprio agio le altre persone, così si finisce sempre per dire delle banalità. iniziare a parlare, soprattutto quando si tratta di parlare in due, da soli, somiglia a una specie di battaglia, magari tra due gladiatori nell'antica roma. lo scontro vero e proprio è sempre preceduto da una fase di studio, durante la quale i due combattenti si camminano attorno, si guardano, cercano di capire le debolezze del proprio avversario, quando si tratta di una lotta vera e propria, o gli interessi dell'altro quando invece si tratta di una conversazione.
lei aveva imparato a non dare troppo peso a ciò che si dice durante i primi dieci minuti di una chiacchierata. sono solo sciocchezze, servono per rompere il ghiaccio, instaurare un rapporto di fiducia, una specie di riscaldamento pre gara. ciò che contava, ai suoi occhi e alle sue orecchie, era quello che sarebbe stato detto dopo, quando entrambi si sarebbero ormai lasciati alle spalle i saluti, i come stai, e tutti gli altri vari rituali di buona educazione.
come per esempio era accaduto in quella occasione. erano finiti a parlare delle stelle. nessuno dei due forse era conscio di come ci fossero capitati, quale linea di dialogo avessero seguito per partire da quel suo ti stai divertendo fino ad arrivare ai corpi celesti sopra le loro teste. ma questo non li preoccupava. quella stessa chimica che fuoriesce dal cervello e si deposita nel cuore ha il potere di fare perdere la memoria a breve termine, lei lo sapeva.
"sembrano così piccole, tanti piccoli puntini luminosi appuntati sopra il cielo." disse lei.
"invece sono gigantesche, e in continuo movimento. ruotano tutte quante, una specie di danza."
"a volte sembra quasi impossibile che pure noi, nel nostro piccolo, con questo pianeta microscopico, facciamo parte di questo ballo. a viverci dentro sembra che il mondo sia fermo, stabile, immobile come un roccia."
"oh, no. - disse lui. - per me non è affatto così. per me il mondo gira in continuazione, si rivoluziona perennemente, e lo si può percepire in qualsiasi momento, altrimenti non si spiegherebbe come mai a volte le cose vadano alla perfezione e poi un attimo dopo, senza che nessuno faccia nulla, sia tutto quanto andato a rotoli. se il mondo non si muovesse, una volta trovata la stabilità questa dovrebbe rimanere. invece la stabilità è una specie di castello di carte, basta una minima vibrazione e il castello crolla. per questo si capisce che il mondo gira, e girando fa crollare i nostri castelli."

lunedì 22 novembre 2010

Heart-shaped box

da piccoli stilizzavamo tutto, qualsiasi cosa. quando disegnavamo una casa, un'auto, lo facevamo con linee semplici, segmenti ben decisi, senza troppe curve. amavamo gli angoli, da piccoli. solo con il tempo abbiamo iniziato a preferire le circonferenze, il tratto rotondeggiante che si poteva ottenere cercando di smussare gli spigoli contro cui andavamo sempre a sbattere e che, a forza di scontrarci contro, avevamo capito ci facevano male. e le curve si sono portate dietro tutta una serie di altri concetti, significati, come se le linee dritte di prima fossero appunto dritte per il semplice motivo che erano leggere, spoglie di qualsiasi peso avesse potuto gravitare su di loro, mentre le curve fossero delle linee tracciate da una parte all'altra di un burrone, sulle quali al centro era stato appoggiato un qualcosa di non meglio definito, un quadrato magari, e che questo quadrato a causa della gravità avesse rotto la rigida orizzontalità della linea iniziale e l'avesse come piegata, formando una specie di goccia con la parte rotondeggiante rivolta verso il basso. oppure: le curve erano curve perché trasportavano dei feriti, magari proprio determinati significati, come facevano i cowboy trascinandosi a cavallo una barella. il corpo di questi concetti, tutti sanguinanti, moribondi, erano ripiegati su se stessi dal dolore, e non riuscivano a camminare eretti, in piedi, come invece avrebbero potuto fare le linee che li avevano preceduti, perché le linee in fondo erano prive di ogni responsabilità, spoglie di qualsiasi senso. non ne uscivano certo bene le curve, né avevano vita facile.
ma all'asilo, quando la suora ci diceva di disegnare casa nostra, con il lapis ben appuntato tracciavamo sicuri sul foglio un quadrato al quale facevamo indossare sulla testa un triangolo a spiovente, due finestre a fare gli occhi e la porta d'ingresso a formare la bocca. era un disegno piuttosto semplice. non ci mettevamo dentro le fondamenta, i muri portanti. non ci preoccupavamo di quante stanze potesse avere al suo interno quella nostra casa, e non ci importava neppure che tutte quante le nostre case su quei fogli si somigliassero in modo impressionante e allo stesso modo non somigliassero affatto alla nostra casa reale. non disegnavamo la verità, quanto piuttosto l'ideale. la stessa cosa la facevamo quando dovevamo ritrarre un'auto. all'epoca, anche se non è passato poi tutto questo tempo, eravamo più facilitati rispetto a ora. le macchine dei nostri papà, così come quelle che vedevamo in giro per strada, erano tutte più o meno simili e sembravano tutte quante delle grandi scatolette di tonno con le ruote. quando dovevamo disegnarle facevamo un rettangolo appoggiato su due cerchi. ancora non pensavamo al motore, al tubo di scappamento, all'asse e al semiasse, allo sterzo che avrebbe permesso alla macchina di girare, o al serbatoio dove mettere la benzina che avrebbe permesso alla macchina di viaggiare. no, non pensavamo a niente di tutto questo. noi tracciavamo linee sicure, linee dritte, e con queste semplicavamo la realtà. nella realtà non c'è niente che sia così ben definito, così netto, deciso. c'è sempre qualcosa che alleggerisce gli angoli, che ne macchia i colori: non è mai del tutto completamente bianco, né mai del tutto completamente nero. ma questo ancora noi non lo sapevamo.
anche il cuore non sfuggiva a questa regola. quando dovevamo disegnarlo facevamo una v sopra la quale abbozzavamo due piccole colline, poi saldavamo le due figure per farle sembrare una figura unica e nascondevamo i punti in cui avevamo staccato il lapis dal foglio per riposare il polso o per prendere la rincorsa per il tratto successivo. era un disegno assai banale, ma era pure l'inizio della fine. fu una delle prime cose che disegnammo ad avere le curve, a parte le ruote della macchina, ma quelle erano una parte secondaria del disegno, mentre il cuore con i suoi due semicerchi affiancati era il motivo stesso del disegno.
avremmo dovuto continuare a disegnare il cuore come una v, cercando con l'esercizio di farlo sempre di più simile a una scatola. in questo modo avremmo potuto guardarlo come tale, mettendoci dentro quello che ci piaceva: i sospiri, i bei sospiri; i baci dati e ricevuti a occhi chiusi; i brividi di felicità quando avverti che la felicità stessa ti ha afferrato l'anima fino al midollo. invece ci siamo ostinati a volerlo studiare, il cuore. così l'abbiamo composto di atri, di ventricoli; gli abbiamo dato dei punti di accesso per farci entrare il sangue, e dei punti di uscita per farlo uscire, sempre il sangue. abbiamo capito che per quanto importante esso sia, questo nostro cuore, altro non è che un semplice muscolo, che si contrae e si rilassa, al ritmo dei nostri battiti, per spingere il sangue ad annaffiare tutto quanto il corpo, fino alle punte più estreme della periferia, mani e piedi. solo che se ci facciamo male a una gamba e un muscolo si sfibra, lo chiamiamo strappo, mentre se ci fa male il cuore le chiamiamo ancora pene d'amore.
è questo che ci frega, è un po' un controsenso. disegniamo il cuore come una scatola, altrimenti se il cuore si strappasse lo chiameremo infarti, ma nonostante questo non possiamo fare a meno degli atri e dei ventricoli. e questo ci scombussola, ci fa andare avanti come se fossimo sempre, in qualsiasi momento, ubriachi. barcolliamo tra i rapporti. se solo riuscissimo a disegnare anche il cuore con delle linee dritte, i giorni sarebbero assai più semplici.

