Godzilla esce dal mare con le zampe anteriori rattrappite sul proprio busto. Lancia uno squarcio di grido che taglia l'aria fredda del mattino. La testa reclinata all'indietro, verso il cielo, quasi volesse usare il mondo intero come cassa di risonanza. È rigido con il corpo, i passi sono segmenti immobili che dalla gamba a scaglie verde scuro, quasi nero, si appoggiano con violenza sul terreno senza la minima mobilità. Pezzi di legno, così come la coda: si muove mulinando nell'acqua, creando onde che andranno a distruggere paesi lontani, ma sembra ugualmente solo un semplice remo attaccato alla sua spina dorsale, nonostante su di essa sia stata disegnata una curva, trasformandola quasi in uno scivolo.
Godzilla è di plastica, dura, con gli arti semovibili, compresa la coda, ma quando la sua zampa maestosa si fa largo sulla terra, imprimendo sul suolo la una profonda e larga impronta, tutta la casa trema. Gianni continua imperterrito la sua disfatta, con la città invisibile stesa sul tappeto del soggiorno, costruita sopra gli intrecci di stoffa finta persiana, mentre il mare è di uno strano colore caldo, bruciato dalle mattonelle del pavimento. Un passo, due passi. Inclina il suo giocattolo a destra e a sinistra, facendolo muovere come un provetto Frankenstein, solo le mani sono più corte. A ogni passo corrisponde una scossa. La prima violenta, improvvisa. Le altre via via più soffocate, spinte giù in profondità, nascoste sotto.
Quando Gianni smette di giocare, e Godzilla si ammutolisce restando però a bocca aperta, da fuori si sentono arrivare i primi allarmi delle auto, le voci scese in strada che gridano preoccupate nomi propri di persona. Franco! Elena! Francesco! Non c'è un singolo filo di rumore in giro. Il traffico sembra sparito, spostato di qualche chilometro da altri suoni, e nonostante la confusione cacofonica che si sovrappone su se stessa, quasi fosse un lungo serpente annidato in uno spazio troppo stretto, quello che ne esce fuori, il risultato nuovo, finale, non è rumore: è un insieme assordante di suoni singoli e distinti, separati gli uni dagli altri da sottili spazi di silenzio. Nel dipanare questa intricata matassa di voci, sirene, echi lontani, Gianni riesce a percepire quanto di più strano possa attirare la sua attenzione di bambino: in tutto ciò che sente c'è una mancanza totale di frasi compiute. Ci sono un sacco di nomi, ma nessuna frase finita. Sono assenti qualsiasi tipo di verbo, avverbio, complemento oggetto. È rimasta solo la comunicazione ridotta all'osso, i segni di riconoscimento più basilari, semplici ed elementari. Anche Gianni, pur non ricordandosene, quando iniziò a parlare lo fece chiamando sua madre mama, suo padre 'abbo. Tutto il resto venne dopo. Formulare una frase non aveva senso in quel momento. L'importante, in quel primo periodo di zoppicante parlare, era attirare l'attenzione.
Fuori accade lo stesso. C'è aria di pericolo, nonostante Gianni dalla sua posizione, in ginocchio per terra, riesca a vedere uno spicchio di cielo attraverso la finestra. Sembra limpido, sereno. Neppure una nuvola, né grigia né bianca, solo un terso celeste candido e chiaro, composto. Non pare esserci niente di cui avere paura. Gianni deve ancora approfondire il suo concetto di paura ma istintivamente gli prende dal profondo quel senso di decisa sicurezza secondo cui se un pericolo può arrivare questo arriverà senz'altro dall'alto, piovendo letteralmente su di loro.
Il telefono inizia a squillare, una volta, due volte, tre volte. Gianni si alza per andare a rispondere, tranquillo. All'altro capo della linea c'è sua madre, la voce rotta dalla preoccupazione, singhiozzante nel non riuscire a rilassarsi, neppure una volta sentita la voce del figlio. Le parole le escono di bocca tagliate, oppure è la comunicazione a essere costantemente interrotta, con un certo senso di umido, lacrime e umori nasali. Gianni sente sua madre ridere sollevata, una risata quasi isterica. Poi, con la voce piccola tipica di chi è piccolo, domanda: come mai fuori ci sono solo nomi?
Nessun commento:
Posta un commento