giovedì 31 gennaio 2013
Al cinema
Al cinema è buio, ma a prescindere dal genere di film – fantascienza, giallo, horror, thriller, romantico, fantasy, drammatico, comico, commedia, documentario – c’è sempre la tua mano ad aspettarmi.
mercoledì 30 gennaio 2013
Miami Vice
Alla fine del film si ha l’idea che a Miami ci sia sempre un temporale in arrivo, in qualsiasi notte, cielo nuvoloso e plumbeo, tuoni e fulmini, più ovviamente alla criminalità straripante dai bordi delle strade e da qualsiasi locale. Una città vista in nero, o gradazione di grigio assai fosche. Nella località della Florida infatti viene girato essenzialmente di notte mentre le parti con il sole vengono affidate a Cuba o altre nazioni del Sud America.
Si parla di narcotraffico e di una talpa all’interno di una organizzazione governativa che permette ai trafficanti di rintracciare gli infiltrati delle forze speciali. Un controspionaggio con i fiocchi che i nostri due protagonisti saranno obbligati a scoprire nel tentativo di stanare la talpa. Questa la premessa, che in fondo è tutto il film intero. Perché la storia si dipana poi in miriadi di alleanze e “unioni commerciali” che lasciano ben poco ad altro, tant’è che la missione non viene portata a compimento (magari poteva essere sviluppata in un possibile sequel?).
Le certezze, in un ben delineato e poco confusionario intrecciarsi di personaggi, sono la regia ferma di Mann, senza sbavature, il fatto che Colin Farrell pur acconciato da bolso taroccato, con tanto di capelli lunghi e baffi molto retrò, non possa fare a meno di scoparsi chicchessia, anche come se in questo caso le conseguenze sono palesemente prevedibili (e non promettono certo il meglio), e un determinato personaggio invece quando scopa ama ascoltare Chris Cornell.
Magari bello, con alcuni punti lasciati in sospeso, ma non un film bellissimo. Anche il gioco a riconoscere luoghi e posti non ha dato alcuna soddisfazione: tutto al buoi, tutto in luoghi desolati, e molto in altre città diverse da Miami.
Si parla di narcotraffico e di una talpa all’interno di una organizzazione governativa che permette ai trafficanti di rintracciare gli infiltrati delle forze speciali. Un controspionaggio con i fiocchi che i nostri due protagonisti saranno obbligati a scoprire nel tentativo di stanare la talpa. Questa la premessa, che in fondo è tutto il film intero. Perché la storia si dipana poi in miriadi di alleanze e “unioni commerciali” che lasciano ben poco ad altro, tant’è che la missione non viene portata a compimento (magari poteva essere sviluppata in un possibile sequel?).
Le certezze, in un ben delineato e poco confusionario intrecciarsi di personaggi, sono la regia ferma di Mann, senza sbavature, il fatto che Colin Farrell pur acconciato da bolso taroccato, con tanto di capelli lunghi e baffi molto retrò, non possa fare a meno di scoparsi chicchessia, anche come se in questo caso le conseguenze sono palesemente prevedibili (e non promettono certo il meglio), e un determinato personaggio invece quando scopa ama ascoltare Chris Cornell.
Magari bello, con alcuni punti lasciati in sospeso, ma non un film bellissimo. Anche il gioco a riconoscere luoghi e posti non ha dato alcuna soddisfazione: tutto al buoi, tutto in luoghi desolati, e molto in altre città diverse da Miami.
martedì 29 gennaio 2013
Blue Willa @Controsenso
L’atmosfera è densa. Fuori è freddo mentre dentro, in uno spazio ristretto, è caldo di quel caldo fatto dai respiri di altre persone e dai loro corpi coperti da cappotti pesanti e maglie e sciarpe e guanti. Non c’è spazio per la pelle libera, la sola che si vede è nella faccia, o nelle gambe delle ragazze che indossano una gonna, ma anche in questo caso è solo un’impressione velata dalle calze spesso scure, e gli stivali alti, giacche di pelle, acconciature strane dai colori sgargianti e a volte metallizzati.
