venerdì 30 ottobre 2009

Lonely, Lonely, Lonely

god nothing grows
in these fields
seems the land's gone rotten
lady blue
tell me what to do
when you've been forgotten

lonely, lonely, lonely
lay your head on me
lonely, lonely, lonely
maybe you're lonely
just like me

you'd wait what seems forever
your pride gone long ago
your smile, just a prop
to hide the years
but the years begin to show

lonely, lonely, lonely
lay your head on me
lonely, lonely, lonely
maybe you're lonely
just like me

you take what you are given
works out even just the same
the past is still
in front of you
and tell me who's to blame

lonely, lonely, lonely
lay your head on me
lonely, lonely, lonely
maybe you're lonely
just like me

Performed by Bakers Pink

giovedì 29 ottobre 2009

Le mie mani

GATE 24
Hairdressing

I chirurghi per prima cosa si lavano le mani. Sempre. Minuziosamente con cura dei dettagli, tra dito e dito, con il sapone bianco a fare bolle trasparenti. Noi invece, io più che altro, non ci disinfettiamo per nulla ed operiamo a cielo aperto, senza troppa cura dei pazienti che alla fine siamo noi, stessi, che ci sdraiamo sui tavoli imbanditi per farci aprire e capire. Parliamo di antropologia come se stessimo studiando un corpo umano, alziamo parti psicologiche e dreniamo quelli che pensiamo siano fluidi di pensieri incosci, non dipendenti da noi, prendo appunti: facciamo cose in base al contesto, a quello che ci succede attorno. Chi ci spinge a fuggire, chi ad andare, chi a cambiare luogo posto e aria. E nel frattempo le mani non si fermano, si appoggiano a più riprese in luoghi e lidi migliori dove vogliono atterrare. Solo un attimo, un momento, dicono, giusto il tempo di sentire il calore, di far colare il caldo dalle punte giù dalle dita fino alle mani e risalire il braccio ed arrivare al petto. Ma a volte non ne dai il tempo, perchè le malattie ci usano come ponti per trasportarsi da un punto all'altro, siamo macchine per teletrasporto e non serve un bacio per infettare un nuovo malato, ma giusto un tocco. Diamo così un'importanza che io già davo, per il mio io, per queste mani che si sfiorano nel parlare nello scherzare, un modo una scusa sempre nuova per toccare, e i rimproveri divertiti per allontanare me e le mie mani, sorrisi fantastici a sbocciare su labbra, le tue. Mi torna in mente una canzone, con i suoi testi e la sua cadenza. Sospiro e respiro, vado a tempo, le mani, le mani già lo sanno, e mi spiegavi, per questo vedi amore non si fermano un momento e tremano così. Forse è questo il senso di tutto il movimento, perchè pensavo fino a ieri che le malattie si attaccassero con i baci, attraccando con la saliva tra lingua e lingua, ed invece ora mi hai detto delle mani e non ne fuggiamo più da questo pazzo rituale, io che tento di toccarti, innocente, prenderti per mano, appoggiarti il palmo sulle tue, non chiedo il permesso e come sanguisuga cerco di succhiarti il calore che mi dai, inconsapevole. Solo questo, giusto un poco, ma non vuoi ammalarti, e tu ritrai, cambi posizione, tono di voce, mi allontani. Forse è giusto, sia così. Ci baciamo con le mani, rimanendone scottati, il mio bacio sulle falangi, sui polpastrelli, un bacio per ogni dito. Sono bocche che non hanno labbra, sono labbra incastrate nelle impronte digitali, sono bramosie voluttuose, sono voli e paesaggi disegnati su movimenti di pianura: sono le mie mani che si muovono veloci, a fermarsi solo su di te, che si fermano alla ricerca solo quando una ricerca più non c'è, e si accucciano sulle tue perchè il nido e la casa, il calore migliore, oggi, c'è, non c'è.

mercoledì 28 ottobre 2009

Up


Up: 3d ma anche semplice 2d, non facciamoci problemi, non c'è niente che esce fuori, che ti prende e ti afferra, se non la storia, niente che all'improvviso ti fa capire il motivo vero di avere un paio di occhiali appoggiati al naso, c'è poca tridimensionalità pure nei piani spaziali, profondità che non si nota o che per lo meno si notava maggiormente tra i dinosauri dell'era glaciale. Sotto questo punto di vista un buco nell'acqua, un semplice adeguamento alla moda che vuole ormai i film per forza in 3d, per combattere forse l'avanzata della visione casalinga sempre più vicina al cinema, o forse per giustificare un piccolo aumento di prezzo. Il titolo punterebbe verso l'alto, più su; ma andare più in alto, più su di un piccolo capolavoro come Wall-E, dicamolo, è davvero difficile. Up ci riesce, oppure lo affianca, solo nella prima parte: il prologo è fantastico e per la prima volta a mia memoria in un film Pixar succede una cosa naturale ma mai vista; l'inizio del viaggio è magnificamente in stile sogno anni cinquanta, pur ambientato ai giorni nostri, ed è un qualcosa di meraviglioso e credibile: il sogno di volare via con tutta la casa, attaccata solo a dei palloncini volanti, gonfiati di elio, e dirigersi verso il paese dei nostri sogni. Il registro cambia arrivati alla meta, e si ride come nella miglior tradizione Pixar, ma quel senso di magia viene annacquato e diluito, si perde un po' nell'avventura e nell'intreccio un po' prevedibile della storia. Un film godibile, fatto bene, con momenti divertenti e altri magici; meglio questo di molte altre cagate che si vedono proiettate in giro; ma francamente Wall-E era tutta un'altra storia.

Giudizio: Dvd
  • Cinema ==> Da vedere assolutamente, correre al cinema
  • Dvd ==> Da vedere, ma si può aspettare il noleggio
  • Tv ==> Niente di esaltante, se proprio si deve vedere aspettare il passaggio in tv
  • Passeggiata ==> Perdibilissimo. Andate pure a fare una passeggiata.. anche sotto la pioggia

martedì 27 ottobre 2009

prove me wrong

(sono parole che mi rimangono dentro da tempo, ed ogni tanto escono di nuovo fuori a farmi piacere)



a poco è servito voltarmi nascosta o scoperta sapendo che avrei dovuto bastarmi per sempre che già il tuo viso è opaco e immobile e spento nella fissità del ricordo - non posso chiudere gli occhi temendo sapendo che là ti vedrei come sei, nel modo in cui hai imparato a piacermi, appena girato, tre quarti di volto, il passaggio da pieno a profilo o il contrario e la pupilla che mi si arrampica addosso, si ferma in tre punti a prendere fiato. ti succhio la penna ma ha un altro sapore, nemmeno mi serve il respiratore al quale agganciarmi e riempirmi i polmoni di false o di vere speranze, resisto ma è inerzia e il giorno che segue non potrà mai esser migliore di quello passato, mi spero superba abbastanza da dirti le cose di te che non sai e convincerti di esser nel vero, io, di essere giusta nel giusto, ma sono sbagliata e tutto per colpa di una coincidenza, son nata nel posto sbagliato al momento sbagliato, sbagliati i miei genitori sbagliata la vita vissuta che, per un momento, ho pensato a te avvicinarmi e invece mi porta lontana, mi porta vicina abbastanza da correre il rischio di ancora incrociarti per caso, lontana abbastanza da farmi trovare ogni volta sul marciapiede sbagliato, nascosta dietro alla colonna che ho usato perché nessuno vedesse che stavan cadendo le calze e il pianto dagli occhi e dal naso.
mi resta di scriverti ancora una volta scegliendoti sopra di me scegliendo per te le parole che adesso potrebbero farmi da impalcatura, rimettermi in piedi e farmi corazza e guscio e conchiglia - proteggere me dal venire ancora una volta schiacciata dall’enormità dei miei impossibili lieti finali.

