aveva talmente tanta confusione in testa da soffocare, quasi. non erano preoccupazioni quanto piuttosto pensieri, ricordi, promemoria, cose da fare, cose da non fare. aveva tracciato un percorso abbastanza dettagliato, capace di portarlo da un punto immaginario A ad un punto altrettanto immaginario B. per fare questo doveva camminare lungo una sottile riga senza mai poggiare un piede a destra o a sinistra di questa riga. lo spazio al di fuori della riga era un burrone, la riga invece era l'unico spazio in cui poteva essere al sicuro. se poggiava la pianta del piede poco fuori la riga, allora sgarrava, e sgarrare equivaleva a cadere nel baratro, perciò era molto più sicuro camminare diligente lungo la riga. si immaginava come un trapezista in equilibrio su di un filo teso sopra al niente.
in quel periodo aveva anche il raffreddore. si soffiava il naso in media due volte ogni cinque minuti: una volta per liberare la narice sinistra, l'altra per liberare la narice destra. arrivava a sera consumando ogni giorno almeno sette pacchetti di fazzoletti di carta. per lui era inevitabile pensare che tutti quegli umori appiccicosi colati fuori dal suo naso non fossero altro che i pensieri confusi intenti a cadergli giù dalla testa. il moccio, in pratica, come lo chiamava quando era bambino e sua madre gli diceva forte: soffia! soffia!, era la materializzazione di ciò che aveva in testa.
per guarire, si diceva, sia dal raffreddore che dal mal di testa di tutta quella confusione, doveva solo mettere un po' in ordine. per questo apriva cassetti, faceva posto, liberava gli armadi.
un giorno prese tutti i calzini ammassati in un cassetto del comò e li stese paia a paia sul letto. li guardò con attenzione, occhio critico, decidendo di quale ne avesse davvero bisogno e quali invece ormai non metteva più neppure per scherzo. fece una bella scrematura, rimanendo alla fine con sette paia di calzini, uno per ogni giorno della settimana. li avrebbe usati con una ferrea rotazione. poi fece la stessa cosa con le mutande, le camicie, i pantaloni, le maglie, le giacche, le cravatte. in questo modo guadagnò lo spazio necessario per prendere tutto quanto avesse in testa e dargli una ben precisa posizione. i sogni, per esempio, decise di metterli nel cassetto del comodino, dove prima teneva le mutande, almeno la notte quando andava a dormire li avrebbe avuti sempre a portata di mano, potendo così scegliere quale sognare di volta in volta a seconda del suo umore. per tutto quanto succedeva ogni giorno, gli altri li chiamavano "ricordi", aveva fatto posto nell'armadio dove teneva i vestiti. la sera quando tornava da lavoro andava in camera, si spogliava per fare una doccia, e dopo essersi lavato tornava in camera e metteva i ricordi rimasti dentro l'armadio.
quando si lavava, dentro il box della doccia, lo faceva usando una rigida successione: prima regolava la temperatura dell'acqua, andandola a testare via via con il dorso della mano (quasi sempre la destra), poi si lasciava bagnare dal getto violento lanciato dal miscelatore. chiudeva l'acqua e prendeva il sapone, strofinandoselo deciso sulle braccia il petto il ventre, il collo, lavandosi ben bene sotto le ascelle. riapriva l'acqua per sciacquarsi, poi passava a lavare la parte al di sotto della vita: le gambe, gli stinchi, i piedi, passando la saponetta con attenzione tra le dita per togliere via tutto lo sporco. alla fine riapriva di nuovo l'acqua, si bagnava, e solo allora si faceva uno shampoo e si dava sul corpo, tutto quanto senza intervalli, un bagnoschiuma al gusto di pesca.
uscito dalla doccia si avvolgeva nell'accappatoio. si abbracciava stretto, strofinandosi per asciugarsi, la frizione della stoffa contro la pelle. per prima cosa i piedi, almeno poteva camminare tranquillo senza lasciare le impronte bagnate ovunque andasse. andava in camera, dove lasciava cadere a terra l'accappatoio, e nudo, nudo, prendeva cosa gli era rimasto addosso e lo riponeva dentro l'armadio.
il bagnoschiuma era solo uno sfizio, non era proprio del tutto necessario. serviva per profumarsi, non per altro. il sapone invece, quello si: era necessario. con quello si lavava via di dosso tutto quanto non era importante, ciò che era successo ma poteva anche scordare senza troppi problemi. i ricordi della stessa vita di una farfalla, quelli che doveva ricordare solo per ventiquattro ore, dopo le quali potevano essere tranquillamente dimenticati. in questa categoria rientravano le telefonate del tipo:
"Cerco la signorina Y."
"Al momento non è in casa."
"Quando posso trovarla?"
"Dovrebbe tornare dopo pranzo."
"Bene, la richiamerò nel pomeriggio."
per tutto il giorno in un angolo della sua mente teneva un appunto per telefonare di nuovo alla signorina Y, ma dopo averla richiamata poteva prendere quel post-it mentale e buttarlo via.
dello stesso tipo erano: ricordati di prendere il pane, ho lasciato l'ombrello appeso all'attaccapanni dell'ufficio, il pasto è nel secondo scaffale dal basso del frigorifero, oggi devo mangiare pasta in quanto a cena mangerò carne. tutte queste cose venivano lavate via dal sapone, perché di posto ne aveva fatto, ma non era infinito. doveva stare attento a quello che voleva ricordare e ciò che invece poteva cestinare per non lasciarselo dentro la testa ad ammuffire nella confusione. dentro l'armadio finivano cose del tipo: la chiacchierata interessante fatta alla macchinetta del caffè con una sua collega, il suo sguardo interessato attratto dalle sue parole, la scintilla fredda scoccata dentro il petto quanto lei aveva chiesto se potevano vedersi una sera per bere qualcosa al di fuori dell'ufficio.
nel giro di qualche settimana, seguendo questa regola di archiviazione, trovando un luogo adeguato per qualsiasi pensiero, mettendo a posto ogni sera tutto quanto avesse sparso per la testa, il raffreddore guarì da solo, senza bisogno di medicine o di aerosol vari. era bastato prendere i pensieri e metterli a posto, non lasciare che questi si materializzassero prendendo la forma del moccio filamentoso dei suoi umori.
il suo medico invece gli aveva detto di prendere l'aspirina.
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