Lo scenario è il tipico dipinto che si potrebbe pensare di disegnare guardando a un altrettanto tipico e ipotetico locale indipendente. Ipotetico, e: si potrebbe pensare. Da queste parti non ci sono molti locali del genere, non di quelli che si potrebbe immaginare come tali, appunto. La prerogativa viene lasciata alle grandi città, dove da qui si possono sognare luoghi in cui la musica risuona con più liberta e soprattutto con più continua regolarità. Qui non siamo in una metropoli, siamo nella zona industriale di una città che nasce come periferia di una grande città piccola. Prato è l’estensione dell’urbanizzazione di Firenze, e Firenze, se paragonata a Roma o Milano, arrossisce per l’imbarazzo.
La gente fa la spola da fuori a dentro, al bancone del bar e di nuovo fuori: prendere qualcosa da bere, fumare una sigaretta; aspettare. L’inizio si lascia attendere, l’apertura delle danze si annacqua in discorsi tra le persone accorse al concerto, chiacchiere ancora ricche degli strascichi che il capodanno si è lasciato alle spalle. È tempo utile per raccontarsi cose accadute una manciata di giorni prima, quando ancora era un anno fa, e i buoni propositi sembravano davvero buoni e possibili nella loro possibile realizzazione. Dello stesso avviso sembra essere Serena, che si aggira tra il pubblico salutando amici e conoscenti, fermandosi a scambiare quattro parole prima di mettersi a cantare sul palco, abbandonando la giacca pesante e anche un atteggiamento talmente naturala da lasciare pensare che tra un saluto e l’altro, tra un ciao, un come stai, è da tanto che non ci vediamo, come va come non va, i prossimi a beneficiare delle sue parole e del suo sorriso saremmo proprio noi, come se magicamente, nel sogno di qualsiasi fan, lei si ricordasse delle nostre facce tra tutte le miriadi di facce viste in chissà quanti altri concerti oltre a quelli a cui abbiamo assistito noi.
Noi siamo seduti su una porzione di gradinata larga abbastanza da contenere non più di quattro culi normalmente larghi. Ci sono tre scalini e noi siamo seduti su quello più alto, senza per questo guardare la gente dall’alto in basso, anzi: siamo proprio all’altezza degli occhi di chi ci cammina davanti, sulla pista, e anche Serena ci passa di fronte un paio di volte, tra una passeggiata e l’altra, e siamo proprio lì, a un soffio da lei, non può non vederci, non può non notare quegli occhi appollaiati come su di un ramo che la osservano passare con la stessa espressione di chi costudisce il segreto non troppo segreto di sapere chi essa sia. Ovviamente non ci viene a salutare e anche se quando salirà sul palco sembrerà lanciarci delle strane occhiate indirizzate proprio a noi e a nessun altro, sapremo bene distinguere l’illusione sognatrice di essere il suo punto unico di concentrazione, nel cantare e nel recitare con la sua voce a tratti potente e a tratti delicata, urlante nella nuova linea che il gruppo ha intrapreso, dalla realtà fisica di trovarsi più o meno nel centro esatto dell’orizzonte del palco, e che il suo cono visivo, quando guarda verso il pubblico, da dove si trova lei sul palco, potrebbe abbracciare qualsiasi persona presente nel locale e fargli provare la stessa identica sensazione di importanza e vicinanza (emotiva).
