forse ho aspettato troppo tempo prima di sbarazzarmi di tutte le valigie piene di souvenir. i vestiti, piegati in modo approssimativo, i calzini, consumati, le mutande sporche pulite, le camicie, con le maniche arricciate a tre quarti, sempre sbottonate, sulle maglie stinte dai troppi lavaggi, i pantaloni lisi strappati, le scarpe dalle suole sfinite, inclinate dal camminare male, i libri i quaderni, con le pagine piegate per mantenere il segno, come bestemmie a tutto quello a cui ho creduto fino a poco tempo fa, le penne senza più inchiostro, quelle che sfreghi contro la carta e non fanno altro che segnarla con solchi trasparenti, fino a strapparla dalla rabbia; le parole, di quelle ho borse piene, tutte buttate senza ordine, veloci. per questo forse ho paura di tornare a casa, perché sarei costretto ad aprire tutto quanto e cercare di mettere un po' in ordine. le parole quando viaggiano in aereo, o in auto durante le curve, vengono sballottate di qua e di là, finiscono per aggrovigliarsi le une con le altre, specialmente quelle lunghe, come incomprensione o fraintendere. quando queste due per esempio si incastrano tra di loro uscirne fuori è sempre un'impresa epocale. sudi, ti affanni, sanguini: non sai mai se riuscirai a rimetterle a posto. per questo quando viaggio preferisco parole più corte, tipo: ciao, oppure: come stai. sono semplici pezzettini, è impossibile si ingarbuglino con altre, al massimo si possono nascondere negli angoli delle borse, seppellite sotto quintali di altre parole più pesanti: sentimenti, emozioni, rabbia, felicità. queste tendono tutte quante a pressare le altre in fondo, quasi a schiacciarle, forse convinte che la prima cosa di cui uno ha bisogno una volta tornato a casa e aperta la valigia siano proprio loro, e non magari un po' di riposo, tranquillità.
tranquillità per esempio la tengo sempre nella tasca esterna del bagaglio a mano. a volte subito dopo essere decollati la prendo e la metto alle orecchie come fosse un paio di cuffie di un lettore mp3. la voglio sempre a portata di mano, la tranquillità, o almeno la vorrei. la metto in un posto dove non devo faticare a cercarla, dove so di poterla trovare in qualsiasi momento. riuscire a prenderla poi, è un altro discorso. non sempre è così facile come si può pensare.
al check-in ero con una miriade di altre persone, tutte quante con valigie segnate da viaggi precedenti, ammaccate, timbrate dalle compagnie aeree. alcune erano ferite, mancavano di qualche rotella, viaggiavano zoppicando non appena qualcuno in cima alla fila finiva di sbrigare tutte le pratiche necessarie e usciva liberando il posto per qualcun'altro. io ero dietro a un gruppo di roma. non facevano altro che parlare, il più delle volte a vanvera, ripetendo sempre le stesse identiche cose. dove erano stati, cosa avevano fatto, aneddoti brillanti che qualche settimana dopo, chissà, avrebbero perso gran parte di quella iniziale brillantezza e sarebbero rimasti semplici ricordi neri.
con lentezza sono arrivato al banco. alcune persone avevano perso la carta di identità, altre avevano la carta ma molto probabilmente ciò che mancava loro era l'identità, oppure non si ricordavano più chi fossero, cosa ci facessero lì in quel momento, quale aereo avrebbero dovuto prendere per tornare a casa, e soprattutto: quale era casa loro?