giovedì 18 novembre 2010

Aktarus

raccontami ancora quelle storie delle buona notte per cui non ti sei mai seduto sul mio letto a leggere un libro. ogni sera non era un rituale, quello di spegnere la luce e sentire la tua voce, perché le luci erano spente ma c'era sempre una voce nuova a riempire la stanza, e non una semplice stanza ma la Stanza. la musica usciva dalle casse abbastanza alta da non farci sentire il rumore con il quale il mondo fuori si affannava in contorsioni complicate a crescere, per tenere il passo dei nostri anni, e allo stesso tempo sempre la musica non suonava troppo alta da non farci sentire le nostre voci mentre parlavamo; ci accompagnava, ecco cosa faceva. mentre tu mi insegnavi a poggiare il vinile sul piatto, ad alzare il braccio del giradischi per farlo appunto girare, pulirne sempre la superficie prima di ascoltarlo. era un suono meraviglioso il fruscio scomposto che faceva la testina quando scivolava tra i primi solchi.
allo stesso modo mi insegnavi a fare altro, a leggere per esempio. perché non è tanto il tecnicismo, il riuscire a distinguere prima le lettere e poi le parole intere, far propri termini difficili o complicati, farmi spiegare da te che tutto sapevi e tutto sai, cosa significavano quei vocaboli strani che non riuscivo neppure a pronunciare - non era un caso, e non lo è tutt'ora, se nell'unico vocabolario che mi sento di consultare, l'unico di cui mi fidi, in cui mi rifugi ogni volta che ho un dubbio, non era un caso e non lo è tutt'ora, che in quel vocabolario siano scritte frasi tue, un discorso che so già non riuscirò mai a raggiungere nonostante mi possa sforzare in tutti i modi tutti i giorni di sfiorarlo anche solo - quanto piuttosto cosa leggere. mi hai insegnato a leggere ciò che era importante leggere, ciò che andava letto, ignorando i libri più banali, quelli inconsistenti, i libri inutili, così come mi hai insegnato a guardare ciò che c'era da guardare, cosa c'era da ascoltare. non mi hai fatto perdere, mi hai tenuto per mano anche quando eravamo lontani, anche quando eravamo distanti e non sentivamo il contatto della pelle sulla pelle, mi hai fatto attraversare un bosco schivando i percorsi dei lupi, facendomi passare per radure non troppo frequentate ma proprio per questo proprio belle, stupende, affascinanti. mi hai detto: non guardare dove vanno tutti, vai dove ti piace andare. e la cosa più straordinaria è che lo hai detto senza parlare, ma con i gesti, con le azioni, senza essere diretto come un treno in faccia ma efficace allo stesso modo.
raccontami ancora quelle storie, e altre storie. chiamami con i nomi dei tuoi cartoni animati, e io ti chiamerò ancora con i miei nomi inventati.