Prima di tutto ciò c’è spazio per una band emergente che inizia a suonare verso le undici, l’orario perfetto per permettere a tutti di scolarsi una birra e un cocktail a scelta. Si chiamano Sneers, un duo chitarra/voce batteria che è una specie di White Stripes invertiti, con lui seduto dietro ai tamburi e lei in piedi, di lato al microfono e il più delle volte leggermente ingobbita su di esso, i capelli lisci e lunghi di un castano chiaro tendente al biondo sporco a nasconderle il volto, intenta a cantare i testi delle loro canzoni. Diversamente da quanto si potrebbe pensare, non sono di Prato e neppure dei dintorni. I due vengono da Berlino, e non è ben chiaro se abbiano macinato chilometri su chilometri appositamente per venire a suonare a questo specifico concerto o se abbiano un qualche tipo di accordo con i Blue Willa per aprire tutti i loro spettacoli. È un mistero non abbastanza stuzzicante da richiederne in modo assiduo la soluzione, tanto più che il gruppo non lascia un’impressione così profonda da radicarsi nella mente e nei cuori degli spettatori. Il loro stile è rumoroso, rabbioso, chiassoso, con le parole che vengono urlate con tono basso tanto da non far capire se lei, la cantante, stia appunto cantando in inglese o in tedesco. Appartengono a una scena che molto probabilmente non appartiene a noi italiani, o almeno non appartiene a chi è intervenuto qui stasera, visto che nessuno pare prestar loro troppa attenzione. È un antipasto sonoro del concerto vero e proprio, e non è colpa loro né del pubblico se la loro esibizione passa così in secondo piano da sembrare un riempitivo della serata. È molto improbabile che qualcuno sia venuto in questo locale, questa precisa sera, per vedere e ascoltare loro.
L’interesse di chiunque è tutto rivolto verso questi nuovi Blue Willa, evoluzione dei vecchi Baby Blue, che stanno per esordire con un album tutto nuovo prodotto Carla Bozulich. Complice anche l’effetto megafono ottenuto da una buona campagna pubblicitaria fatta dalla critica di settore, tutti sembrano essere incuriositi da questo nuovo vecchio gruppo e dalla virata post punk, o new punk, o comunque più hard del rock precedentemente suonato, con la quale il quartetto ha deciso di darsi alle stampe.
Ed ecco che quindi il concerto è compresso e riassumibile dentro un’unica canzone, nella quale Serena pare guardarmi con più insistenza e durante la quale io devo ripetermi più e più volte di non lasciarmi trasportare troppo dai suoni e dalle sensazioni che ne nascono, dentro di me e fuori da me, di non farmi illudere dalla mia mente del mio punto di vista, costringendomi a mettermi al suo posto, al posto di Serena, e di guardarmi dal suo punto di vista. Devo fare uno sforzo sovrumano per tentare di rendermi immune dalla magia che la musica può fare, e dare, e regalare, a chi ha ancora voglia di emozionarsi per sei o quattro corde pizzicate per produrre un suono. E infatti non ci riesco. Finisco per lasciarmi sommergere del tutto dal rumore (ai Blue Willa piace fare rumore, ma un rumore, state attenti, non confuso ma organizzato) disseminato nell’aria in forme geometriche concentriche, una dentro l’altra, ad allargarsi fino a raggiungerti e ad accerchiarti, ovvero: farti sentire in mezzo alla canzone.
Per tutta la durata sono ipnotizzato dalle sue mani, le mani di Serena, che si muovono una sopra l’altra, come se fossero una medusa nell’acqua, al ritmo di un noise musicale che tutto il gruppo costruisce attorno alla voce della loro cantante, con chitarra basso e batteria a racchiudersi a cupola sulla piccola figura della propria front woman come per accudirla. Quando si chiudono, le mani, di scatto, all’improvviso, ho come un crampo allo stomaco, o al cuore, o una via di mezzo: un crampo al cuore sarebbe troppo, ma allo stesso tempo un crampo allo stomaco sarebbe troppo poco. Ecco, questo.
Lo scenario è il tipico dipinto che si potrebbe pensare di disegnare guardando a un altrettanto tipico e ipotetico locale indipendente. Ipotetico, e: si potrebbe pensare. Da queste parti non ci sono molti locali del genere, non di quelli che si potrebbe immaginare come tali, appunto. La prerogativa viene lasciata alle grandi città, dove da qui si possono sognare luoghi in cui la musica risuona con più liberta e soprattutto con più continua regolarità. Qui non siamo in una metropoli, siamo nella zona industriale di una città che nasce come periferia di una grande città piccola. Prato è l’estensione dell’urbanizzazione di Firenze, e Firenze, se paragonata a Roma o Milano, arrossisce per l’imbarazzo.
