"Prima che David morisse stavo lavorando ad alcune macchine con un bambino di cinque anni, il figlio di un amico che aveva una galleria nella stessa strada della mia". Una di queste serviva a ricreare un maiale a partire dalla pancetta, mentre un'altra era il prototipo di un'ingegnosa macchina per snocciolare datteri. Il giorno in cui suo marito si è impiccato, Karen Green stava lavorando a una "macchina politica", che prevedeva, tra le altre cose, un colorato tendone da circo, con elefanti e asini. Dopo, racconta, per molto tempo non è più riuscita a creare nulla, e si è chiesta se ne sarebbe mai più stata in grado, ma con il tempo, in via del tutto sperimentale, ha cominciato a sviluppare l'idea per un congegno della riconciliazione. "La macchina del perdono era lunga circa due metri. Pesava da morire". L'idea era la seguente: scrivevi la cosa che volevi perdonare, o per la quale volevi essere perdonato, e un aspiratore risucchiava il foglietto da un'estremità, per poi restituirlo dall'altra fatto a brandelli. Oplà. Green ha esposto la macchina in una galleria di Pasadena, vicino a Claremont, il sobborgo di Los Angeles in cui lei e Wallace sono vissuti durante i quattro anni del matrimonio. Era affascinata dall'effetto che aveva sulle persone che la utilizzavano. "Era strano", accenna. "Lì per lì sembravano divertite, ma quando arrivava il momento di introdurre il messaggio diventavano ansiose. Come a dire: "E se poi funziona, e devo davvero perdonare quei mostri dei miei genitori?"". Lei, alla fine, la macchina non l'ha mai usata, se non per inserirvi qualche messaggio di prova. "Temevo non riuscisse a funzionare nemmeno per le quattro ore dell'inaugurazione. Me la facevo anche un po' sotto all'idea di dover affrontare l'inaugurazione in sé. Vedere gente, parlare. Non un po', tantissimo. Credevo di non farcela". Nemmeno la macchina ha retto: non riuscendo a elaborare tutte le richieste, alla fine è stata smantellata. "Perdonare non è mai semplice come vorremmo", osserva. "Mi dicono che un sacco di persone hanno pianto". Nel suo studio, oggi, Kareen Green ci ripensa sorridendo, con tutta la stanchezza di chi negli ultimi tempi ha pianto più di quanto si dovrebbe fare in una vita intera. È energica e vitale, si sforza di ridere, azzarda persino, parlando degli ultimi due anni e mezzo, qualche freddura, nel tentativo di distrarsi da quella che sarebbe l'alternativa. I suoi occhi raccontano una storia diversa. "Non so se i genitori di David provino rabbia nei suoi confronti. Ma ho parlato con altre persone che hanno perso nello stesso modo un marito, una moglie, un padre o una madre, e la rabbia è un sentimento perfettamente legittimo: ecco perché la macchina del perdono". Se per Green il marchingegno non ha potuto compiere la sua artigianale magia, quantomeno è riuscito a riportarla nel suo studio, da dove sta cercando di affrontare (o di proteggersi) la realtà della sua vita. "Il giorno prima fai parte di una coppia, vivi nella tua casetta e ti riguardi il cofanetto di The Wire per la terza volta con i cani che giocano intorno, e quello dopo di colpo sei la vedova del grande scrittore. Non la vivevamo così, quando David c'era ancora. Io, con lui, avevo la sensazione di essere sposata a un gentile maestro delle elementari. Tutto il resto l'ho ignorato per molto tempo. Fino a oggi, in realtà". "Oggi" significa anche sapere che il romanzo incompiuto di Wallace, The Pale King, sta per essere pubblicato in pompa magna in tutto il mondo. The Pale King era la "cosa grossa" a cui Wallace aveva lavorato nell'ultimo decennio della sua vita (lo scrittore è morto a 46 anni). Nelle intenzioni, avrebbe dovuto essere l'attesissimo seguito di Infinite Jest, l'affollato capolavoro di oltre mille pagine dalla cupa ironia, grazie al quale Wallace si è affermato come il più credibile candidato a ridefinire la portata e la voce del romanzo americano. Ero venuto in California