Virginia Diazepam

lunedì 26 ottobre 2009

Firenze sold-out

Rimettiamo al sole l'ora per guadagnare un po' di luce, nel frattempo avanziamo sul fronte del centro e liberiamo la città dalle macchine, dai pedoni distratti ad alto rischio di investimento. Siamo un onda che allaga le strade, siamo l'Arno che straripa, siamo l'alluvione del '66, siamo il terzo scudetto della Fiorentina. Le urla dello stadio ci arrivano lontane, parcheggiamo ai margini di fossi rischiando di ritrovare la macchina persa in acqua, mista a fango ed erba alta, e camminiamo zoppicando per colpa mia il più veloce possibile per attraversare i viali. Quando arriviamo alla fontana un senso di già vissuto, di deja-vu, la gente che ci provava con persone che conosceva da poco, ricordi lontani quando vendevamo camice virtuali e ridevamo spensierati del mondo del lavoro senza disoccupazione occupazione dispersione, numeri di impianti, tipo modello sportivo elegante, casual. Occupiamo il tempo a cercare di arredare casa con i san pietrini, maledicendo ogni piede appoggiato male, con un caldo infernale e le commesse nude sotto vestiti trasparenti, giacche in mano sudore sulla fronte, cercando vestiti andati a male, dalla mattina alla sera persi in larghe vedute che diventano sempre più larghe anche scendendo di misura. Fuori il buio ci aspetta, le luci dei lampioni. Sul Ponte Vecchio le ombre delle auto che passano veloci sugli altri ponti accanto sembrano delle persone che si gettano nell'Arno. Non abbiamo spazio per restare a guardarle, le ombre, le persone: ci sono impalcature che bloccano l'appoggio, anche se ci fermiamo qualche secondo per vedere i ristoranti tuffarsi nelle acque. Poi riprendiamo verso gli Uffizi, sempre in perenne ristrutturazione. Confrontarli con altri musei e trovarne le differenze, darsi appuntamento nei magazzini e rubare gli sguardi sulle opere.
Eravamo tutti là e non lo sapevamo neppure. E' strano scoprirlo solo oggi, quando il senso è diventato più disteso e gli scoppi le risa le labbra sono più felici. Ritorniamo alla macchina per vedere dei giostrai scambiarsi effusioni in pubblico, ripartire poco prima di noi e svanire in pulmini bianchi parcheggiati meglio. Lasciamo il buio e a fari accesi prendiamo l'autostrada per accartocciarla sotto le ruote, batterla quel poco e fermarici solo a riposo.

venerdì 23 ottobre 2009

Star Witness

My true love drowned in a dirty old pan
Of oil that did run from the block
Of a falcon sedan 1969
The paper said '75
There were no survivors
None found alive

Trees break the sidewalk
And the sidewalk skins my knees
There's glass in my thermos
And blood on my jeans
Nickels and dimes of the fourth of july
Roll off in a crooked line
To the chain-link lots where the red tails dive
Oh how I forgot what it's like

Hey when she sings, when she sings when she sings like she runs
Moves like she runs
Hey when she moves, when she moves when she moves like she runs
Moves like she runs
Hey there there's such deadly wolves ‘round town tonight
Round the town tonight
Hey there there's such deadly wolves ‘round town tonight
Round the town tonight

Hey pretty baby get high with me,
We can go to my sisters if we say we'll watch the baby"
The look on your face yanks my neck on the chain
And I would do anything
To see you again

So I've fallen behind…

Hey when she sings, when she sings when she sings like she runs
Moves like she runs
Hey when she moves, when she moves when she moves like she runs
Moves like she runs
Hey there there's such deadly wolves ‘round town tonight
Round the town tonight
Hey there there's such deadly wolves ‘round town tonight
Round the town tonight

Go on, go on scream and cry
You're miles from where anyone will find you
This is nothing new, no television crew
They don't even put on the sirens
My nightgown sweeps the pavement
Please don't let him die

Oh, how I forgot...

Performed by Neko Case

giovedì 22 ottobre 2009

Cantami una canzone

Siamo in salotto a casa mia. La musica suona dalle casse sopra la libreria. La tv è spenta, un quadro nero sulla parete. La luce è quella tenue e caldo della lampada a risparmio energetico vicino alla finestra: le servirà del tempo per illuminare bene tutta la stanza, ma per ora va bene, va benissimo questo fuoco leggero che non arriva a tutti gli angoli.
Io sono seduto sul divano - maglia a maniche lunghe, jeans e scarpe da ginnastica - un po' di traverso a tagliare le gambe verso di te - camicia aderente, stretta a fiori, fuori dai pantaloni portata così come piace a me, lingue di stoffa a leccare le tue cosce coperte dai jeans scuri. - Sei in piedi davanti alla parte angolare della libreria, dietro e sopra di te la luce. Stringi in mano un microfono immaginario e canti in playback atteggiandoti come le dive degli anni '30 rimodernizzate in qualche modo. Siamo soli. Io sorrido, ignorando il fatto che qualche giorno fa mi ha rimproverato di sorridere troppo. E come dovrei fare per esprimere questa leggera felicità che mi prende in certi momenti, ti ho chiesto io. Devi abbracciarmi, mi hai risposto allora, sedentoti davanti a me sulle mie ginocchia mentre io ero ancora seduto sul divano. Hai portato le mani dietro la mia nuca, appoggiando i polsi alla base del mio collo, hai avvicinato la testa alla mia e hai preso a respirarmi sempre più vicino. Hai capito, hai chiesto allargandoti anche tu in un sorriso: ho dovuto frenarmi per non cadere in un tuo bacio, in uno di quei nostri baci voluttuosi in cui ci perdiamo la notte, ad occhi chiusi, abbracci sparsi sui cuscini e sospiri persi nei nostri sogni.
Ora finisci di cantare e ti lasci cadere sul divano accanto a me.
"Cazzo." Sospiri in uno slancio di reale femminilità, fingendo la stanchezza di una vera esibizione. La musica va avanti, il cd prosegue dopo pochi secondi di silenzio verso la canzone successiva. Appoggi la testa un po' sul mio petto un po' sulla mia pancia, allungando le gambe e appoggiando i piedi con le tue allstar consumate sul bracciolo opposto del divano. Quando ci tocchiamo si sente il brusio elettronico dei cavi dell'alta tensione.
Siamo come i nostri nervi, in questo momento, distesi e rilassati. Si respira un'aria tranquilla, di mare calmo senza onde in superficie. Un bellissimo paesaggio di distesa d'acqua infinita, con quel morbido ondeggiare di brevi creste appena accennate in superficie: sembra un ballo lento e sensuale, su note sinuose in leggere curve.
"Lo sai vero - chiedi poi all'impreovviso. - che tutto questo non sta veramente accadendo."

