da piccoli stilizzavamo tutto, qualsiasi cosa. quando disegnavamo una casa, un'auto, lo facevamo con linee semplici, segmenti ben decisi, senza troppe curve. amavamo gli angoli, da piccoli. solo con il tempo abbiamo iniziato a preferire le circonferenze, il tratto rotondeggiante che si poteva ottenere cercando di smussare gli spigoli contro cui andavamo sempre a sbattere e che, a forza di scontrarci contro, avevamo capito ci facevano male. e le curve si sono portate dietro tutta una serie di altri concetti, significati, come se le linee dritte di prima fossero appunto dritte per il semplice motivo che erano leggere, spoglie di qualsiasi peso avesse potuto gravitare su di loro, mentre le curve fossero delle linee tracciate da una parte all'altra di un burrone, sulle quali al centro era stato appoggiato un qualcosa di non meglio definito, un quadrato magari, e che questo quadrato a causa della gravità avesse rotto la rigida orizzontalità della linea iniziale e l'avesse come piegata, formando una specie di goccia con la parte rotondeggiante rivolta verso il basso. oppure: le curve erano curve perché trasportavano dei feriti, magari proprio determinati significati, come facevano i cowboy trascinandosi a cavallo una barella. il corpo di questi concetti, tutti sanguinanti, moribondi, erano ripiegati su se stessi dal dolore, e non riuscivano a camminare eretti, in piedi, come invece avrebbero potuto fare le linee che li avevano preceduti, perché le linee in fondo erano prive di ogni responsabilità, spoglie di qualsiasi senso. non ne uscivano certo bene le curve, né avevano vita facile.
ma all'asilo, quando la suora ci diceva di disegnare casa nostra, con il lapis ben appuntato tracciavamo sicuri sul foglio un quadrato al quale facevamo indossare sulla testa un triangolo a spiovente, due finestre a fare gli occhi e la porta d'ingresso a formare la bocca. era un disegno piuttosto semplice. non ci mettevamo dentro le fondamenta, i muri portanti. non ci preoccupavamo di quante stanze potesse avere al suo interno quella nostra casa, e non ci importava neppure che tutte quante le nostre case su quei fogli si somigliassero in modo impressionante e allo stesso modo non somigliassero affatto alla nostra casa reale. non disegnavamo la verità, quanto piuttosto l'ideale. la stessa cosa la facevamo quando dovevamo ritrarre un'auto. all'epoca, anche se non è passato poi tutto questo tempo, eravamo più facilitati rispetto a ora. le macchine dei nostri papà, così come quelle che vedevamo in giro per strada, erano tutte più o meno simili e sembravano tutte quante delle grandi scatolette di tonno con le ruote. quando dovevamo disegnarle facevamo un rettangolo appoggiato su due cerchi. ancora non pensavamo al motore, al tubo di scappamento, all'asse e al semiasse, allo sterzo che avrebbe permesso alla macchina di girare, o al serbatoio dove mettere la benzina che avrebbe permesso alla macchina di viaggiare. no, non pensavamo a niente di tutto questo. noi tracciavamo linee sicure, linee dritte, e con queste semplicavamo la realtà. nella realtà non c'è niente che sia così ben definito, così netto, deciso. c'è sempre qualcosa che alleggerisce gli angoli, che ne macchia i colori: non è mai del tutto completamente bianco, né mai del tutto completamente nero. ma questo ancora noi non lo sapevamo.
anche il cuore non sfuggiva a questa regola. quando dovevamo disegnarlo facevamo una v sopra la quale abbozzavamo due piccole colline, poi saldavamo le due figure per farle sembrare una figura unica e nascondevamo i punti in cui avevamo staccato il lapis dal foglio per riposare il polso o per prendere la rincorsa per il tratto successivo. era un disegno assai banale, ma era pure l'inizio della fine. fu una delle prime cose che disegnammo ad avere le curve, a parte le ruote della macchina, ma quelle erano una parte secondaria del disegno, mentre il cuore con i suoi due semicerchi affiancati era il motivo stesso del disegno.
avremmo dovuto continuare a disegnare il cuore come una v, cercando con l'esercizio di farlo sempre di più simile a una scatola. in questo modo avremmo potuto guardarlo come tale, mettendoci dentro quello che ci piaceva: i sospiri, i bei sospiri; i baci dati e ricevuti a occhi chiusi; i brividi di felicità quando avverti che la felicità stessa ti ha afferrato l'anima fino al midollo. invece ci siamo ostinati a volerlo studiare, il cuore. così l'abbiamo composto di atri, di ventricoli; gli abbiamo dato dei punti di accesso per farci entrare il sangue, e dei punti di uscita per farlo uscire, sempre il sangue. abbiamo capito che per quanto importante esso sia, questo nostro cuore, altro non è che un semplice muscolo, che si contrae e si rilassa, al ritmo dei nostri battiti, per spingere il sangue ad annaffiare tutto quanto il corpo, fino alle punte più estreme della periferia, mani e piedi. solo che se ci facciamo male a una gamba e un muscolo si sfibra, lo chiamiamo strappo, mentre se ci fa male il cuore le chiamiamo ancora pene d'amore.
è questo che ci frega, è un po' un controsenso. disegniamo il cuore come una scatola, altrimenti se il cuore si strappasse lo chiameremo infarti, ma nonostante questo non possiamo fare a meno degli atri e dei ventricoli. e questo ci scombussola, ci fa andare avanti come se fossimo sempre, in qualsiasi momento, ubriachi. barcolliamo tra i rapporti. se solo riuscissimo a disegnare anche il cuore con delle linee dritte, i giorni sarebbero assai più semplici.
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