martedì 16 novembre 2010

Polifemo

e tu nuda, nei lineamenti.. solo la musica nelle orecchie.. siamo profondi quanto l'intestino di un gigante.. polifemo ubriaco in una grotta affacciata sul mare guarda l'acqua pensando di essere un dio... allo specchio ci riflettiamo contro immagini di noi stessi distorte dalle nostre aspettative e speranze, per scovare il punto preciso dove si intersecano i meridiani e i paralleli, le linee guida dei nostri pensieri, le diagonali dei nostri desideri. trova le coordinate e io te lo prometto, scaverò. tra la pelle chiara macchiata dalle tue espressioni, lo sguardo disteso, i denti felici, le tende dei tuoi capelli, lentiggini solo poco accennate per dare riposo ai marinai, navigare da un occhio all'altro, scalare montagne e dislivelli, i bassipiani delle tue guancie, la pianura delle tue labbra; la pelle, tesa, del viso, cromata del colore di quando arrossisci volgendo la testa da un'altra parte. il modo curioso con cui cerchi di nascondere un sorriso quando vieni colta di sorpresa, da un complimento da una mano da un saluto, da uno sguardo.
urliamo per farci capire. ci voltiamo solo di tanto in tanto per guardarci, scambiarci opinioni. sbagliare. non è il caso di rimanere seduti. beviamo birre fino a farci svenire i sensi, dentro, come distaccati da tutto il resto, tenuti in equilibrio da fili invisibili che li legano sospesi tra lo stomaco, i polmoni, il fegato. i nostri organi a suonare musiche subliminali, tese tra la felicità e l'estraneità. il non sapere chi. il divertirsi anche quando. il nonostante tutto. il basta che. il basta e avanza.
ascolto storie di cui non conosco i protagonisti. vesto nomi con facce rosse piene di x di censura. nel frattempo vedo ancora la tua immagine, e non mi importa: dei lampi a illuminare il cielo; delle strade perse, chiuse, ritrovate; del ticchettare frenetico e costante delle lancette dell'orologio; dell'india, del giappone, di tutti quanti i paesi orientali; di quella porzione, ampia e scostante, di te che non conosco; del freddo pungente a ferirmi prima le mani, poi il petto, con lunghe lame affilate di vento gelido a soffiarmi sul collo dove non riesco a ripararmi con il colletto del giubbotto. dimentico i miei promemoria, lascio scappare via dal recinto i cavalli pazzi delle mie fantasie. li ho tenuti mansueti fino a ora sperando di poterli addomesticare; ma sbagliavo, in fondo proprio come ho fatto sedendomi, perché gli animali selvatici non sono fatti per essere rinchiusi. quando lo sono diventano cattivi, marciscono all'interno, inacidiscono insieme al sangue nelle vene, fino a scoppiare e far più danni di quanto non avrebbero fatto se lasciati liberi. la fantasia è una mandria furiosa di cavalli, non a caso si definisce galoppante. senti il rumore dei suoi zoccoli pestare forte il terreno, proprio qui accanto, alla mia sinistra, ancora una volta seduta, accucciata, buona.
quello di cui ho bisogno non sono cavalli, quanto piuttosto cani, da compagnia. quelli domestici che si sdraiano vicino alla poltrona dove leggo, che scodinzolano felici appena mi vedono. più reali. più veri.
apri il palco, tirando via le tende dei tuoi capelli. li passi con una mano portandoteli dietro la nuca. forse un po' imbarazzata. dici: prendimi. fai di me quello che vuoi. appena entrata in soggiorno ti vedo risplendere. niente addosso. sei limpida. non ridi, non piangi. tieni un'espressione decisa a voler arrivare fino in fondo. rimani in attesa di una mia risposta. ti guardo restando seduto, sbaglio ancora. perseverare è diabolico, mi pare di sentire. un'eco lontana. il diavolo, forse.
è così strano vederti senza scarpe. sei scalza, e gli occhi, i miei, vengono subito attratti dai tuoi piedi. non sono del tutto appoggiati a terra. si tengono un poco sulle punte, ma non troppo. tra il pavimento e il tallone passerebbe appena un foglio di giornale.
salgo sulle tue caviglie con lo sguardo. mi attorciglio attorno ai tuoi polpacci. divento stringhe di sandali a schiava fino ad arrivare proprio sotto le tue ginocchia. ti stanno bene, ti dico, anche se non si vede ancora niente, né io né loro.
mi guardi arrossendo un po'. è la prima reazione che lasci trapelare. in quel momento, preciso istante, mi avvento su di te, sulla tua vita, la afferro cingendola con un braccio, inginocchiato come sono ai tuoi piedi, poi l'altro. cintura. affondo la faccia dentro la tua pancia, annusandone l'odore. il tuo odore dentro le mie narici, sulla mia pelle, in quello spazio ristretto dove ho sempre amato trovarlo: tra il labbro superiore e il naso.
sento le tue dita annodarsi tra i capelli sulla mia nuca. spingono verso di te. con la mano destra scivolo verso l'alto fino alla tua scapola sinistra. siamo a specchio.
sospiri.
alzo gli occhi. vedo le mie unghie finire la loro corsa sulla tua spalla, sporgono un poco sopra la clavicola altrettanto sporgente. riflettono la tenue luce che illumina la stanza. tu reclini la testa all'indietro, alzando lo sguardo verso il soffitto. barcolli un po' indietreggiando. cerchi un appoggio. con una mano tenti di afferrare lo stipite della porta.
respiri sempre più velocemente. inspiri, espiri. inspiri, espiri.
io rimango abbracciato a te, intento a impastare baci sul tuo ventre. scavo con le labbra, inumidisco con la lingua, tutto attorno al tuo ombelico. sento caldo appena sotto il mento. inspiri espiri, inspiri espiri. la tua pelle come un cuscino mi schiaffeggia dolce con i suoi movimenti ad aprirsi e chiudersi, in su e in giù, accompagnando il ritmo del tuo braccare l'aria.
allunghi il collo, ti stiri verso l'alto. con movimento contrario io ti tiro giù. ne esce un effetto rallenty con il quale ci sdraiamo a terra, scomposti, uno sopra l'altra. inspiriespiri, inspiriespiri. nuoto su di te, con le mani, la bocca, gli occhi, fino ad arrivare a suon di carezze e sussurri speciali nell'incavo del tuo collo. lì affondo il colpo, lascio penetrare i miei canini nella tua carne, come farebbe un vampiro affamato di sangue. tu stridi un respiro più affilato verso l'esterno, facendolo passare attraverso i denti chiusi. gli occhi stretti in una smorfia che disegna il tuo piacere di un rosso acceso proprio nel centro del tuo petto. lo sterno ti si illumina fosforescente facendo intravedere i palpiti infuocati mulinare verso il basso. le tue gambe si muovono prima senza controllo, mosse da una scossa elettrica che scarichi sul mondo con sillabe acute, poi si attorcigliano sopra la mia schiena, stringendomi a te. non mi lasci andare via, mi leghi.
scivolo fino ad arrivare alla tua bocca e sulle tue labbra lascio cadere le mie labbra. due onde opposte si scontrano in zampilli di movimenti fugaci dove le nostre lingue cercano di trovare un ordine. il tuo affanno si mischia con il mio affanno, si mescola con la passione umida che ci ha portati a terra, trascinandoci uno sull'altra, a toccarci, baciarci, accarezzarci con violenta ferocia. stiamo andando a fuoco e cerchiamo in qualche modo di calmare le fiamme, farle appassire sotto una coperta. fino a quando una scintilla più potente, più forte, si insinua e si accende dentro il nostro inguine, diventato tutt'uno senza darci nessun preavviso. in quel momento un chiasso sinuoso esplode in lontananza. soltanto noi riusciamo a sentirlo: il suono di benvenuto che accoglie una galassia nuova appena nata.
guardiamo il soffitto, esausti. dio ha creato il mondo in sei giorni, il settimo si è riposato. noi abbiamo compresso tutto quanto in una serie forsennata di battiti, pompando il sangue più forte nelle vene fino quasi a rovinarcele. tornare alla normalità è faticoso, a volte fa pure male, vedere il proprio petto riprendere un ritmo tranquillo, gonfiarsi e sgonfiarsi con sempre meno frequenza.
poi le tue parole, senza il tuo sguardo.
mi piacerebbe passare più tempo con te, da sola. vorrei tu lo capissi sul serio, davvero. ma in certi momenti mi accorgo di non avere tempo, tempo materiale, per perdermi nei labirinti della tua mente.