per incontrare Green dopo aver corrisposto con lei per un po' di tempo via email. Si era perlopiù parlato del suo lavoro di artista, che a me sembrava esprimere in modo profondo e crudo gli estremi del dolore e del lutto. Alcuni dei suoi lavori più recenti sono appesi alle pareti dello studio: paesaggi ad acquarello sbiaditi fin quasi al candore, sui quali ha scritto, in una stratificazione di fogli di carta di riso, minuziose righe e colonne di parole. Parole che provengono, mi spiega mentre tento di decifrarle, da lettere d'amore e d'odio, immaginarie sedute dallo psichiatra, frammenti di scrittura di Wallace e dei diari della stessa Green, passaggi dei Dolori del giovane Werther di Goethe, estratti di referti ospedalieri dalla lingua asettica. Inciampano gli uni negli altri, in uno smarrimento di senso continuo. A questa serie di dipinti lavora in genere di mattina presto. Le sere sono più difficili. Green è sempre andata a caccia di vecchie lettere nei mercatini dell'antiquariato, piccoli resti di billet-doux e atti di proprietà, vaghe tracce di speranze umane dimenticate trascritte in bella grafia, inchiostri scoloriti fino a toni di bruno e grigio. Ora, dice, "ho materiale mio in abbondanza". Su un paio di dipinti ha applicato piccole porzioni chiare di risonanze magnetiche cerebrali, sezioni di lobi frontali e cervelletti che trasfigurano in volti spettrali. L'anno prima che Wallace morisse - quando, dopo un cambio di medicinali, la depressione di cui aveva sofferto fin da ragazzo si era ripresentata più violenta che mai - Green era diventata un'esperta nel linguaggio diagrammatico dei referti psichiatrici: "Quello è il cervello di una persona depressa", dice accennando a una serie di macchie in Technicolor. "Funziona secondo un codice diverso". Green respinge l'idea che il suicidio sia in alcun modo un atto significativo, e meno ancora comprensibile in termini artistici - il mito della depressione romantica - come tanti, fra i tantissimi che si sono espressi sulla morte di Wallace assimilandola a quella di Kurt Cobain, hanno talvolta voluto intendere. "È stato un giorno tra i tanti della sua vita, e uno tra i tanti della mia. Più complesso, per me, è lo stress post-traumatico che deriva dal trovare una persona che ami in quelle condizioni. È una cosa concreta. Un cambiamento reale che avviene nel cervello, a livello cellulare, pare. Mi dicono che avrei dovuto essere preparata, per via dei trascorsi di David con la depressione. Ma ovviamente non lo ero affatto. Mai, mai lo avrei lasciato in casa da solo, se avessi pensato che potesse succedere una cosa del genere". L'appropriazione estremamente pubblica che si è fatta di quel definitivo gesto privato ha reso molto più difficile elaborarlo. Lui era ovunque. Ancora oggi Green si tiene alla larga da Google: "Cos'altro puoi fare, quando il referto dell'autopsia di tuo marito è su internet e la gente ritiene di doverlo trasformare in un cazzo di argomento di critica letteraria?". Se adesso si sta lasciando intervistare, dice, è in parte perché sente il dovere di sostenere la pubblicazione di The Pale King, e in parte perché ha la sensazione che raccontare la sua esperienza possa essere d'aiuto ad altri che, come lei, sono stati abbandonati e costretti a convivere con la realtà deformata del suicidio. Su molti aspetti della morte di suo marito non ha certezze, ma di una cosa è sicura, ed è la prima che le chiedo: Wallace avrebbe voluto che The Pale King fosse pubblicato, anche nella sua forma incompiuta. "Gli appunti che aveva preso per il libro e i capitoli già completati erano impilati ordinatamente sulla scrivania del garage dove lavorava. E sopra c'erano le sue lampade, a illuminarli. Per cui non ho il minimo dubbio sul fatto che lo desiderasse. David non aveva mai lasciato nulla in così perfetto ordine". Nello shock immediato del dolore, Green e la storica agente di Wallace, Bonnie Nadell, hanno passato