Parliamo, si: parliamo. Che in fondo noi siamo fatti di parole, incatenate le une nelle altre, divise da punteggiatura epilettica o da spazi bianchi troppo spesso troppo lunghi troppo intensi. Ci nutriamo di parole più che del cibo vero e proprio, degli antipasti, degli aperitivi, delle pizze o dei primi o dei secondi, delle patatine fritte, delle birre bevute a coppie mai dispari nelle pinte o del vino rosso consumato in bottiglie, dei dolci o dei gelati storti; ci nutriamo di parole più di quanto tu possa lamentarti, far finta, o nascondere. Allora ben venga un invito a parlare, come un invito a cenare, come un invito a ballare. Muoveremmo le nostra braccia e gambe al ritmo del volere, contraendo muscoli affinché tutto il nostro movimento venga distorto il meno possibile in situazioni imbarazzanti; per poi finire stesi spossati ma mai arresi.
Può darsi benissimo che alla fine di tutta questa storia io risulti essere il machete e tu invece l'aurora. Tu aurora lo sei sempre stata; io da lama ho cercato di trattenere i tagli, per quanto ne fossi mai stato capace. Non dico di no, né tanto meno vorrei delle varianti. Ho ancora il sangue rappreso di altre vittime del mio avvicinarmi, involontariamente ho amputato arti e reso persone incapaci di camminare. Sono una costante, qui, per te; per darti un senso, un punto fisso con cui orientarti. L'inferno che maledicono i più, che descriverai con fiamme fuoco rosso e lingue gialle avvolgenti. Racconterai in giro di come ho bruciato le ustioni di croste secche su tutta la pelle viva, innondando le infezioni di pus maleodorante da svenire in putrefazione.
Ma sono fiamma, lava, incandescenza che brilla al buio e danza consumando ossigeno. Se sono questo e nulla più il primo a bruciare sono io.
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