Distanti

Quando lui le telefonò lei era appena uscita dalla doccia. Aveva fatto giusto in tempo ad avvolgersi stretta dentro l'accappatoio e precipitarsi in fretta, zampettando scalza, verso l'apparecchio che stava squillando.
Mentre alzava la cornetta non pensava fosse lui. Di solito non chiamava mai a quell'ora, se lo faceva significava che era in viaggio, da qualche parte perso per l'Italia, in una camera d'albergo con il letto matrimoniale e la televisione piccola che prendeva solo pochi canali, e male. Era così che di solito si mettevano a parlare: in modo distante, separati da chissà quanti chilometri, e chilometri, ogni volta. Quando non c'era tutto quello spazio tra loro non sprecavano certo il tempo a parlare.
"Ciao." Fece lui senza darle il tempo di chiedere chi fosse.
"Hey! ma sei tu."
"Certo, chi diavolo avrebbe dovuto essere?"
"No, niente... cioè: nessuno."
"Disturbo, per caso?" A tratti lei odiava quel suo modo sempre preciso di piombare dentro una giornata, chiedendo permesso, scusate, quasi non l'avesse già abbastanza sconvolta la sua vita, entrandoci all'improvviso, quella volta si senza chiedere il permesso, e rovesciandola tutta come un calzino.
"No, no. Mi stavo facendo una doccia."
"Sei ancora nuda?"
"Mi dispiace per te, ma ho fatto in tempo a mettermi l'accappatoio." Rise, cercando di stare quanto meno un po' al gioco, nonostante sapesse bene che non ci sarebbe riuscita, non per molto almeno.
"Peccato. Mi piace immaginarti nuda, magari ancora gocciolante d'acqua, con il corpo bagnato, mentre fai scivolare la mano lungo i fianchi e giù giù..."
"Rallenta tesoro, altrimenti la compagnia telefonica ti farà pagare la tariffa delle chiamate erotiche."
"Potremmo fare sesso telefonico, se ti va."
"Preferirei averti per le mani, piuttosto che lavorare di fantasia."
"E cosa mi faresti, se fossi lì con te?"
"Beh - voleva lasciarlo un po' sulle spine, farlo rosolare giusto qualche minuto sulla graticola, quel tanto che bastava per fargli capire che non poteva ottenere tutto subito; non ancora almeno. - dipende molto da come ti saresti comportato e da come ti comporteresti."
"Lo sai che io mi comporto sempre bene."
"Si, intanto però sei andato via senza neppure avvertirmi, senza farmelo sapere."
"Lo so. - divenne serio. - Purtroppo è stata una cosa improvvisa, un'emergenza."
"Dove ti hanno spedito questa volta?" Lui di lavoro riparava complessi macchinari odontoiatrici, contorti apparecchi che si snodavano in braccia allungabili e che erano capaci di fare un perfetto modello tridimensionale al computer di tutta quanta la bocca dal paziente.
"Sono poco fuori Brescia."
"Brescia? Questa mancava alla collezione, no?"
"Si, è la prima volta che ci capito." Si divertivano a tenere il conto di tutti i capoluoghi di provincia nei quali lui soggiornava, e ogni volta che capitava in un posto nuovo cercava in qualsiasi modo di prenotare la notte in una catena di alberghi diversa, in modo da poterle portare in dono saponette e shampoo che lei poi posizionava come tanti piccoli trofei dentro l'armadietto del bagno.
"Com'è la camera?"
"Non è un granché: è piuttosto scarna, però è davvero grande. Forse anche per questo motivo sembra così vuota, arredata poco. Tra il letto e l'armadio c'è talmente tanto spazio che mi ci posso sdraiare tranquillamente in mezzo."
"Woaw! E' una delle più grandi in cui sei stato, no?"
"Si. - rispose lui. - Ma anche una delle più vuote."
A quel punto a lei il respiro le si raggrinzò tutto attorno al petto, formando un leggero avvallamento concavo giusto in mezzo ai seni. Pregò con tutto il cuore che lui non pronunciasse quella frase, quella specie di ritornello che ogni volta saltava fuori quasi fosse il bacio della buona notte quando un bacio vero e proprio non potevano scambiarselo: una specie di contentino, lo zuccherino da dare al cavallo mansueto, ecco che sapore aveva quella frase per lei.
"Vorrei tanto che tu fossi qui con me, adesso." Ecco. Quelle parole la colpirono come una lama arroventata intenta a farsi largo dentro il suo ventre. Era troppo per quella sera, non ne poteva più. A volte raggiungeva un limite massimo di sopportazione oltre il quale non credeva possibile arrivare, e quella era una di quelle volte.
"Ora devo andare. - Disse lei con tono freddo, tornando ad avere tra le mani una semplice cornetta e non una mano di lui, un orecchio dentro il quale sussurrare o più semplicemente parlare. - Ho fissato con una mia amica per andare al cinema."
"Cinema? Non me lo avevi detto..."
"Scusa, ma sono proprio in ritardo. Ci sentiamo domani. - Tagliò corto. - Caso mai."
"Ok. Ciao. E Buona notte."
"Notte."
"Ti amo." Click.
Non fece in tempo. Forse perché una parte di lei magari voleva sentirsi dire quelle parole, le bramava, erano diventate una specie di droga da quando gliele aveva dette la prima volta; ma non fu abbastanza veloce nel riattaccare per strozzare la sua voce prima che pronunciasse quella stronzata da catene ai polsi.
Una parte di lei poteva anche volerle sentire quelle parole, ma una parte di lei non ne sopportava neppure più il suono, l'idea; non riusciva più neanche a guardare un film senza che un moto di rivoluzione violenta si scatenasse a metà strada tra il suo stomaco e il suo intestino ogni volta che un qualche personaggio le pronunciava, quelle stramaledette parole.
Appoggiata la cornetta al ricevitore si lasciò crollare sul pavimento, scivolando con la schiena contro la parete e ritrovandosi infine seduta rannicchiata a terra. Con una mano appoggiata alla base della fronte cercava di non piangere, ma sentiva già le lacrime mischiarsi con l'acqua che le gocciolava già dai capelli.
Casa sua era diventata d’un tratto silenziosa. E vuota. Lei sola, in mezzo a quel vuoto grande, enorme.
"Mi piace immaginarti nuda."
Avrebbe voluto qualcosa per le mani solo per poterlo scaraventare contro il muro e vederlo sfracellarsi scomposto e distrutto. Aveva voglia di sciupare, rompere. Aveva voglia di.

lunedì 15 novembre 2010

Cercasi batterista, chiamare Alice

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Uno spillo di dolore la trafisse dalla base del collo passando attraverso tendine, muscolo, osso, attraverso il cervello, soprattutto, e le perforò il dietro degli occhi.

Ovunque fossi sentivi questa fame di un po' di semplice conversazione.

Cinque, sei, sette re rimase steso sotto il tavolino nella cucina della canonica. Fu allora che capì come la rigidità del concetto di tempo attecchisse solo sullo strato più esterno del pensiero civilizzato.

La perdita del padre era la rovina per un bambino. E da quel giorno ebbe l'impressione che fossero scomparsi tutti ipadri del vicinato. O meglio, di padri ce n'erano, erano i papà che non si vedevano più.

La dipendenza era il controspionaggio della carne, il corpo che faceva il doppio gioco.

La madre di Alice stava dormendo.
Alice e Ruthie la guardavano e basta. Non aveva abrasioni né graffi né suture. Niente nel suo sonno che meritasse preoccupazione. Era solo l'ospedale di per sé a essere preoccupante. Era il posto in sé che ti condannava alla malattia.

La fabbrica produceva caffè decaffeinato solubile, e le sue trasfomazioni chimiche erano accompagnate da un odore di gomma bruciata o di tetti creosotizzati. La puzza era penetrata nel terreno e negli alberi lì vicino, dentro i pori degli abitanti.

Innamorata non era la parola esatta, però ci andava vicino.

Uscì sul gradino davanti casa. Gli uccelli e i fiori avevano la banalità dei biglietti d'auguri.

"Sto sbagliando qualcosa", disse Dennis.
"Quello che sbagli", spiegò Alice, "è pensarci, pensare che stai sbagliando qualcosa. Non darti per vinto, questo ti consiglio. Non li sopporta nessuno quelli che si danno per vinti."

Ci si aspettava che le feste fossero divertenti, ma un sacco di volte non lo erano affatto. La gente si confondeva sempre.

La cosa buffa dei canali porno a pagamento era che la parte veramente migliore erano le pubblicità, tutte quelle pubblicità che dicevano che il programma ricominciava subito. Così come la parte migliore delle feste erano i preparativi.