al vaglio qualunque altro suo scritto che sembrasse in linea con il romanzo. Tutto il materiale - dischi rigidi, file, bloc notes, floppy disk - è stato consegnato a Michael Pietsch, amico ed editor dello scrittore presso la casa editrice americana Little Brown, che se l'è portato via in due borsoni e due sacchi rigonfi. "So che voleva lo curasse lui", dice Green. "E se lei avesse visto quelle altre pagine capirebbe che l'esistenza di questo libro nel mondo è una specie di miracolo". The Pale King parla della noia, e dei modi in cui un gruppo di giovani americani tenta di mitigarne gli effetti per sopravvivere al proprio lavoro (come scrittore, Wallace non si è mai tirato indietro davanti alle sfide). È ambientato perlopiù negli uffici dell'agenzia delle entrate a Peoria, Illinois. Conoscendone la sostanza, e sapendo che Wallace aveva cominciato a scriverlo prima di conoscerla, Green si era chiesta se il libro avrebbe parlato anche dei cambiamenti che la loro relazione aveva portato nella vita dello scrittore, cosa che però non ha trovato. "Ero curiosa di sapere come avrebbe trattato la noia nel matrimonio", dice con un sorriso. "Dopo quattro anni, aveva davvero cominciato a capire come funziona. Diceva: "Quando mi hai detto che stavi tornando a casa, mi sono ricordato di metterti su l'acqua per il tè", cose così. Selvatico com'era, andava fiero di essersi fatto addomesticare". La critica più comunemente rivolta all'opera di Wallace è che, pur pirotecnica come nessun'altra, manchi di cuore. Che sia letteratura per giovani maschi vittime della loro stessa intelligenza, scritta da un maschio non più giovanissimo e molto, troppo vittima della sua. Quando chiedo a Green se Wallace sia sempre riuscito a far affiorare il meglio di sé nella scrittura, lei riflette. "Dipende da cosa si intende per "meglio di sé"", dice infine. "Ma io credo di no. La voce dello scrittore assumeva una vita propria, che sono convinta lui avvertisse come un forte limite. Penso che parte della sua fatica fosse legata al tentativo di modificare questa voce. L'intelligenza, specie per una persona intelligente come David, è la cosa più difficile a cui rinunciare. È come ritrovarsi nudi, o come sposarsi rispetto all'avere storie di una notte. Le persone non vogliono passare per sentimentali. Gli scrittori di sicuro no". In proposito, Green e Wallace portavano avanti da tempo uno scherzoso diverbio, sul fatto che lo scrittore dovesse o meno permettere alla sua "parte stupida" di filtrare nella prosa. "Io pensavo che quella parte, ogni tanto, dovesse essere lasciata libera di esprimersi", ricorda lei. "Era meravigliosa. Gli dicevo che a volte, quando un testo o un'opera d'arte è troppo intelligente, perde la capacità di stabilire un contatto. È evidente che David stesse facendo qualche tentativo in quel senso, e sono quelle le parti del libro che ho amato di più". A far conoscere Karen Green e David Foster Wallace è stata l'attività artistica di lei. "Mi sono imbattuta per caso nel suo libro Brevi interviste con uomini schifosi, trovato in un negozietto dell'usato a un dollaro", racconta. "All'epoca lavoravo a opere in cui prendevo testi scritti da qualcun altro, li scomponevo in riquadri e li trasformavo in qualcos'altro. In quel libro ho letto il racconto La persona depressa, e mi è venuta voglia di usarlo per una di quelle opere". Via fax, scrisse a Wallace per sapere se l'idea gli andava. Lui, sempre via fax, rispose di no, approfittandone per correggerle la grammatica. Terminata l'opera, Green la portò a Los Angeles per mostrargliela. "Gli piacque il fatto che una sconosciuta avesse deciso di editarlo, credo. Fu gentilissimo. Io mi ero davvero ammazzata, tentando di cavare dalle sue parole una serie di haiku. Le avevo rielaborate in forma di denti, trentadue denti disposti a reticolo. Una faticaccia". In seguito, racconta, "per un po' siamo stati amici, dopodiché siamo diventati molto