una ragazza dai capelli ricci mi sorride da dietro il bancone. è vestita di un completo nero con risvolti verde scuro. mi dice qualcosa. deve controllare il mio biglietto d'imbarco. poi mi invita a posare il bagaglio sul nastro, vuole pesarlo. ho sempre paura quando arriva questo momento. mi chiedo cosa sarei capace di fare se messo alle corde la mia valigia superasse il peso consentito e dovessi alleggerirla in qualche modo. come farei ad aprirla senza far esplodere tutto per aria? nella mia pressata confusione ogni cosa è tenuta dentro la valigia dal semplice concetto fisico che la valigia è chiusa. se la valigia si aprisse, all'improvviso, tutto il suo contenuto sarebbe catapultato fuori, spinto dalla carica trattenuta fino a quel momento. mi immagino le parole, farebbero un casino. sarebbero come dei fuochi di artificio sparati verso il soffitto dell'aeroporto. la gente le guarderebbe a naso in su, stupefatta, mentre le parole una volta esaurita la propria propulsione si accascerebbero su se stesse, come salici piangenti, tornando sparse per terra. dovrei affrettarmi a correre a destra e a sinistra per raccoglierle, prima che a qualche stupido idiota passasse per la testa di prenderle credendo fossero sue. oppure qualcuno le potrebbe leggere, o usare nel modo sbagliato. se cadessero nelle mani sbagliate, certe parole potrebbero fare molto male. ci sarebbe chi potrebbe ridere, chi si girerebbe per le mani la parola elettricità prendendo la scossa, mentre slegata dalle sue compagne non riuscirebbe a scaricare a terra tutta la sua carica elettrostatica, altri più lontani vedrebbero la parola mia e penserebbero fosse già un atto di proprietà, poi dolce. prive le une delle altre non significherebbero niente, oppure significherebbero poco. sarebbero un po' come quei cartelli stradali che indicano una direzione: da sole dicono di andare a destra, ma unite, mia dolce elettricità, potrebbero portarti in qualsiasi posto.
prima di andare all'aeroporto mi piacerebbe poter fare delle prove. mettere tutto quanto in valigia e controllarne il peso. lo potrei fare per i vestiti, gli indumenti in generale, tutti gli oggetti fisici da metterci dentro; ma poi: voi lo sapete il peso delle parole? non è così facile da capire. ce ne sono alcune di leggere, quasi galleggiano. altre invece sono pesanti, sono asteroidi giganteschi in orbita attorno a chissà cosa: la testa? un braccio? una gamba? lo stomaco? una sera un signore si recò al molo della sua città. attraversò tutto il pontile fino ad arrivare alla fine, dopo di che si buttò in acqua. non aveva nessun masso legato a piedi, gambe o attorno al collo, ma non tornò mai a galla.
ci sono poi parole più subdole. quelle che guardi, le controlli attentamente perché hai la strana sensazione che abbiano la capacità di fregarti. le soppesi con le mani e ti convinci di quanto leggere queste siano, mentre invece quando le dai a qualcun'altro, quando le usi, quando le dici le scrivi, e gli altri le ascoltano le leggono, o le prendono a loro volta in mano, diventano piombate, chili e chili impossibili da sorreggere.
ho sempre paura di avere la valigia piena di questo tipo di parole. quelle che pesano pur sembrando leggere. spesso la sera prima di partire ho questo incubo: metto in valigia parole varie, tutte quante tranquille, innocue. poi vado in aeroporto. tengo il bagaglio senza fatica mentre lo appoggio sul nastro del check-in. tremo per la paura che la ragazza dietro al bancone mi dica che sia troppo pesante. mi dispiace, non possiamo imbarcarlo. invece nel sogno incontro una ragazza che percepisce le mie parole leggere tanto quanto le percepisco io. mi fa passare augurandomi buon viaggio, e io mi sento sollevato. solo dopo, sull'aereo, mentre sorvoliamo il mare, le parole iniziano a pesare, tonnellate, tutte quante insieme, e precipitiamo, finendo sott'acqua, a fare compagnia a quel signore sconosciuto che una sera si è buttato giù dal pontile del molo della sua città. lui con in tasca la parola colpa, noi con le mie parole - tesoro in questo tra sai quanto di tutto viaggiare ci non poco noi capisco – sparpagliate dentro la stiva dell'aereo.
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