Una sera aveva convinto Scarlett ad andare a letto con lui. Scarlett della band. Erano rimasti fuori fino a tardi dopo aver suonato in qualche locale. Un ottimo esempio di pessimo sesso occasionale. Il punto era stato l'opera di convincimento. Come faceva certa gente ad abboccare a tutte quelle cazzate, se non voleva abboccare fin dal principio? O forse poteva capitare, come con Scarlett, che un giorno ci fosse la giusta congiunzione astrale o qualcosa del genere, e allora succedeva e basta. Quella sera Scarlett si era semplicemente lasciata convincere. Stava passando un brutto periodo ed era disposta a fare cose. L.G. sapeva che la gente doveva essere in un brutto periodo se si ritrovava a casa sua, e ci si era abituato. Il fatto era che prima o poi ci si ritrovavano quasi tutti.
E si era unita a loro anche una ragazza. Una ragazzina. Scarlett non aveva cercato di dissuaderlo, e alla ragazza l'idea piaceva. Al momento nessuno dei tre aveva di meglio da fare.
Sul tetto, mentre aspettava l'arrivo dei fusti, mentre aspettava la festa, L.G. ricordò che quella volta non riusciva a concentrarsi. Era un problema numerico. Le due donne lo baciavano insieme, ciascuna su una guancia diversa, oppure lui ne baciava una, e l'altra stava facendo lo stesso. Non sapeva da che parte girarsi. Oppure teneva Scarlett con le braccia e l'altra con le gambe, oppure una delle due era in questa identica posizione. Chi lavorava nella finanza poteva abituarsi a calcoli del genere, forse, ma L.G. no.
Il problema non era trovarsi davanti due ragazza che facevano sesso, per come la vedeva L.G.; il problema era ritrovarsi finalmente a fare una cosa che l'aveva tanto stuzzicato e rendersi conto che non lo stuzzicava più. Le fantasie sono come gli ideali: esistono solo per farti perdere l'orientamento. Prova a prenderele e quelle si spostano. Ancora più in là, di solito.

E Ruthie andò a colpo sicuro, accorgendosi soltanto dopo di come Lane si stringeva addosso l'asciugamano, di come persino in quel momento si vergognava del suo corpo: le sue concavità, i suoi spigoli.

Lane andò alla finestra. Fuori dalla stanza di J.D. il sole cominciava a tramontare e aveva i colori di un incendio doloso.

Qual era il ragionamento che finalmente permetteva ai giovani di mollare, una volta per tutte, la giovinezza? Sembrava che quella generazione non volesse andarsene mai di casa. Crescevano fino a un certo punto e poi passavano il decennio successivo, fino al collasso, a cercare di riassaporare il senso di novità dell'adolescenza, quella pulsazione della giovinezza che sembra, nel suo pieno fiorire, permanente.

Tutto questo perché la cosa che faceva paura era passare lì dentro il tempo che ci dovevi passare, tenere la bocca chiusa e obbedire a quello che ti dicevano loro. La cosa che faceva paura era guarire, cambiare. Perché allora ti rispedivano nel mondo. A provarci di nuovo.

Quando salirono sull'autobus Dennis passò un braccio attorno alle spalle di Scarlett, e lei glielo lasciò fare e fu una cosa carina. Scesero a qualche isolato dal negozio del disinfestatore, davanti al Pinnacle. Poi si salutarono. Le vittorie più grandi stavano nelle cose più piccole.

Era pomeriggio. Arancione, rosso e ocra si riflettevano sugli edifici grigi e polverosi sull'altra sponda del fiume. I riflessi danzavano nel punto in cui acqua dolce e acqua salata confluivano increspandosi.

Più cose dicevano, più cose c'erano da dire, ma non una che andasse a segno, non una che li facesse sentire compresi, o che li convincesse del fatto che la vicinanza umana poteva placare l'intensità della solitudine. Le parole che si scambiavano erano come l'asfalto sotto le ruote dell'autobus. Erano come i paesaggi che si percorrono in lungo e in largo mille volte ma restano sconosciuti, se non per i cartelloni. Comunque ne valeva la pena.