amici". Capì che era amore quando Wallace, all'inizio della relazione, accettò di andare con lei alle Hawaii. Le Hawaii incarnavano due fra tante fobie: il viaggio in aereo e l'eventualità di ritrovarsi a nuotare in mezzo agli squali. Quando Green entrava in acqua, Wallace di solito se ne stava sulla battigia a gridarle dati statistici sulle aggressioni agli esseri umani da parte di squali. Nel 2004 si sposarono a Urbana, cittadina natale dello scrittore nell'Illinois, alla presenza dei genitori di lui e del figlio, già grande, avuto da un matrimonio precedente di lei. Wallace aveva nel frattempo accettato un posto da docente di scrittura creativa presso il Pomona College di Claremont, in California. Scelsero un ranch nei dintorni e vi andarono a vivere. Dietro la casa in cui Green vive oggi scorre un fiume, costeggiato da vecchie fattorie, macchinari industriali e capannoni. Un tempo, Petaluma era il principale centro di produzione di uova della California. Andiamo a fare due passi lì, e lei mi mostra alcuni dei posti che ha dipinto nei suoi acquarelli. Non sa perché sia finita qui, dopo l'accaduto, ma aveva bisogno di andarsene da Claremont. Piano piano si sta facendo degli amici. Nel 2007 lo scrittore assumeva lo stesso farmaco, il Nardil, da 20 anni. Era convinto che quelle pillole stessero cominciando ad avere brutti effetti collaterali. Faticava a mangiare, ma riteneva anche che il farmaco stesse intralciando la scrittura. Su consiglio di un medico, smise di prendere il Nardil. Nel giro di poco tempo diventò estremamente instabile. Disperato, Wallace ricorse alla terapia elettroconvulsivante, l'elettroshock, che intorno ai vent'anni l'aveva aiutato a superare le crisi peggiori. Green rimase al suo fianco per tutti i mesi della terapia, arrivando a non uscire di casa anche per nove giorni di fila. "È stato terribile", ricorda. "Credo che il suo panico all'idea che non funzionasse ne abbia in un certo senso vanificato gli effetti". Uno dei tanti timori di Green riguardo la pubblicazione di The Pale King è che venga interpretato come la lunga lettera d'addio di un suicida, una specie di spiegazione del finale che Wallace ha deciso di darsi. A un certo punto, durante la nostra conversazione, le chiedo se ha mai pensato che la malattia e la scrittura provenissero dalla stessa fonte, che l'una non si potesse avere senza l'altra. "Io non credo", risponde lei, che pure riceve le email di lettori ostinatamente affezionati al mito del genio tormentato. "La gente non si rende conto di quant'era malato. Era un mostro che lo divorava per intero. E a quel punto tutto il resto passava in secondo piano, rispetto alla malattia. Non soltanto la scrittura. Tutto: il cibo, l'amore, la casa...". In un passaggio che viene spesso citato nei coccodrilli dei giornali, Wallace una volta disse che avrebbe cercato di "comunicare come ci si sente a essere umani, o che sarebbe morto nel tentativo di farlo". La scrittura, l'arte, possono valere più della vita? Così da vicino, la risposta è certamente no. Il giorno dopo, spedisco via email a Green un paio di domande allo scopo di chiarire alcune dichiarazioni. Mi risponde subito, e con quella che immagino voglia considerare la sua ultima parola al riguardo: "L'opera di David è qualcosa di straordinario, che va giustamenhttp://www.blogger.com/img/blank.gifte celebrato, ma non per me. La sua morte la rende emotivamente più intensa? Sì. Ritengo che, se fosse sopravvissuto, avrebbe potuto stabilire lui la misura di quest'intensità? Sì. Ecco perché io non posso "celebrarla"". La mail si chiude su un ricordo del loro primo incontro, la speranza di altri destini. "Il fatto è che io, un finale diverso (per lui, per me) ce l'avrei ancora: quello in cui riesce a controllare la sua maledettissima intensità, e mi dà anche il bacio della buonanotte".
di Tim Adams (Traduzione di Matteo Colombo)
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