martedì 27 novembre 2012
Acchiappasogni
Con le calze scure - la gonna corta di un vestito blu notte con sopra un cardigan nero più lungo del vestito stesso, le maniche tirate su lungo gli avambracci, braccialetti larghi d’oro e d’argento a tintinnare su un polso magro, capelli castano appena chiaro sciolti lisci e lunghi fino a lambirle il seno - sembrava essere un semplice ricamo sulle calze, nella posizione in cui si trovava, alquanto anomala. Non veniva da pensare a cosa fosse veramente. Lo guardavi e ti immaginavi una fantasia stravagante dei collant (lei, vestita in quel modo, con occhiali dalla montatura spessa forse neppure graduati, un piercing alla narice destra e un brillantino appena visibile sopra il labbro dalla parte opposta, come a voler risplendere di rimando a quello del naso, non era un tipo da autoreggenti, era più una ragazza da collant, con l’elastico ben sopra le ossa sporgenti del bacino a lasciare un leggero segno sulla pancia. Lo si capiva anche dalle scarpe: non un tacco alto, né delle decolté alla moda, ma un paio di calzature tornate fuori dagli anni ottanta, allacciate alla caviglia e della stessa tonalità del pelo di un orso bruno di montagna, un marrone opaco, selvaggio), ricamata per chissà quale motivo solo nella parte interna di una delle due gambe. Era circolare e grande più o meno quanto tutto lo spazio che la coscia gli metteva a disposizione. Al suo interno c’erano degli altri disegni, poco distinguibili mentre lei camminava, e si fermava e poi riprendeva camminare. Nel frattempo lei sorrideva, parlava e lanciava strane occhiate intorno, appoggiando lo sguardo sulle pareti e sui quadri appesi. Le dita, con le unghie smaltate di un viola spento, scivolavano gustose sui contorni delle sedie, le poche sparse lungo i corridoi. Di tanto in tanto sbirciava dal basso verso l’altro con quei suoi occhietti vispi, maliziosi fino al limite estremo del termine. La sua espressione era in bilico tra il voluttuoso involontario e il voluttuoso marcatamente intenzionale, al confine tra i due. I loro occhi si incrociarono giusto un paio di volte, nel vagare distratto tra un’opera e l’altra, il tempo necessario per instaurare un rapporto, seppur solo visivo, tra due sconosciuti quali erano. Quando poi nelle ore successive si ritrovarono stesi sul letto, entrambi senza inibizioni e spinti l’uno contro l’altra da istinti primari, non furono più estranei, non le senso più stretto della parola. Non si sorpresero, né lui né lei, di muoversi con uno strano tipo di abitudine - nello stringersi stretti, nello scivolare ciascuno sopra il corpo dell’altro o dell’altra, nel baciarsi in ogni dove in qualsiasi momento senza alcun tipo di remore o pudore – (un’abitudine inusuale in quanto per loro era la prima volta che si comportavano in quel modo, con l’altro, con l’altra, e stringersi stretti, scivolare sul corpo di un’altra persona, baciarsi ovunque, è in qualsiasi caso diverso ogni volta, anche se fatto sempre con la stessa persona, per non parlare di loro due, sconosciuti fino a poche ore prima), si sorprese, ma solo lui, quando le calze furono srotolate e tolte dalle gambe, mentre lei teneva il bacino leggermente sollevato e la gonna le scivolava morbida sulla pancia, nello scoprire che quel disegno immaginato ricamato sulle calze non era altro che un accurato tatuaggio di un acchiappasogni indiano, appena sopra il ginocchio, nella parte interna della gamba; in una posizione inconsueta, dove lui non si sarebbe mai immaginato di trovare un tatuaggio (così vistoso, così grande… così sexy).
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