Poi ho preso a disegnarti. È stata una specie di folgorazione. Una mattina mi sono svegliato e ho cominciato a non fare altro. Ti disegnavo su fogli di carta, su vecchi quaderni, sui muri, per strada, ovunque. Prima le mani, poi le braccia, le gambe, il viso, il seno. Un po' mi sentivo anche in colpa. Tutti apprezzavano quei ritratti, dicevano fossero di una sensibilità unica: le linee scarabocchiate a delineare i contorni del volto, i colori pastello che ti illuminavano i capelli, le curve armoniche con cui si piegavano le braccia, i polsi. Chiunque li vedesse, i miei disegni, non faceva altro che tesserne le lodi.
Io arrossivo sempre. Non sapevo come rispondere. La gente passava davanti al tuo volto fatto dai miei tratti e mi diceva: ti amo. Io rimanevo senza parole. Dire grazie mi pareva troppo banale. Mi limitavo ad arrossire, spostando lo sguardo per non incrociare i loro occhi. Questa gente pronta a innamorarsi di me, per merito in fondo solo tuo, non la conoscevo, non potevo ricambiare il loro sentimento. Avrei potuto prendere le mani di ognuno e stringerle dentro le mie mani, farle sentire accettate, dire: anche io ti amo, a tutti, a ogni persona che me lo diceva. Ma non sarebbe stato sincero, avrei soltanto finto. Non mi sembrava giusto nei loro confronti, né nei tuoi. In più mi sarei sentito un traditore, per avere usato il mio ti amo come banale merce di scambio: i miei sentimenti barattati per farmi sentire adeguato a dei complimenti fatti da altri, con il cuore aperto. Chi sa come richiudere tutti questi cuori senza fare del male, senza lasciare nessuna traccia?
Rispondevo che non era merito mio. La bellezza era tua, gli occhi erano i tuoi, i lineamenti pure. Tutto quanto scaturiva da quei disegni, veniva fuori perché in un modo o nell'altro tu nella vita reale lo avevi dentro, pronto a farlo esplodere o a farlo sfumare in carezze. Ma loro, la gente, non voleva capire, dava tutto il merito a me. Dicevano fosse necessaria un'abilità particolare per trasportare su un foglio di carta tutti gli aspetti speciali di una personalità, fosse quest'ultima reale o anche inventata completamente. Vedevano nelle mie mani uno strumento speciale che gli altri non avevano. Mi chiamavano genio, artista. E io arrossivo sempre di più.
A volte la notte mi svegliavo di soprassalto. Gli incubi mi tormentavano. Avevo paura di cosa avrebbero potuto farmi se mi avessero mai scoperto. Io non era un genio, non ero un artista. Mi sentivo un impostore anche quando mi sentivo appellare come pittore. Io non inventavo niente, mi limitavo a copiare, se così si può dire. Ero colpevole di plagio. Quando avrebbero scoperto il mio trucco tutti si sarebbero scagliati contro di me, anche quelli che mi avevano dichiarato tutto il loro amore, sputando veleno sui tuoi ritratti, su ciò che avevano tanto amato. Quando iniziai a disegnarti non lo feci perché di punto in bianco mi venne l'ispirazione di immortalarti. Lo feci semplicemente perché cominciai a vederti ovunque. Ti vedevo distesa sul letto, ma quando cercavo di toccarti scoprivo che eri impalpabile, svanivi, perciò presi un pennarello e tracciai i tuoi contorni sulle lenzuola. Poi ti ombreggiai, seguendo i chiaro scuri della luce. Lo facevo in casa, sulle pareti delle camere, in cucina, rannicchiata sul pavimento, sdraiata per terra, vestita, svestita, nuda, sorridente, seria, assorta, intenta a guardarmi, a ignorarmi, a pensare cosa avremmo potuto fare insieme, oppure a scacciare le paure che ti facevo venire, il timore di diventare aggressivo, di violentarti non in senso fisico ma in senso morale, stuprarti la mente, sventrarti i desideri. Ti vedevo per strada camminare lungo i bordi di un muro, passare da una casa all'altra con la tua andatura, appoggiata ai lampioni mentre parlavi con altra gente a me sconosciuta, sui vetri in plexiglass delle pensiline delle fermate degli autobus, sui vagoni dei treni, nelle stazioni, sui marciapiedi del centro e della periferia. Solo dopo mesi iniziai a disegnarti su dei fogli di carta, ma anche quelli non erano che semplici ricalchi, niente di speciale.
Io non inventavo niente. Ti vedevo solo ovunque e in tutti i modi cercavo di renderti il più reale possibile. Quando chiudevo gli occhi tu sparivi, proprio come avevi fatto nella realtà. Nella realtà on eri più tornata, mentre quando riaprivo gli occhi tu tornavi. Ti disegnavo per timore che tu decidessi di non tornare neppure in quel caso.
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