mercoledì 21 ottobre 2009

Siamo malati

Siamo vicini di letto, all'ospedale militare, in uno di quegli androni infiniti che sembrano non avere mai pareti, se non quelle dietro le testate in semplice ferro battuto come sbarre di una prigione. Quando sono arrivato avevo le scarpe slacciate, entrembe, e tu già stavi male, sotto le coperte rannicchiata per non patire il freddo del movimento, il dolore alle ossa al primo singolo scricchilare sommesso di alcuni muscoli che si flettono in uno spasmo involontario durante la notte passata insonne, sempre in bilico sul precipizio, mulinando le braccia per mantenere l'equilibrio e non cadere all'indietro senza poter vedere quell'abisso infinito e vuoto che è la veglia involontaria quando invece si vorrebbe solo dormire e riposare. Mi hai guardato mentre le infermiere mi spogliavano, mi tagliavano la barba, mi lavavano i capelli, mi asciugavano tutto via il sanque rappreso delle battaglie, mi infilavano dentro un camice grigio aperto sul posteriore, mi alzavano le coperte, mi appoggiavano delicatamente sul materasso e richiudevano sotto le lenzuola, forzando il più possibile le cinghie sopra il petto sopra gli stinchi sopra le cosce sopra i polsi e gli avambracci.
"E' per evitare spiacevoli conseguenze." Dicevano.
"Potrebbe cadere se in preda a convulsioni." Dicevano.
"Sono misura di sicurezza." Dicevano.
"E' per la sua incolumità." Dicevano loro.
Tu mi guardavi fisso, con gli occhi sbarrati, senza chiudere mai le palpebre. Hai aspettato che se ne andassero, con il loro rituale cerimonioso di pettegolezzi sottovoce.
"Alle dieci e mezza del mattino passa il dottore. - Hai detto. - Per la visita." Poi ti sei voltata dall'altra parte, silenziosa. Non sembrava neppure stessi respirando. Cercavo di capire i tuoi umori in base al movimento quasi impercettibile delle spalle, in su e in giù, di pochi soli millimetri alla volta.
Quando è arrivato il medico, un uomo alto dalla barba grigia, occhiali con montatura larga, e capelli radi in testa, camice bianco su camicia celeste chiaro, un paio di pantaloni scuri eleganti, mocassini neri allacciati stretti al piede.
"Bene - ha detto avvicinandosi al mio lato destro. - vedo che il suo spirito di osservazione non si è ancora annebbiato."
"Cosa?" avrei voluto rispondere, ma le parole non mi uscivano dalla bocca. Le labbra sembravano incollate, o forse era la mandibola che proprio non si muoveva.
"Non si preoccupi, la voce va e viene durante le prime ore." Scribacchiava qualcosa su un foglio tenuto rigido da una cartelletta grigio metallizzata. La penna stilografica faceva un rumore odioso sulla carta rugosa, lasciando penetrare l'inchiostro con striduli graffianti.
"Facciamo una prova? Giusto per tranquillizzarla. Primi sintomi?"
"Ho mal di testa, la gola mi va a fuoco, il naso mi perde costantemente e mi impedisce di dormire." La mia voce uscì di nuovo come per magia, senza farci caso e senza aver fatto assolutamente nulla per rimediare alla mancanza di poco prima.
"Dolore alle articolazioni? Difficoltà ad urinare?"
"No in entrambi i casi. Provo solo un notevole fastidio quando scrive sulla cartella."
"Ok. Ipersensività uditiva." E di nuovo il rumore strascicato di mille unghie contro pareti instabili. Ho stretto le palpebre con forza, cercando di chiudere le orecchie per simpatia tramite la chiusura degli occhi, visto che non potevo portarmi le mani alla testa e crearmi una cuffia naturale contro i suoni nocivi. Quando ho riaperto gli occhi il dottore aveva già camminato fino in fondo al mio letto. Stava posando la cartella con i suoi appunti in una apposita sacca metallica appesa alle sbarre della branda.
"Aspetti!" Ho gridato muto. Vorrei sapere cosa diavolo mi sta succedendo, la diagnosi, una prognosi; un accenno di cura. Ma niente è uscito dalla mia bocca, solo un flebile stridolio d'aria senza voce. Non mi ha sentito perchè non c'era niente da sentire. Ha camminato placido fin verso il tuo letto, ha afferrato la cartella dal contenitore ai tuoi piedi. Tu non gli hai prestato la minima attenzione, non lo hai guardato neppure: sei rimasta rannicchiata su un lato senza alzare la testa ne muovere un dito. Il dottore ha guardato un attimo la tua cartella, graffiato veloce con la penna sulla carta, e poi è passato oltre dopo averla messa a posto.
Nessuna parola a te. Nessuna parola tua per lui.
Ho allungato la testa verso il tuo letto, il più possibile per quanto legato al materasso. Ho incrociato le dita affinchè la voce funzionasse se non del tutto abbastanza.
"Tutto ok?"

martedì 20 ottobre 2009

Sia testa che croce

Mi descrivi con letti sfatti lenzula scalzate e materassi a vista bucati tra una coperta a terra e l'altra, usando parole non stirate che cerchi di rendere aderenti alla mia figura. Dici che non si può rendere la complessità di una persona con solo l'immagine esteriore o solo la confusione interiore, ma si devono usare entrambe per rispecchiare al meglio ciò che si vede, ed è palese, e ciò che non si vede, ma è molto più prezioso. Per questo cerchi di penetrarmi, unendo le mani e affilando le unghie, in un tuffo che ferisce il petto e poi lo apre allargando le braccia in un primo accenno di nuotata, nei fondali degli abissi dove mille navi con tesori si sono perse, e i galeoni dei pirati affondati sotto cannonate burrascose tengono ancora i loro dobloni d'oro intrisi di leggende e maledizioni. Perchè mai tutto questo dovrebbe rimanere nascosto tra i pesci nuotanti in fondo al mare? gli oceani tutti e le profondità degli abissi, testa e cuore, cervello e cassa toracica, dici tra un respiro e l'altro, alternando l'apnea dell'immersione a ricchi fiati e fiotti di sorrisi che non riesco mai a domare. Voglio esplorare sia la superficie che quello che c'è sotto, fosse acqua mare o lava, la terra cosparsa di verdi prati quando sei felice, o di foglie gialle cadute dai rami soffiate dal vento al suolo quando l'umore è grigio e il tempo rannuvola all'orizzonte masse di sensazioni e albe e tramonti che non riescono ad illuminare abbastanza; o il terreno secco duro che non puoi proprio scavare tanto è arrabbiato o deluso che non puoi neppure farci un buco piccolo, minuscolo, piccolo, per entrarci quel tanto che basta per sentire un po' di tepore e rannicchiarcisi come un figlio o un foglio accartocciato, sentirsi al riparo quando invece fuori e dentro insorge la tempesta. Questo voglio, dici, non fermarmi all'apparenza, non solo quella ma di più. Voglio sia l'apparenza che l'inganno, voglio le bugie di cui ti vesti e ti travesti, voglio vedere come la tua pelle diventa vetro trasparente, le vene blu e quelle rosse voglio vedere attraverso te per scoprire un nuovo mondo, quello dentro come quello fuori, decifrare i simboli e i nei, le macchie della pelle per capire come sei fatto e perchè sei fatto in questo modo. Voglio sia l'erba che il fumo, voglio sia la felicità che la rabbia, voglio il sereno e il cattivo tempo, la siccità e l'alluvione, i terremoti e l'instabilità sismisca così come l'innaturale staticità di certi tuoi momenti, sia fisica che emotiva. Voglio tutto di te per poter dire finalmente di conoscerti, dici; io ti ascolto attento a non sbagliare un solo singolo respiro, incrocio le dita e spero con tutto il mio che tu non finisca mai. Davvero.

lunedì 19 ottobre 2009

09 09

Quanto un semplice cambio di tono può essere saturo di implicazioni e sottintesi, trasudare mesi di incomprensioni (mie) e sopportazioni (sue), di buon viso (suo) a cattivo gioco (mio). Quanto di colpo tutta l’ironia (mia), tipo scherzo-ma-anche-no, può scomparire come vaporizzata, lasciando solo lo sconforto (nostro).

