è sera. siamo seduti su un muricciolo, uno accanto all'altra, in una piazza affollata. c'è gente a passeggio, con bicchieri di plastica riempiti di birra, si muovono in gruppo, altri invece restano fermi a capannello, formano un agglomerato disomogeneo di gesta risa e scherzi. ce ne sono di grandi, di questi gruppi, alcuni contano pure dieci o più componenti. altri invece, come noi, sono solo in due, e li si vede guardarsi intorno per trovare magari un altro piccolo gruppetto con cui unirsi, una specie di mitosi al contrario. non c'è nessuno da solo, sperduto fra la folla, in cerca di amicizia. chiunque pare avere almeno un appoggio, un'arma contro la solitudine. l'unione fa la forza.
il muricciolo sul quale siamo seduti è circolare, non troppo grande, contiene una piccola porzione di terra sulla quale sono state seminate alcune piante. l'intenzione iniziale magari era quella di fornire alla piazza un occhio di verde, tenuto con cura; ma poi la natura deve aver fatto il suo corso. al posto di alberi dritti eretti su per la schiena sono venuti fuori arbusti contorti, non sviluppati verso l'alto quanto piuttosto verso la casualità, in diagonale, con rami sporgenti all'infuori. alcune foglie ci abbracciano la schiena, creano ombra sicura dietro di noi.
la luce è diffusa da dei lampioni in ferro battuto, alti non molto più di noi, arrivano a mala pena a sfiorare il primo piano delle case attorno alla piazza. sono scuri, quasi neri, di quelli in stile antico con in cima quattro braccia, una per punto cardinale, a sorreggere delle buffe imitazioni di lanterne senza olio. calati nel contesto i lampioni classici, quelli dei viali, lunghi grigi e dalla forma spoglia, un semplice cilindro allampanato, stonerebbero con il resto del paesaggio. questi invece, pur nel loro ridicolo tentativo di imitare un tempo che fu, si mimetizzano perfetti nell'ambiente, ci sono ma non si vedono se non si vogliono notare, evitano il pugno nell'occhio. anche la luce ha un tono più caldo, arancione, non è invadente, tenue quanto basta per far vedere senza per questo accecare.
parliamo, si. e ridiamo, è vero.
"perché divaghi?" mi chiedi.
non so il motivo per cui lo faccio. forse per il desiderio di allungare questi momenti fino all'infinito, oppure per fermare questi attimi in modo talmente perfetto da potermici calare poi quando ne avrò più voglia o ne avrò più bisogno, oppure perché cerco di rimandare il tempo in cui dovrò prendermi la briga di descrivere te invece del paesaggio, oppure per via della tua bellezza, di quella luce che emani e per la quale non ho più parole da spendere per riuscire a fartela capire, quanto sia interessante e piacevole e apprezzabile e diverte e profonda e luminosa e raggiante e sfaccettata, questa luce qua. mi trovo sempre in difficoltà quando devo farti uscire dalle mani, spingerti giù dalla testa, il cervello, incanalandoti dentro il collo e deviandoti, prima che tu arrivi all'incrocio del petto, sulla spalla per farti poi finire lungo le braccia fino alle dita, dalle quali infine esci. mi sento impacciato, come se sapessi già in partenza che qualsiasi cosa facessi sbaglierei comunque.
"perché divaghi?"
non lo so, sono tutte quante delle supposizioni. la verità è che stiamo parlando, è vero, stiamo ridendo, è vero, ma più in profondità stiamo in realtà giocando, con il fuoco, e lo sappiamo entrambi. siamo curiosi forse di sapere quanto ci possiamo avvicinare prima di far scattare gli allarmi, prima di sentire la sirena della polizia avvicinarsi per venirci ad arrestare. ci divertiamo a far nascere scintille dalle nostre guancie che danzano lente nello sfiorarsi. siamo due pietre focaie da sfregare fino a quando non scatta il fuoco.
e il fuoco infine scatta. quando le nostre labbra sono attratte le une alle altre in modo naturale, senza rendercene conto, quasi fosse la forza di gravità a spingerle nei movimenti. si uniscono chiuse in un bacio che sa di bagnato, poi con passi lenti si aprano un poco, fanno filtrare la lingua che timida entra furtiva ad occhi chiusi. è un procedere a tentoni, morbido, senza andare in profondità, rimanendo in superficie, galleggiare sull'acqua, fare il morto respirando appena, le braccia allargate, le gambe leggermente divaricate, formare una croce, la faccia verso il cielo, il sole a pioverti sulle palpebre abbassate, il rumore costante del mare in onde appena accennate.
dura un soffio, un battito d'ali. difficile dire se si possa anche solo definire come un bacio, magari è solo un semplice toccarsi, un assaggio di ciò che potrebbe essere davvero un bacio, ma se lo è, è il nostro primo.
quando riapriamo gli occhi siamo già lontani, distaccati. forse è stato solo un sogno, come tutto questo, o forse non lo è stato. la gente continua a camminarci accanto, con le birre in mano. alcuni rami ci sfiorano ancora le spalle. tutto quanto pare essere rimasto uguale identico a come era prima, prima che chiudessimo gli occhi e ci tuffassimo uno dentro l'altra. il mondo non sembra essere stato rivoluzionato da questo nostro gesto. ti guardo mentre tu mi guardi. non so te, ma ne vorrei ancora.
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