Rick Moody

giovedì 11 novembre 2010

Quadrati

quando disegna lui disegna sempre dei quadrati. li fa precisi, con bordi netti, spigoli acuminati. come alcuni giorni, dice con un sorriso amaro. non importa dove si trovi, se a casa seduto in cucina, o più spesso al ristorante dopo avere mangiato: lui prende una penna e inizia a tracciare tratti decisi, privi di esitazioni. non ci sono vie di mezzo, o lo fai o non lo fai. se sbagli, pace, hai sbagliato. non c'è modo di tornare indietro. odia i lapis proprio per questo. se per caso vai un po' storto puoi sempre prendere una gomma e cancellare tutto quanto, ripartire da zero sullo stesso identico foglio, fare finta non sia successo nulla; ma la verità è che niente è così facile. quando compi un gesto ti porti dietro tutta una serie di effetti, conseguenze. ti costruisci appresso un reticolo fitto di azioni secondarie che non sarebbero mai esistite se tu non avessi fatto quel gesto - magari un saluto, una semplice mano alzata. il tuo gesto non sarà mai singolo, solo tuo, ma si interfaccerà con altri gesti di altre persone, i quali si relazioneranno con altri gesti ancora, di altre persone ancora, e ancora e ancora, pressoché all'infinito. cancellare puoi cancellare, è vero, ma solo i tuoi gesti. quelli degli altri rimarranno, su di loro non hai alcun potere. fare finta di non avere sbagliato, a questo punto, conta poco. sarai un po' come un buco nero: il tuo errore non si vedrà, magari, ma tutte le conseguenze che ha generato saranno ancora lì, a orbitare attorno a esso, anche se esso in realtà non ci sarà più. puoi fregare gli sciocchi, chi non vede non crede, ma gli astronomi sapranno bene che lì in mezzo, nel centro preciso attorno al quale gravitano tutti i gesti secondari, dove ora c'è solo uno spazio vuoto, prima c'era il tuo errore. sbagliare è naturale. cercare di cancellare i propri sbagli non è neppure diabolico: è da cretini.
"quindi disegnare è una specie di esercizio?"
domande del genere secondo lui non avevano senso. tutto quanto era un esercizio. disegnare, respirare, cercare di spiegarsi. qualsiasi cosa. inoltre, quando affrontava questo argomento, tutti perdevano di vista la questione centrale, ovvero non il disegno, inteso come azione, quanto piuttosto cosa disegnava. solo una volta una persona gli fece la domanda che più di ogni altra si aspettava: perché disegni sempre e solo quadrati?
si trovavano in una trattoria, alla fine di una cena. erano con un gruppo di amici, una quindicina circa. tutti si conoscevano, chi più chi meno, ma dopo il caffè si formarono inevitabili alcuni gruppetti di discussione. c'era chi parlava di calcio, chi di cosa aveva comprato durante gli ultimi saldi, altri invece discutevano delle nuove uscite cinematografiche. lui era in disparte, da solo. aveva preso a disegnare i suoi quadrati sulla tovaglietta di cartone sulla quale aveva mangiato. la luce era calda, sembrava abbracciarlo. atmosfera intima, come piaceva a lui, con il frastuono delle voci altrui in sottofondo. all'inizio non si accorse neppure di lei, seduta in silenzio alla sua sinistra. lo guardava sorseggiando del vino, rosso della casa, portandosi alle labbra un bicchiere sporco, opaco. pareva incuriosita, attratta da quello che stava facendo, ma non così tanto da interromperlo per chiedergli spiegazioni. fu lui a rivolgerle la parola per primo.
"vuoi imparare?" lo chiese senza distogliere lo sguardo dal tavolo.
"a disegnare quadrati? no, grazie. penso di saperlo già fare."
"non si impara mai abbastanza a fare una cosa."
si voltò. lei bevve un po'.
"allora perché mi guardi?"
"sono curiosa."
"perché me ne sto qui da solo a disegnare anziché mettermi a parlare con qualcuno?"
"no. - fece lei - perché disegni solo dei quadrati."
colpito. la sua espressione si congelò per alcuni brevi attimi. lei se ne accorse.
"vedi?" disse indicando la tovaglietta, quasi stesse a lei fargli notare cosa aveva disegnato fino ad allora. un quadrato piccolo in alto a sinistra, un quadrato più grande nell'angolo in basso a destra, uno minuscolo al centro, e accanto a quest'ultimo un quadrato capace di contenere al suo interno la base di un bicchiere.
"perché soltanto quadrati?" chiese di nuovo lei, avvicinandosi un po' e aspettando attenta una sua risposta.
