Sdraiato sulla riva del fiume teneva le mani intrecciate dietro la testa, le gambe distese con i piedi a puntare verso il corso d'acqua, e un sorriso appena accennato sulla superficie delle labbra. Gli occhi chiusi. Sotto le palpebre non si vedevano i movimenti isterici della fase rem. Non stava sognando. Non stava dormendo. Con l'immaginazione disegnava la posizione delle foglie, appese ai rami degli alberi piantati poco lontano da dove si trovava lui. Si divertiva a posizionarle una a una, con casualità, distratte, appoggiate come con un dito al legno, mentre spostate dal vento producevano un suono leggero, ognuna un piccolo fruscio.
Il colore era verde. Un verde reale, fatto di infinite sfumature impercettibili, con la luce pronta a riflettersi sulla superficie trasfondo la tonalità da spenta ad accesa, rendere l'intera foglia quasi trasparente, oppure farla piombare nell'ombra non appena il sole scompariva dietro una nuvola. La sintesi clorofilliana si attivava e disattivava facendo percorrere la linfa dentro quelle leggere venature in rilievo. Il sangue delle piante, pompava silenzioso con un fluire denso. Non lo avrebbe detto uno scorrere, bensì uno spingere appiccicoso, una calca che si muoveva tutt'una, non separata.
Immaginava questo, mentre il giorno si distendeva sopra di lui, appoggiandosi al suo petto come poteva capitare solo durante le domeniche pomeriggio. Aveva quasi paura di aprire gli occhi, scoprendo in questo modo magari un mondo diverso da quello costruito dentro la sua testa. Si accorse, corrugando un poco la fronte, di quanto potesse essere frustante il vivere distaccato, non tenere legami abbastanza stretti da poterlo definire legato al mondo esterno. Esisteva un mondo, era vero, ma non superava la sua pelle, il suo corpo ne rappresentava l'atmosfera. Frustante era il doversi continuamente palleggiare tra un mondo e l'altro, tra la verità fuori e la verità dentro. Il passare dall'uno all'altro lo avrebbe infine eroso, lo sapeva, perché di solito le persone non sono fatte per essere divise così in due. Le persone sono fatte per restare in un mondo solo, hanno apparati progettati per permettergli di sopravvivere in quel determinato mondo.
I polmoni, per esempio, permettono agli uomini e alle donne di respirare. Sono un sistema piuttosto meccanico, capace di attrarre al loro interno l'aria quando si allargano, facendoli ampliare dentro la cassa toracica. Inspiri e accogli l'aria dentro di te, espiri e cacci via l'anidride carbonica. Questo accadeva nel mondo che stava fuori la sua pelle, un mondo talmente complicato che alla fine si trovava a insinuarsi anche dentro la sua pelle, infatti i polmoni erano degli organi che lui aveva dentro, erano suoi, non erano qualcosa a lui esterno. Eppure facevano parte del mondo di tutti, non erano un tassello del suo mondo personale, quello costruito dentro la sua testa.
Nel suo mondo i polmoni non avevano una vera e propria funzione. C'erano, mantenevano la loro posizione proprio dentro al petto, come gli stessi polmoni del mondo di tutti, ma non si allargavano né si restringevano. Nel suo mondo personale non c'era bisogno di respirare, si poteva vivere trattenendo il fiato per tutto il tempo che si desiderava. Era un'apnea continua, ma senza la sofferenza di quella costante fine che ti attanagliava la gola nel mondo vero, quello di tutti. Era una sensazione del tutto nuova, perché dell'aria nel suo mondo lui non ne aveva bisogno, non era indispensabile.
Respirare è una di quelle azioni di cui, con il passare del tempo, non ti rendi più conto. È un'altra cosa rispetto per esempio al camminare: decidi di spostarti, di andare da un luogo all'altro, e allora inizia a camminare. Te ne accorgi subito. Respirare ti viene invece naturale, te ne accorgi solo quando non lo fai. È un accorgersene al contrario, in negativo. Ti accorgi della mancanza, non della presenza.
In quel momento aprì gli occhi e un pezzo del suo mondo vibrò forte dentro di sé, fino a scostarsi dalle pareti interne della sua pelle, giusto all'altezza dell'inizio dello stomaco.
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