“***, ti prego, basta


Abissi Scarlatti

venerdì 16 ottobre 2009

You Will Miss Me When I Burn

When you have no one,
No one can hurt you
When you have no one,
No one can hurt you

In the corners there is light
That is good for you
And behind you, I have warned you,
There are awful things

Will you miss me
When I burn, and will you eye me
With a longing
It is longing that I feel
To be missed for, to be real

When you have no one,
No one can hurt you
When you have no one,
No one can hurt you

Will you miss me
When I burn,
And will you close
The others' eyes, it would be
Such a favor
If you would blind them

There is absence, there is lack
There are wolves here abound
You will miss me
When I turn around

When you have no one,
No one can hurt you
When you have no one,
No one can hurt you

Performed by Soulsavers

giovedì 15 ottobre 2009

Siamo in tre

"Mi sono incastrato nei dialoghi."
"Sembri vederla come una cosa negativa. Perchè?"
"Forse perchè i dialoghi sono come le sabbie mobili?"
"A me sembra positiva, era l'ora, oseri quasi dire."
"Non so cosa pensare. Da una parte si, dall'altra no."
"Devi stare attento, altrimenti finisci per perderti."
"Io non la penso così. In fondo nella vita vera non si fa altro che parlare."
"Il nostro amico qui avrebbe più bisogno di pensare, che di parlare."
"Ma stiamo parlando della stessa persona?"
"Per piacere..."
"Per piacere lo dico io: bisogna pensare prima di parlare."
"Non voglio dire questo, ci mancherebbe. Davo per scontato che lo facesse già."
"Non lo so, almeno ci provo."
"La maggior parte delle volte però i pensieri gli rimanevano in testa."
"Forse perchè non erano degni."
"Penso più che gli mancasse il coraggio."
"Si, forse avevo paura."
"Oppure gli rimanevano appesi da qualche parte, i pensieri."
"Appesi a stendere al sole, e non li ritirava mai."
"Forse, molto semplicemente non aspettavo altro che fossero perfetti. Cercavo di migliorarli al massimo."
"I pensieri non possono essere perfetti. Sono per natura difettosi."
"Mi pare più una scusa, che non un motivo."
"Devi perfezionarli e decidere se ne valga la pena di dirli."
"Devi dirli e basta, i pensieri. Altrimenti come fai a confrontarli? Alla base c'è il confronto."
"Forse è proprio di quello che ho paura."
"Perchè del confronto non hai più potere."
"Anche dei pensieri detti ormai perdi il potere."
"Magari il non poterli più ritirare indietro, mi mette un po' ansia."
"Non devi aver paura. Di cosa, poi?"
"L'altra sera ho perso i nostri discorsi."
"Come?"
"Era notte e stavamo parlando. Mi sono detto: li metto in un angolo e li riprendo la mattina, ma quando mi sono svegliato non li ho più trovati."

mercoledì 14 ottobre 2009

La campana di vetro

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Mi sentivo inerte e vuota come deve sentirsi l'occhio del ciclone: in mezzo al vortice, ma trainata passivamente.

Il mattino dopo, alle sette, squillò il telefono.
Dal fondo di un sonno nero risalii lentamente in superficie.

Buddy Willard era un ipocrita.
Naturalmente all'inizio non lo sapevo. Anzi, pensavo che fossei l ragazzo più meraviglioso dle mondo. Lo avevo adorata da lontano per cinque anni, quando lui nemmeno mi guardava, poe c'era stato il bellissimo periodo in cui io continuavo ad adorarlo e lui aveva iniziato a guardarmi, e poi, proprio quando lui mi guardava sempre di più, avevo scoperto per pure caso che razza di ipocrita fosse, e adesso lui mi voleva sposare e io lo odiavo come non so cosa.

Continuai a pettinarmi i capelli sulla faccia, di lato, dalla parte dove stava lui, ritmicamente, me li sentivo aderire alle guance in fiamme come fili elettrici

Era il giorno dopo Natale e sopra di noi si gonficava un cielo grigio carico di neve. Mi sentivo troppo appesantita dal cibo, spenta e delusa, come mi succede sempre il giorno dopo Natale, quasi che le misteriose promesse dei rami di abete, delle candele, dei regali con i nastri d'oro e d'argento, dei ciocchi di betulla nel camino, del tacchino e dei canti natalizi al pianoforte non arrivassero mai a realizzarsi.

Splendeva di luce danzante come un cubetto di ghiaccio celestiale.

Cominciavo a capire come mai gli uomini che odiano le donne riescono a farne quello che vogliono: Sono come dei: invulnerabili e potenti. Discendono su di te, poi scompaiono. Non li puoi catturare.

Lo lasciai che frugava carponi nel buio, alla ricerca di un altro pezzetto di buio che nascondeva ai suoi occhi furibondi la luce del suo diamante.

Poi qualcosa calò dall'alto, mi afferrò e mi scosse con violenza disumana. Uii-ii-ii-ii-ii, strideva quella cosa in un'aria crepitante di lampi azzurri, e a ogni lampo una scossa tremenda mi squassava, finché fui certa che le mie ossa si sarebbero spezzate e la linfa sarebbe schizzata fuori come da una pianta spaccata in due.

Un sorriso lento, quasi tropicale, illuminò la faccia del dottor Gordon.

Mi sembrava che la cosa più bella del mondo doveva essere l'ombra, le mille mobili forme e i mille anfratti dell'ombra.

lungo il labbro del taglio fiorì una riga di rosso vivo.

Pensai che la morte per acqua doveva essere la più dolce, e quella col fuoco la peggiore.

Ci fissammo ammutoliti, io in attesa di un filo di emozione, una minima scintilla. Niente.

Sylvia Plath

martedì 13 ottobre 2009

Tutto



Tutto l’amore, tutte le sue forme strane, tutte le strade, tutte le parole che ho percorso, le destinazioni, i tuoi occhi stretti e sconfinati, il mondo quando si colorava di blu, le nuvole, il tuo sorriso, i ciuffi d’erba in mezzo alle cicche spente, le costruzioni bianche orribili, il monastero, il tuo sorriso. Tutti i sogni, e tutti i pensieri, tutte le cose che faccio, tutte le volte che ci sei, tutte le volte che ti ho perso. Tutte le volte in cui abbiamo evitato lo sguardo. Tutti i ricordi e i momenti neri, tutti i pensieri e i momenti chiari. Tutto il caos e in mezzo tu.

Svariate idee d'amore e d'ingiustizia

lunedì 12 ottobre 2009

District 9


Il cielo sopra Johannesburg non è il cielo sopra New York, o qualche altra importante città americana, ma è un presente fantascentifico di un astronave circolare a gravitare a metà, tra le nuvole e il terreno. Operazione di salvataggio per alieni che sembrano essere finiti sulla Terra per sbaglio, denutriti, impauriti, indifesi. Si decide di accoglierli con uno slancio di 'umanità' che dura il tempo necessario per relegare tutti quanti in una zona a basso rischio di incontro. District 9 è un ghetto di baracche addossate le une sulle altre, strade scavate tra le montagne di spazzatura, criminalità umana ignorata fino a quando non è indispensabile ai propri fini.
Razzismo fatto di nomignoli radicati dentro la corteccia anche quando il punto di vista cambia. E quando cambia cambia radicalmente, mutando la pelle e sputando via denti nel mangiarsi le unghie tutte. Peccato che la mutazione avvenga solo in parte, nascondendo il centro di tutto e mostrando l'inizio (fatto di vomito nero inchiostro, nausea e svenimenti) e la fine (costruendo fiori riciclati, con occhi tristi ingobbiti sullo schermo nero), altrimenti sarebbe stata una bella botta di cambiamento di opinioni, dove tutte le frecce cambiano direzione e gli indifesi diventano supertecnologici, pacifici in confronto a noi, che in laboratori anestetizzati bruciamo corpi non nostri per ricavare qualche utile. Corpi alieni che ti lasciano privo di forze, rischiando la vita, fino all'ultimo sparo; fino a quando loro non ti accolgono come pari e tu ti domandi come si traduca umanità nel loro linguaggio. E' il concetto che non c'è, risponderebbero loro: noi abbiamo di meglio.