lui posò la penna. fece un respiro. poi un altro.
"disegno quadrati per metterci dentro le cose serie." era la prima volta che lo diceva, che lo diceva ad alta voce.
"le cose serie?"
"si. tutte le cose di cui, proprio perché sono serie, finiamo per non parlare mai."
"scusa ma credo di non capire."
"lo so. è normale. sono abbastanza complicato." rise lui.
"forse è anche per questo che disegni dei quadrati. - lei non si scompose. - sostanzialmente sono figure geometriche piuttosto semplici. disegnandoli cerchi di rendere semplice pure te stesso."
"può essere. non l'avevo mai guardata sotto quest'ottica."
un cameriere iniziò a sparecchiare il tavolo, portando via alcuni piatti ma lasciando una caraffa dentro la quale rimaneva ancora un po' di vino.
"in effetti però - non voleva che la discussione si perdesse nel nulla. - non è importante il portagioie, quanto piuttosto le gioie che ci metti dentro."
lui capì cosa intendeva. gli piacque il modo con cui aveva riportato il discorso sui suoi binari, ammiccando senza usare gli occhi, o la bocca, bensì le parole.
"cosa è per te una cosa seria?" gli chiese ancora lei.
"una cosa seria può essere qualsiasi cosa. prendi la cosa più stupida che ti possa venire in mente - lei pensò: ritagliare articoli di giornale che parlano di gossip; collezionare schegge di bicchieri rotti; bruciare foto di viaggi andati male; vendere a mercati dell'usato i souvenir di una vita - se la affronti seriamente, se ne parli in modo attento, senza permetterti la minima ironia, pure quella cosa diventa seria. tutto sta nel modo in cui affronti l'argomento."
"quindi potremmo parlare di merda, magari di un calcolo statistico sul numero di persone necessarie per spalare via tanta cacca da ricoprire un intero campo di calcio, e potremmo dire di parlare di una cosa seria?"
"in teoria si." versò del vino nel suo bicchiere e ne bevve un sorso.
"allora, sempre in teoria, potremmo parlare sempre di cose serie, anche quando parliamo di minchiate."
"è questo il problema: le persone non vogliono essere sempre serie, anzi. se affronti sempre le cose in modo serio rischi di diventare noioso. devi riuscire a intervallare i tuoi discorsi con delle battute, degli scherzi."
"mi pare normale: non essere solo e soltanto serio, ma neppure sempre e soltanto cretino."
"a te pare normale." con lo sguardo indicò un gruppo degli amici poco distanti da loro. una serie di risate sguaiate ininterrotte uscivano dal capannello mentre uno di loro raccontava orgoglioso le sue avventure sessuali.
"chi non riesce a trovare il giusto equilibrio rischia di non parlare mai seriamente, di naufragare sul lato sbagliato, quello più semplice. è facile non prendersi sul serio, dire solo frasi stupide. queste non devono avere una profondità, non devi lavorarci per tirarle fuori: basta dare fiato. altra cosa è farsi un'opinione, ragionare sulle cose, cercare di capirle, scavarsi dentro."
"e i quadrati cosa c'entrano?"
"i quadrati sono dei contenitori. ci metto dentro tutte quelle cose di cui non posso parlare perché altrimenti mi emarginerei. quando sono in compagnia in genere scherzo tranquillamente con gli altri, sono il primo a dire puttanate, a fare il cretino; ma non voglio diventare davvero cretino, non del tutto. per questo mentre parlo disegni i quadrati, e tra una sciocchezza e l'altra ci butto dentro quello che avanza, ovvero le cose serie." mentre diceva strappò un pezzo della tovaglietta e ci disegnò dentro un quadrato, dopodiché lo porse a lei.
"da quanto tempo ci conosciamo?"
"ormai sarà qualche anno." rispose lei.
"e fino a oggi quante volte avremmo parlato? - silenzio. - e di cosa abbiamo parlato? forse del tempo, di sciocchezze varie, ma mai di qualcosa di più sensato. non voglio tu pensi io sia solo risate e stronzate. questo - disse riferendosi al quadrato che le stava dando - è la conversazione di oggi."
"non dovresti preoccuparti troppo dell'opinione degli altri." disse lei prendendo il pezzo di tovaglietta di cartone.
"non mi sto preoccupando dell'opinione degli altri, mi sto preoccupando della tua di opinione."
quel giorno lei lo conobbe di più. da quel giorno lui continuò a disegnare quadrati, ma sul foglio lei cominciò a vedere dei cubi.

