giovedì 23 aprile 2009
Il passaggio per Narnia
Chissà se qualcuno ora sta gareggiando per il gran premio del Serravalle, come noi facevamo qualche anno fa. Io spingevo la vecchia Panda con il motore al massimo, fino a fonderlo, sul serio: lo sterzo che tremava a massaggiare le mani, i buchi sul parabrezza che facevano passare il freddo; oppure slittavo di traverso mentre ai bordi della strada c'era la neve ammucchiata, poco prima di attraversare l'armadio e ritrovarmi nel fantastico mondo di Narnia. Tu invece disfacevi la tua macchina nuova sui guardrail, la scheggiavi di continuo andando contro le altre macchine, dalla corsia di sorpasso a quella di marcia e poi di nuovo in sorpasso. Bang! Quando mi vendevi l'autoradio e pezzi di arredamento e io me li facevo rubare nei parcheggi dei centri commerciali. Ricordo ancora la prima volta che risposi in modo corretto ad una domanda da telequiz, e tu girasti la tua sedia con i pollici alzati, facendo segni di consenso; poi passammo il pomeriggio a tradire mio fratello, facendo la spesa per la sera, e non mangiando mai. Cazzo, il the delle cinque, i baicoli riportati da Venezia. Il cannonau e la creama di pecorino, gli aperitivi sardi, per poi tornare a sederci ubriachi; oppure le gare a chi si sentiva male prima, mangiando dolcetti, e scherzetti, avariati presi dal bancone delle offerte, quello scatolone con le date di scadenza ormai passate. E tutti i posti dove siamo andati a mangiare, o a bere della birra; la tristezza che, dicevi, faceva sempre bene. Quando io lottavo per non addormentarmi all'areoporto di Pisa, mentre tu bestemmiavi contro delle repliche troppo veloci per vederne la differenza: passavamo davanti alla tabaccheria solo per vedere la commessa, ammiccare stupidi ai suoi vestiti, poi attraversavamo quel passaggio segreto per andare a vedere la pista di atterraggio da vetrate gigantesche. Partivamo ad orari osceni la mattina, visitando come due scolari degli autogril sempre uguali, gli uni agli altri, tanto da farmi sentire male, quasi a vomitare dalla disperazione. Le piaghe da decubito. Volevamo arrivare a Genova prima delle otto. Poi ad Alba, sotto un sole ed un caldo cocente, a cercare un posto dove mangiare il tartufo: un viaggio a vuoto, quando tu eri già via. Al ritorno ci fermammo a Viareggio, ci facemmo prestare dei costumi e facemmo il bagno solo per sentire poi freddo. Mi rincorrevi sulla sabbia mentre ero al telefono, mi facevi il verso, e ridevamo davvero tanto. Anche per i segni che lasciavamo sulla pelle, secondo alcuni, le lettere marchiate a fuoco, come il bestiame nelle mandrie; ed io che continuavo a dire: segno solo una lettera, cosa credete? Tu non dicevi niente ma sapevi cosa volevo dire. Perché da quel giorno non ho mai dimenticato quanto possa essere fastidioso l'odore dei fagioli bruciati, e tu chiuso fuori a battere i pugni contro la porta. Poi però hai iniziato a viaggare per Roma. Facevi avanti e indietro, su e giù in eurostar lenti, e in ritardo. Tiravi in ballo avvocati, storie assurde alle quali io credevo come un bambino: guarda babbo natale scendere dal camino. Avrei dovuto capirlo prima, subito, fin dall'inizio. Anche se c'era chi diceva che ti avrei seguito.
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