Giudizio: Tv
  • Cinema ==> Da vedere assolutamente, correre al cinema
  • Dvd ==> Da vedere, ma si può aspettare il noleggio
  • Tv ==> Niente di esaltante, se proprio si deve vedere aspettare il passaggio in tv
  • Passeggiata ==> Perdibilissimo. Andate pure a fare una passeggiata.. anche sotto la pioggia

venerdì 9 ottobre 2009

I Aint Hiding

rust on my pickups
and blood on the stage
seeds in the ashtray
and coke on the blade
NYC delivers thats a guarantee
the only thing that keep the day from me

line at the bathroom
line at the bar
take it outside and do the rest in the car
our candy baby's in a bright light fright
rock and roll rat race everybodys up tight
thats right

I Aint your saint I aint your enemy
I'm a long shadow on the highway
I know this aint how it's supposed to be
Baby i aint hiding

stayed on the dance floor cause you can't find the door
can't run out cause there is always more
keep on rocking cause it's not even four
turn up the bass until your ears get sore

I Aint your saint I aint your enemy
I'm a long shadow on the highway
I know this aint how it's supposed to be
Baby i aint hiding

I Aint your saint I aint your enemy
I'm a long shadow on the highway
I know this aint how it's supposed to be
Baby i aint hiding
Baby i aint hiding
Baby i aint hiding
Baby i aint
Baby i...

Performed by Black Crowes

giovedì 8 ottobre 2009

Machete e aurora

Parliamo, si: parliamo. Che in fondo noi siamo fatti di parole, incatenate le une nelle altre, divise da punteggiatura epilettica o da spazi bianchi troppo spesso troppo lunghi troppo intensi. Ci nutriamo di parole più che del cibo vero e proprio, degli antipasti, degli aperitivi, delle pizze o dei primi o dei secondi, delle patatine fritte, delle birre bevute a coppie mai dispari nelle pinte o del vino rosso consumato in bottiglie, dei dolci o dei gelati storti; ci nutriamo di parole più di quanto tu possa lamentarti, far finta, o nascondere. Allora ben venga un invito a parlare, come un invito a cenare, come un invito a ballare. Muoveremmo le nostra braccia e gambe al ritmo del volere, contraendo muscoli affinché tutto il nostro movimento venga distorto il meno possibile in situazioni imbarazzanti; per poi finire stesi spossati ma mai arresi.
Può darsi benissimo che alla fine di tutta questa storia io risulti essere il machete e tu invece l'aurora. Tu aurora lo sei sempre stata; io da lama ho cercato di trattenere i tagli, per quanto ne fossi mai stato capace. Non dico di no, né tanto meno vorrei delle varianti. Ho ancora il sangue rappreso di altre vittime del mio avvicinarmi, involontariamente ho amputato arti e reso persone incapaci di camminare. Sono una costante, qui, per te; per darti un senso, un punto fisso con cui orientarti. L'inferno che maledicono i più, che descriverai con fiamme fuoco rosso e lingue gialle avvolgenti. Racconterai in giro di come ho bruciato le ustioni di croste secche su tutta la pelle viva, innondando le infezioni di pus maleodorante da svenire in putrefazione.
Ma sono fiamma, lava, incandescenza che brilla al buio e danza consumando ossigeno. Se sono questo e nulla più il primo a bruciare sono io.

mercoledì 7 ottobre 2009

Vicky Cristina Barcelona


Può una città sconvolgere le strade della propria vita, quelle che sembravano dritte e che invece si trasformano in curve, a gomito, in discesa da fare in bici senza pedalare ma semplicemente trasportati dal peso, proprio e del momento? Ruotare attorno ad un unico centro, dando a quest'ultimo stabilità e completezza, e regalare al proprio io attimi di vera vita, non schematizzata ne tantomeno programmata. Due punti cardinali diversi che volgono verso il centro, verso la campagna: una essendo romantica tende all'autodistruzione; l'altra invece proiezione del passato di altre persone che rinnegano il proprio presente, per un futuro migliore. In mezzo la figura apparentemente stabile, coerente, ma che invece nasconde bianchi spazi vuoti, che tende a colorare con dipinti astratti, fino a quando l'anima non serena di colei che questi spazi riempiva si incastra di nuovo in essi, e ferisce appena finisce la sensazione di amore libero, l'anestetico biondo che è pure musa su cui la macchina da presa a tratti si sofferma lasciando le voci fuori campo più tempo del previsto. Solo l'amore inappagato è davvero romantico, come un colpo di pistola che ferisce un bacio a fior di labbra, spezzando in piccoli zampilli finti sangue rosso e sensi di colpa costruiti artigianalmente su impalcature di impegni.
Può una città mischiare le carte e far tornare il mazzo immacolato?

Giudizio: Dvd
  • Cinema ==> Da vedere assolutamente, correre al cinema
  • Dvd ==> Da vedere, ma si può aspettare il noleggio
  • Tv ==> Niente di esaltante, se proprio si deve vedere aspettare il passaggio in tv
  • Passeggiata ==> Perdibilissimo. Andate pure a fare una passeggiata.. anche sotto la pioggia

martedì 6 ottobre 2009

Tutti i giorni cercavo di tagliare i freni

Quando percorrevo la Milano Napoli in su e in giù nell'arco di un giorno rischiando di schiantarmi alle sei di mattina su un guard-rail anonimo di sinistra in corsia di sorpasso un bel po' sopra Bolonga tra Piacenza Sud e Piacenza Nord dopo aver superato indenne la barriera del Mugello fatta di tir e macchine in coda a motori accesi su mattine ancora spente turchesi all'orizzonte dove spariva la striscia tratteggiata che separava il sorpasso dalla marcia e del sole ancora nulla fino a Lodi scusi dov'è il lago di Garda? tu aprivi il bauletto porta oggetti e rovinava fuori una cascata di scontrini autostradali ricevute di benzinai distributori automatici di gasolio e dicevi che ad annusarmi sapevo troppo di asfalto pneumatici consumati freni bruciati quando invece i freni secondo te non avrei dovuto usarli anzi avrei dovuto andare il più veloce possibile e anche di più così almeno sarei arrivato prima non sapevi dove o forse lo intuivi visto che conoscevo la tua via e il tuo indirizzo l'interno il campanello e il portone che si apriva una sera si e due no perché non volevo disturbare e tua madre che guardava la tv in salotto o era fuori dalle amiche lasciandici il permesso di andare senza troppe scuse o fraintendimenti sensi di colpa o storie da raccontare anche se ora eravamo grandi adulti e vaccinati in camera tua stare attenti a non calpestare il tappeto appena lavato sedersi sul letto uno accanto all'altro e parlare di quello che tu volevi che io volevo che noi volevamo ma che non facevamo per paura di qualcosa che poi non abbiamo mai visto davvero negli occhi se non nei tuoi e nei miei mentre mi dicevi che ero andato troppo lento nel venire a casa tua perché ci avevo messo troppo e quel troppo tempo perso nelle strade l'avevamo perso per sempre senza più poterlo riempire con parole che sbattevano sul palato sui denti usando la lingua come pala con cui scavare lo spazio che rimaneva distante ancora tra le mie labbra e le tue labbra che si muovevano sempre più veloci nel dirmi che non sapevi più come diavolo fare per farmelo capire di non usare quel maledetto pedale centrale della macchina per frenare e rallentare perché anche per scrivere dicevi non devi neppure usare la punteggiatura devi eliminare ogni singola virgola e procedere sempre più veloce nella pagina senza stop o dossi artificiali rotonde a cui fermarti passaggi a livello chiusi su semari rossi divieti di accesso devi andare e superare ogni cosa dicevi senza porti limiti giù per la pagina fino a quando non ne vedi il fondo e anche allora non perdere tempo a voltarla che perdi il ritmo ma continua a scrivere sul tavolo sulle ginocchia sulle mani e sui polsi solo così sarai veloce abbastanza da venirmi a trovare ogni sera ogni dannatissima volta che il sole si nasconde fuori si fa buio io accendo la luce di camera e apro la finestra per farti entrare di nascosto così dicevi e allora io mi esercitavo sempre il più possibile a viaggiare a centottanta all'ora tra le frasi impiastricciate sparate fuori dalla penna blu che mi sembravano sempre lo stesso banali e senza una vera profondità che avrei invece voluto dargli ma tu sorridevi e sbocciavi in petali di fantastica gioia così che io ti baciavo con le parole e senza neppure guardare a quanto ero maledettamente dilettante ripartivo ad esercitarmi e cercavo di superare i centottanta sfiorare i centonovanta fino ad arrivare ai duecento e non mettere neppure un punto quando