mercoledì 10 novembre 2010

An Education


an education, ovvero: la tentazione di una giovane ragazza intelligente. le scorciatoie degli anni cinquanta perse tra le strade piccole dei sobborghi inglesi intrecciate con i grandi boulevard di una parigi sognata e disegnata con libri, film, canzoni. perché sacrificarsi per il futuro, quando il futuro potrebbe non arrivare mai, o arrivare con temi da correggere facendoti diventare triste? guardare il mondo con lenti diverse. ripetere le lettere che il dottore indica al muro e che diventano via via sempre più piccole. cambiare la gradazione ogni qualvolta l'immagine si appanna troppo. non perdere di vista l'obbiettivo. qui sta il punto: definire un obbiettivo.
un film in costume, nelle atmosfere, ambientato nel secondo dopoguerra. fa strano dirlo per un periodo relativamente vicino a noi, quando invece siamo abituati a usare questa etichetta solo quando si vedendo sullo schermo abiti pomposi, parrucche ottocentesche, stili di vita faraonici. volenti o nolenti il novecento, soprattutto la sua prima metà, è diventato di costume. lo si può capire appunto dall'obbiettivo, oggi impensabile, il fine ultimo dell'istruzione, che è diversa dall'educazione del titolo. perché quell'educazione è quella che ti farà capire quanto siano importanti sia i libri, i film, le canzoni, ma quanto lo siano in egual modo gli errori. l'educazione del titolo si costruisce con le lettere dei propri sbagli, del perdersi autoconvincendosi di stare facendo la cosa giusta. allora tranci legami, ti togli il paracadute, fai spostare la rete di protezione, e ti tuffi nel vuoto convinta di saper volare. lo sbaglio, quello più grande, sta proprio in quel salto, perché non ci sarebbe nulla di male, anzi, se a saper volare fosse lei, la protagonista; ma per volare invece si affida soltanto a qualcun'altro. è vero: l'amore annebbia la vista, e non solo. lavora di fino a cambiarti il cervello, modificando le tue idee, trasformandoti fin dalle fondamenta delle tue stesse convinzioni.
e se è vero che è giusto sbagliare a sedici anni, può sembrare altrettanto giusto che i grandi non sbaglino più, che siano loro a tutelarti, a proteggerti; ma è anche vero e forse ancora più giusto che la verità è assai diversa da quello che si può urlare piangendo per cercare di alleggerirsi dalle colpe. la verità è che non si finisce mai di sbagliare.

martedì 9 novembre 2010

Stelle, pianeti, e compleanni

Prendete le vostre migliori parole. Quante saranno? Abbastanza da poterle concatenare in una permutazione che ai vostri occhi, come ai miei, possa sembrare infinita. Ci potete fare fiocchi, origami, al massimo potreste spingervi fino ad arrivare a qualche timido bocciolo di fiore. Ma lei ha più parole, così tante da poterle stendere da qui all'eternità, le combinazioni possibili si spingono oltre qualsiasi possibile orizzonte. E le sa usare, e le usa, a meraviglia. Ci costruisce stelle, costellazioni, galassie intere, che quando le guardi o le leggi ti senti così infinitamente piccolo, come quando ti perdi nel guardare quel puntino luminoso immerso nel cielo notturno e ti domandi se sia Venere o Sirio, ma ti importa poco, di qualsiasi cosa e di quello, perché è tutto talmente bello, perdersi nei suoi discorsi, che il resto viene spazzato via. Ti metti a leggere e godi di quegli universi in espansione che ti riempiono prima la bocca e poi il petto, mentre prendi le sue frasi e le ingoi con gli occhi.

lunedì 8 novembre 2010

Ottobre 2010


"Preoccupati di indossare bene i tuoi difetti,i pregi stanno bene a tutti."

Anonimo