La gente fa la spola da fuori a dentro, al bancone del bar e di nuovo fuori: prendere qualcosa da bere, fumare una sigaretta; aspettare. L’inizio si lascia attendere, l’apertura delle danze si annacqua in discorsi tra le persone accorse al concerto, chiacchiere ancora ricche degli strascichi che il capodanno si è lasciato alle spalle. È tempo utile per raccontarsi cose accadute una manciata di giorni prima, quando ancora era un anno fa, e i buoni propositi sembravano davvero buoni e possibili nella loro possibile realizzazione. Dello stesso avviso sembra essere Serena, che si aggira tra il pubblico salutando amici e conoscenti, fermandosi a scambiare quattro parole prima di mettersi a cantare sul palco, abbandonando la giacca pesante e anche un atteggiamento talmente naturala da lasciare pensare che tra un saluto e l’altro, tra un ciao, un come stai, è da tanto che non ci vediamo, come va come non va, i prossimi a beneficiare delle sue parole e del suo sorriso saremmo proprio noi, come se magicamente, nel sogno di qualsiasi fan, lei si ricordasse delle nostre facce tra tutte le miriadi di facce viste in chissà quanti altri concerti oltre a quelli a cui abbiamo assistito noi.
Noi siamo seduti su una porzione di gradinata larga abbastanza da contenere non più di quattro culi normalmente larghi. Ci sono tre scalini e noi siamo seduti su quello più alto, senza per questo guardare la gente dall’alto in basso, anzi: siamo proprio all’altezza degli occhi di chi ci cammina davanti, sulla pista, e anche Serena ci passa di fronte un paio di volte, tra una passeggiata e l’altra, e siamo proprio lì, a un soffio da lei, non può non vederci, non può non notare quegli occhi appollaiati come su di un ramo che la osservano passare con la stessa espressione di chi costudisce il segreto non troppo segreto di sapere chi essa sia. Ovviamente non ci viene a salutare e anche se quando salirà sul palco sembrerà lanciarci delle strane occhiate indirizzate proprio a noi e a nessun altro, sapremo bene distinguere l’illusione sognatrice di essere il suo punto unico di concentrazione, nel cantare e nel recitare con la sua voce a tratti potente e a tratti delicata, urlante nella nuova linea che il gruppo ha intrapreso, dalla realtà fisica di trovarsi più o meno nel centro esatto dell’orizzonte del palco, e che il suo cono visivo, quando guarda verso il pubblico, da dove si trova lei sul palco, potrebbe abbracciare qualsiasi persona presente nel locale e fargli provare la stessa identica sensazione di importanza e vicinanza (emotiva).
Prima di tutto ciò c’è spazio per una band emergente che inizia a suonare verso le undici, l’orario perfetto per permettere a tutti di scolarsi una birra e un cocktail a scelta. Si chiamano Sneers, un duo chitarra/voce batteria che è una specie di White Stripes invertiti, con lui seduto dietro ai tamburi e lei in piedi, di lato al microfono e il più delle volte leggermente ingobbita su di esso, i capelli lisci e lunghi di un castano chiaro tendente al biondo sporco a nasconderle il volto, intenta a cantare i testi delle loro canzoni. Diversamente da quanto si potrebbe pensare, non sono di Prato e neppure dei dintorni. I due vengono da Berlino, e non è ben chiaro se abbiano macinato chilometri su chilometri appositamente per venire a suonare a questo specifico concerto o se abbiano un qualche tipo di accordo con i Blue Willa per aprire tutti i loro spettacoli. È un mistero non abbastanza stuzzicante da richiederne in modo assiduo la soluzione, tanto più che il gruppo non lascia un’impressione così profonda da radicarsi nella mente e nei cuori degli spettatori. Il loro stile è rumoroso, rabbioso, chiassoso, con le parole che vengono urlate con tono basso tanto da non far capire se lei, la cantante, stia appunto cantando in inglese o in tedesco. Appartengono a una scena che molto probabilmente non appartiene a noi italiani, o almeno non appartiene a chi è intervenuto qui stasera, visto che nessuno pare prestar loro troppa attenzione. È un antipasto sonoro del concerto vero e proprio, e non è colpa loro né del pubblico se la loro esibizione passa così in secondo piano da sembrare un riempitivo della serata. È molto improbabile che qualcuno sia venuto in questo locale, questa precisa sera, per vedere e ascoltare loro.