lunedì 5 ottobre 2009

Perle Wallaciane

Un buon momento per fare lo scrittore

Personalmente, credo che questo sia veramente un buon momento per un giovane che voglia cominciare a scrivere narrativa. Ho degli amici che non sono d’accordo. Al giorno d’oggi la narrativa di qualità e la poesia sono emarginate. È un errore in cui cadono parecchi dei miei amici, questa vecchia idea secondo cui «Il pubblico è stupido. Il pubblico vuole andare in profondità solo fino a un certo punto. Poveri noi, siamo emarginati perché la tv, la grande ipnotizzatrice… bla bla bla». Ci si può mettere seduti in un cantuccio e piangersi addosso quanto si vuole. Ma è una stronzata. Se una forma d’arte viene emarginata è perché non parla davvero alla gente. E un possibile motivo è che la gente a cui si rivolge sia diventata troppo stupida per apprezzarla. Ma a me sembra una spiegazione troppo semplice.

Se uno scrittore si rassegna all’idea che il pubblico sia troppo stupido, ad aspettarlo ci sono due trappole. Una è la trappola dell’avanguardismo: si fa l’idea che sta scrivendo per altri scrittori, perciò non si preoccupa di rendersi accessibile o affrontare questioni di ampia rilevanza. Si preoccupa di far sì che ciò che scrive sia strutturalmente e tecnicamente all’avanguardia: involuto nei punti giusti, ricco di appropriati riferimenti intertestuali… L’opera deve sprizzare intelligenza. Ma all’autore non importa nulla se sta comunicando o meno con un lettore a cui freghi qualcosa di quella stretta allo stomaco che è poi il motivo principale per cui leggiamo. Sul fronte opposto ci sono opere volgari, ciniche, commerciali realizzate secondo formule prestabilite — essenzialmente, il corrispondente letterario della tv — che manipolano il lettore, che presentano materiale grottescamente semplificato con uno stile avvincente perché infantile.

La cosa strana è che questi due fronti sono in lotta fra loro ma hanno un’origine comune, che è il disprezzo per il lettore: l’idea che l’attuale emarginazione della letteratura sia colpa del lettore. Il progetto che vale la pena di portare avanti è invece quello di scrivere qualcosa che abbia in parte la ricchezza, la complessità, la difficoltà emotiva e intellettuale dell’avanguardia, qualcosa che spinga il lettore ad affrontare la realtà invece che a ignorarla, ma che nel fare questo provochi anche piacere nella lettura. Il lettore deve sentire che qualcuno sta parlando con lui, non assumendo una serie di pose.

In parte, tutto questo ha a che fare col fatto che viviamo in un’epoca in cui abbiamo a disposizione una quantità enorme di puro intrattenimento, e bisogna capire come può la letteratura ricavarsi un suo spazio in un’epoca di questo tipo. Si può provare ad affrontare il problema di cosa sia a rendere magica la letteratura in maniera diversa dalle altre forme di arte e spettacolo. E a capire in che modo la narrativa possa ancora affascinare un lettore la cui sensibilità è stata in massima parte formata dalla cultura pop, senza diventare un’ulteriore palata di merda fra gli ingranaggi della cultura pop. È qualcosa di incredibilmente difficile, sconcertante e spaventoso, ma è un bel compito. C’è una quantità enorme di intrattenimento di massa ben realizzato e ben confezionato: credo che nessun’altra generazione prima di noi si sia trovata a fronteggiare una cosa del genere. Essere uno scrittore oggi significa questo. Credo che sia il momento migliore per essere al mondo e forse il miglior momento possibile per fare lo scrittore. Certo, dubito che sia il più facile.

La magia della letteratura

Il mondo reale è pieno di solitudine esistenziale. Io non so cosa stai pensando o che cos’è che hai dentro, e tu non sai che cos’ho dentro io. Nella letteratura penso che in un certo senso riusciamo a saltare oltre questo muro. Ma questo è solo un primo livello, perché l’idea dell’intimità mentale o emotiva con un personaggio è un’illusione, un meccanismo creato dallo scrittore attraverso la sua arte. C’è anche un altro livello su cui un testo letterario diventa una conversazione. Fra il lettore e lo scrittore si instaura un rapporto che è molto strano, complicato e difficile da descrivere. Un ottimo brano di letteratura non è detto che mi catturi completamente e mi faccia dimenticare che sono seduto in poltrona. C’è della narrativa commerciale che è perfettamente in grado di riuscirci; una trama avvincente è perfettamente in grado di riuscirci: ma non mi fa sentire meno solo.

Invece c’è una specie di: «A-ha! Qualcuno almeno per un attimo la pensa come me, o vede una cosa nel modo in cui la vedo io». Non capita sempre. Sono brevi flash, fiammate, ma ogni tanto mi capitano. E non mi sento più solo, a livello intellettuale, emotivo, spirituale. La letteratura e la poesia riescono a farmi sentire umano, a eliminare quel senso di solitudine, a mettermi profondamente e significativamente in comunicazione con un’altra coscienza, in una maniera del tutto diversa da quanto riescano a fare altre forme d’arte.

Stelle polari

È difficile parlare degli scrittori che riescono a farmi questo effetto. Non intendo dire che io sia bravo quanto loro. Sono come stelle polari che mi indicano la rotta.

Storicamente, ecco le opere letterarie che mi hanno dato quella sorta di squillo da jackpot di slot-machine: l’orazione funebre di Socrate, la poesia di John Donne, la poesia di Richard Crashaw, Shakespeare ogni tanto, ma non così spesso, le opere più brevi di Keats, Schopenhauer, le Meditazioni sulla filosofia prima e il Discorso sul metodo di Cartesio, i Prolegomena di Kant, anche se le traduzioni in inglese sono tutte pessime, le Varietà di esperienze religiose di William James, il Tractatus di Wittgenstein, Ritratto dell’artista da giovane di Joyce, Hemingway — specialmente la parte finale di In Our Time, che ti fa veramente fare uuuuh — Flannery O’Connor, Cormac McCarthy, Don DeLillo, A.S. Byatt, Cynthia Ozick — i racconti, specialmente «Levitations» — Pynchon più o meno il venticinque per cento del tempo, Donald Barthelme — in particolare un racconto chiamato «The Balloon», che è stato il primo racconto a farmi venire voglia di diventare uno scrittore — Tobias Wolff, le cose migliori di Raymond Carver, quelle più famose, Steinbeck quando non rulla troppo i tamburi, il trentacinque per cento di Stephen Crane, Moby Dick, Il grande Gatsby.

E poi ovviamente c’è la poesia. Probabilmente più di tutti Philip Larkin, e anche Louise Glück, Auden.

Fra i miei colleghi, c’è tutto quel gruppo di grossi maschi bianchi; cinque o sei di noi sotto la quarantina (l’intervista da cui è tratta questa affermazione risale al marzo 1996), bianchi, alti un metro e ottanta o più e con gli occhiali. Richard Powers, William Vollman, Jonathan Franzen, Donald Antrim, Jeffrey Eugenides; Rick Moody. Lo scrittore con cui sono più fissato al momento è George Saunders, che ha appena pubblicato CivilWarLand in Bad Decline, un libro che merita grandissima attenzione. A.M. Homes: le sue cose più lunghe magari non sono perfette, ma ogni due tre pagine c’è qualcosa che ti colpisce allo stomaco e ti fa piegare in due. Kathryn Harrison, Mary Karr, che è famosa per The Liar Club ma scrive anche poesia, e forse è la migliore poetessa americana di oggi sotto i cinquant’anni. Cris Mazza, Rikki Ducornet, Carole Maso.

Insegnare

Non mi piace insegnare scrittura creativa. Ci sono due settimane di roba che puoi insegnare a uno che non ha ancora scritto cinquanta racconti e sta ancora imparando. Poi diventa solo questione di gestire le diverse opinioni soggettive degli studenti sul problema di come dire la verità vs. obliterare il proprio ego.

Invece mi piace insegnare letteratura inglese alle matricole. Alla Illinois University di Bloomington (dove DFW insegnava all’epoca dell’intervista) arrivano un sacco di ragazzi di campagna che non hanno avuto un’istruzione particolarmente buona e a cui non piace leggere. Sono cresciuti pensando che la letteratura sia qualcosa di arido, insignificante, poco divertente, tipo l’olio di fegato di merluzzo. Io invece gli metto davanti roba un po’ più attuale: la seconda settimana facciamo sempre un racconto di A.M. Homes che si chiama «Una vera bambola», tratto da La sicurezza degli oggetti. Parla di un ragazzino che ha una storia d’amore con una Barbie. È una bella trovata, in superficie, ma è anche molto distorto, malato, avvincente e veramente toccante per dei diciottenni che cinque o sei anni fa giocavano con le bambole o facevano i sadici con le sorelle. Quando vedo quei ragazzi scoprire che leggere narrativa di qualità può essere difficile, ma a volte ripaga lo sforzo, e che quel tipo di lettura riesce a darti qualcosa che non può darti nient’altro, quando li vedo rendersi conto di questo fatto, è una cosa fichissima.

I miei lettori

Immagino che siano più o meno gente come me, suppergiù fra i venti e i quaranta, con quel tanto di esperienza o di istruzione che basta per rendersi conto che la fatica che la buona letteratura richiede a volte viene ripagata. Gente che è cresciuta con la cultura commerciale americana e ne è coinvolta, pervasa e affascinata, ma ha ancora fame di qualcosa che l’arte commerciale non può dare. (…) Questa, credo, è la gente per cui scrivono un po’ tutti gli autori della mia età che ammiro: William Vollman, A.M. Homes, Jonathan Franzen, Richard Powers, e anche gente come McInerney e Leavitt. Ma, lo ripeto, negli ultimi vent’anni abbiamo assistito a grandi cambiamenti nel modo in cui gli scrittori riescono a far presa sui lettori, in ciò che i lettori devono aspettarsi da ogni forma di arte.

Tv, piacere, dolore

È troppo facile starsene semplicemente lì a torcersi le mani dicendo che la tv ha rovinato i lettori. Perché la cultura televisiva americana non è nata dal nulla. Quello che la tv è estremamente brava a fare – e rendiamocene conto, «non fa altro che questo» – è riconoscere cosa vogliono grandi masse di persone, e fornirglielo. E dato che nella cultura americana, o comunque dell’occidente industrializzato, c’è sempre stato un caratteristico e fortissimo disgusto per la frustrazione e la sofferenza, la tv eviterà queste cose come la peste in favore di qualcosa che sia facile e anestetico.

In moltissime altre culture, se uno soffre, se ha un sintomo che lo fa soffrire, questo viene sostanzialmente interpretato come qualcosa di sano e naturale, un segnale del fatto che il sistema nervoso sa che c’è qualcosa che non va. Per queste culture, liberarsi del dolore senza affrontarne la causa profonda sarebbe come spegnere il campanello d’allarme mentre l’incendio divampa ancora. Ma se soltanto guardiamo la miriade di modi in cui in questo Paese ci sforziamo all’impazzata di alleviare quelli che sono semplici sintomi – dalle pasticche contro il mal di testa a effetto ultrarapido alla popolarità dei musical spensierati durante la Depressione – si vede una tendenza quasi compulsiva a identificare il dolore in sé con il problema. E così il piacere diventa un valore, un fine teleologico a se stesso. Se guardiamo l’utilitarismo – una teoria etica spiccatamente anglosassone – vediamo un’intera teleologia basata sull’idea che la migliore vita umana possibile è quella che raggiunge il tasso più alto di piacere rispetto al dolore. Lo so che il mio può sembrare un discorso bigotto. Ma voglio solo dire che dare la colpa alla tv è un atteggiamento miope. La tv è solo un sintomo come tanti altri. Non è stata la tv a inventare il nostro infantilismo estetico, così come non è stato il Progetto Manhattan a inventare l’aggressione. Le armi nucleari e la tv hanno semplicemente intensificato le conseguenze di certe nostre tendenze, hanno alzato la posta in gioco.

Una letteratura morale?

Se la condizione della nostra civiltà contemporanea fa disperatamente schifo, è insulsa, materialistica, emotivamente ritardata, sadomasochistica e stupida, allora qualunque scrittore può sfangarla creando alla bell’e meglio storie piene di personaggi stupidi, superficiali, emotivamente ritardati, e non ci vuole molto, perché quel genere di personaggi non richiede nessuno sviluppo. O descrizioni che siano semplici liste di prodotti di marca. Romanzi in cui gente stupida si dice cose insignificanti. Se quello che ha sempre contraddistinto la cattiva scrittura – la piattezza dei personaggi; un mondo narrativo fatto di cliché e non riconoscibile come umano – è anche ciò che contraddistingue il mondo di oggi, allora un brutto romanzo diventa una geniale mimesi di un brutto mondo. Se i lettori credono semplicemente che il mondo sia stupido, superficiale e cattivo, allora uno come Bret Easton Ellis può scrivere un romanzo cattivo; stupido e superficiale che diventa un ironico e tagliente ritratto della bruttura del mondo che ci circonda. Siamo d’accordo un po’ tutti che questi sono tempi duri, e stupidi, ma abbiamo davvero bisogno di opere letterarie che non facciano altro che drammatizzare quanto sia tutto buio e stupido? Nei tempi bui, quello che definisce una buona opera d’arte mi sembra che sia la capacità di individuare e fare la respirazione bocca a bocca a quegli elementi di umanità e di magia che ancora sopravvivono ed emettono luce nonostante l’oscurità dei tempi. La buona letteratura può avere una visione del mondo cupa quanto vogliamo, ma troverà sempre un modo sia per raffigurare il mondo sia per mettere in luce le possibilità di abitarlo in maniera viva e umana.

Non parlo di soluzioni nel campo della politica convenzionale o l’attivismo sociale. Il campo della letteratura non si occupa di questo. La letteratura si occupa di cosa voglia dire essere un cazzo di essere umano. Se uno parte, come partiamo quasi tutti, dalla premessa che negli Stati Uniti di oggi ci siano cose che ci rendono decisamente difficile essere veri esseri umani, allora forse metà del compito della letteratura è spiegare da dove nasce questa difficoltà. Ma l’altra metà è drammatizzare il fatto che nonostante tutto siamo ancora esseri umani. O possiamo esserlo. Questo non significa che il compito della letteratura sia edificare o insegnare, fare di noi tanti piccoli bravi cristiani o repubblicani. Non sto cercando di seguire le orme di Tolstoj o di John Gardner. Penso solo che la letteratura che non esplori quello che significa essere umani oggi, non è arte. Abbiamo tanta narrativa di qualità che ripete semplicemente all’infinito il fatto che stiamo perdendo sempre più la nostra umanità, che presenta personaggi senz’anima e senza amore, personaggi la cui descrizione si può esaurire nell’elenco delle marche di abbigliamento che indossano, e noi leggiamo questi libri e diciamo «Wow, che ritratto tagliente ed efficace del materialismo contemporaneo!» Ma che la cultura americana sia materialistica lo sappiamo già.È una diagnosi che si può fare in due righe. Non è stimolante. Quello che è stimolante e ha una vera consistenza artistica è, dando per assodata l’idea che il presente sia grottescamente materialistico, vedere come mai noi esseri umani abbiamo ancora la capacità di provare gioia, carità, sentimenti di autentico legame, per cose che non hanno un prezzo? E queste capacità si possono far crescere? Se sì, come, e se no, perché?

Rendere strano ciò che è familiare

Il mondo postmoderno, in quanto mondo postindustriale e governato dai media, ha invertito una delle grandi funzioni storiche della letteratura, quella di fornire dati su culture e persone lontane. È stata la prima vera generalizzazione delle esperienze umane che i romanzi hanno tentato di compiere. Se cento anni fa uno abitava in un paesino in culo al mondo, nel cuore dell’Iowa, e non aveva idea di come si vivesse in India, il buon vecchio Kipling glielo andava a spiegare. E ovviamente tutti i critici post-strutturalisti adesso si prendono la rivincita sui pregiudizi colonialisti e fallocratici insiti nell’idea che quegli scrittori stessero presentando delle creature aliene invece che rappresentarle: indigeni balbettanti, concubine focose, il fardello dell’uomo bianco e via dicendo. Ebbene, per il lettore di oggi questa funzione di presentazione della letteratura si è rovesciata, dato che l’intero villaggio globale oggi viene presentato come familiare, e immediatamente accessibile per via elettronica: satelliti, microonde, gli intrepidi antropologi dei documentari della PBS, i coristi zulù di Paul Simon. È quasi come se avessimo bisogno degli scrittori per ripristinare l’ineluttabile.

Per la nostra generazione, il mondo intero sembra presentarsi come familiare, ma dato che questa è ovviamente un’illusione per quel che riguarda tutti gli aspetti più importanti degli individui, forse il compito di ogni forma di letteratura realistica è l’opposto di quello che era un tempo: non più rendere familiare ciò che è strano ma rendere di nuovo strano ciò che è familiare. Mi sembra che sia importante trovare dei modi per ricordare a noi stessi che gran parte di questa sensazione di familiarità è illusoria e mediata.

L’ironia postmoderna

Se ho un vero nemico, un patriarca contro cui effettuare il mio parricidio, sono probabilmente Barth e Coover e Burroughs, e perfino Nabokov e Pynchon. Perché, anche se la loro consapevole letterarietà, la loro ironia e la loro anarchia erano al servizio di scopi validissimi ed erano indispensabili per quell’epoca, il loro assorbimento estetico da parte della cultura consumistica americana ha avuto conseguenze terrificanti per gli scrittori e per chiunque. Il mio saggio E unibus pluram parla proprio di quanto sia diventata velenosa l’ironia postmoderna.

L’ironia e il cinismo erano esattamente la reazione che ci voleva all’ipocrisia americana degli anni Cinquanta e Sessanta. È questo che rende i primi scrittori postmoderni dei grandissimi artisti. Il grosso merito dell’ironia è che spacca le cose a metà e va a guardarle dall’alto in basso, così da rivelarne i difetti, le ipocrisie e i doppioni. Il sarcasmo e l’ironia sono ottimi modi per strappare le maschere e mostrare la realtà sgradevole che c’è sotto. Il problema è che, una volta che le regole dell’arte sono state smantellate, e una volta che le sgradevoli realtà diagnosticate dall’ironia sono state rivelate in pieno, «a quel punto» che facciamo? (…) A quanto pare, vogliamo solo continuare a mettere in ridicolo la realtà. L’ironia e il cinismo postmoderni diventano un fine a se stessi, una misura della sofisticatezza e della spregiudicatezza letteraria degli scrittori. Pochi artisti osano parlare dei modi in cui si possa tentare di aggiustare quello che non va, perché sembreranno sentimentali e ingenui agli smaliziati ironisti. L’ironia si è trasformata da un mezzo di liberazione in un mezzo di schiavitù.

Pronti a morire per toccare il cuore del lettore

Ho scoperto che la disciplina più difficile nella scrittura è cercare di partecipare al gioco senza lasciarsi sopraffare dall’insicurezza, dalla vanità e dall’egocentrismo. Mostrare al lettore che si è brillanti, spiritosi, pieni di talento e così via, cercare di piacere, sono cose che, anche lasciando da parte la questione dell’onestà, non hanno abbastanza calorie motivazionali per sostenere uno scrittore molto a lungo. Devi disciplinarti e imparare a dar voce solo alla parte di te che ama le cose che scrivi, che ama il testo a cui stai lavorando. Che ama e basta, forse.

Il talento è solo uno strumento. È come avere una penna che scrive invece di una che non scrive. Non sto dicendo che riesco costantemente a rimanere fedele a questi principi quando scrivo, ma mi sembra che la grossa distinzione fra grande arte e arte mediocre si nasconda nello scopo da cui è mosso il cuore di quell’arte, nei fini che si è proposta la coscienza che sta dietro il testo. Ha qualcosa a che fare con l’amore. Con la disciplina che ti permette di far parlare la parte di te che ama, invece che quella che vuole soltanto essere amata. Magari questa è una cosa che non fa molto fico dire, non lo so. Ma mi sembra una delle cose in cui riescono gli scrittori davvero grandi – da Carver a Cechov a Flannery O’Connor al Tolstoj della Morte di Ivan Il’ic al Pynchon dell’Arcobaleno della gravità – sia dare qualcosa al lettore. Quando il lettore si allontana dalla vera opera d’arte pesa di più di quando ci si è avvicinato. È più ricco. Tutta l’attenzione e l’impegno e lo sforzo che come scrittore richiedi al lettore non possono essere a tuo vantaggio, devono essere a suo vantaggio. Quello che è velenoso e deleterio, nell’ambiente culturale di oggi, è che rende tutto questo tanto spaventoso da dissuaderci a farlo. Un’opera davvero grande nasce probabilmente da una volontà di svelarci, di aprirci a livello spirituale ed emotivo in un modo che rischia di farci provare davvero qualcosa nel farlo. Significa essere pronti a morire, in un certo senso, pur di riuscire a toccare il cuore del lettore.

Le perle sono tratte da:

Larry McCaffery, An Interview with David Foster Wallace, Review of Contemporary Fiction, estate 1993;
Laura Miller, The SALON Interview — David Foster Wallace, 8 marzo 1996.

Trovato qua: minima & moralia

venerdì 2 ottobre 2009

Got Some

every night with the lights out, where you gone?
what's wrong
overtime you can try but can't turn on your rock song

got some if you need it

get it now, get it on before it's gone
let's everybody carry on, carry on

get it now set it off before it's gone
get everybody carry on, carrying on

precipitation, which side are you on
are you on the rise? are you falling down?
lemme know, c'mon let's go yeh!

got some

get it now, get it on, before it's gone
let's everybody carry on, carry on

turn it up, set it off, before we're gone
let's everybody carry on, carry on

this situation, which side are you on?
are you getting out? are you dropping boombs?
have you heard of diplomatic resolve resolve? yeh!

precipitation, which side are you on?
are you on the rise? are you falling down?
lemme know c'mon let's go

get it now, get it on before it's gone
let's everybody carry on, carry on

turn it up, set it off before we're gone
let's everybody get it on, get it

precipitation, which side are you on?
are you drying up? are you a big drop?
are you a puddle full of detriment?

got some if you need it
got some

Performed by Pearl Jam

giovedì 1 ottobre 2009

Settembre 2009


"Quando ti barrichi e’ vero che nessuno puo’ entrare ma neanche tu puoi uscire."

Gaia Grossi