L’interesse di chiunque è tutto rivolto verso questi nuovi Blue Willa, evoluzione dei vecchi Baby Blue, che stanno per esordire con un album tutto nuovo prodotto Carla Bozulich. Complice anche l’effetto megafono ottenuto da una buona campagna pubblicitaria fatta dalla critica di settore, tutti sembrano essere incuriositi da questo nuovo vecchio gruppo e dalla virata post punk, o new punk, o comunque più hard del rock precedentemente suonato, con la quale il quartetto ha deciso di darsi alle stampe.
Ed ecco che quindi il concerto è compresso e riassumibile dentro un’unica canzone, nella quale Serena pare guardarmi con più insistenza e durante la quale io devo ripetermi più e più volte di non lasciarmi trasportare troppo dai suoni e dalle sensazioni che ne nascono, dentro di me e fuori da me, di non farmi illudere dalla mia mente del mio punto di vista, costringendomi a mettermi al suo posto, al posto di Serena, e di guardarmi dal suo punto di vista. Devo fare uno sforzo sovrumano per tentare di rendermi immune dalla magia che la musica può fare, e dare, e regalare, a chi ha ancora voglia di emozionarsi per sei o quattro corde pizzicate per produrre un suono. E infatti non ci riesco. Finisco per lasciarmi sommergere del tutto dal rumore (ai Blue Willa piace fare rumore, ma un rumore, state attenti, non confuso ma organizzato) disseminato nell’aria in forme geometriche concentriche, una dentro l’altra, ad allargarsi fino a raggiungerti e ad accerchiarti, ovvero: farti sentire in mezzo alla canzone.
Per tutta la durata sono ipnotizzato dalle sue mani, le mani di Serena, che si muovono una sopra l’altra, come se fossero una medusa nell’acqua, al ritmo di un noise musicale che tutto il gruppo costruisce attorno alla voce della loro cantante, con chitarra basso e batteria a racchiudersi a cupola sulla piccola figura della propria front woman come per accudirla. Quando si chiudono, le mani, di scatto, all’improvviso, ho come un crampo allo stomaco, o al cuore, o una via di mezzo: un crampo al cuore sarebbe troppo, ma allo stesso tempo un crampo allo stomaco sarebbe troppo poco. Ecco, questo.
lunedì 28 gennaio 2013
Tutto bruciato, tutto devastato
Aveva due guance che ricoprivano praticamente tutta la faccia, e lineamenti minuti e storti che sembravano appiccicati lì in gran fretta.
Claire uscì dall’acqua, accovacciata come una scattista sulle lunghe gambe per tenersi in equilibrio e non sbucciarsi un ginocchio. Poi si chinò e avvolse le dita attorno a una coscia abbronzata, facendo scorrere la mano lungo tutta la gamba, pelando via l’acqua in tante strisce argentate. Bob la guardò asciugarsi l’altra gamba in quel modo e la bellezza della scena gli fece pizzicare la gola.
“E se non parlassimo di niente?” Ribatté lei. “Sono una persona più felice quando mi dimentico chi sei.”
Ho sempre saputo che la vita va presa così com’è, senza contratto di garanzia, e che se vuoi ottenere qualcosa farai meglio ad affrontarla con il fuoco nelle vene.
Il nostro non è il tipo di amore fraterno che augurerei ad altri uomini, ma abbiamo la fortuna di possedere un unico, semplice dono: in questi rari momenti di felicità sappiamo condividere la gioia intensamente e sinceramente proprio come facciamo con l’odio.
Mi diceva che l’amore era come la varicella, una cosa da affrontare presto perché avanti negli anni poteva davvero ucciderti.
Dall’ultima volta che l’avevo vista Lucy aveva raggiunto un nuovo stadio di stanchezza e vecchiaia.
Wells Tower
Claire uscì dall’acqua, accovacciata come una scattista sulle lunghe gambe per tenersi in equilibrio e non sbucciarsi un ginocchio. Poi si chinò e avvolse le dita attorno a una coscia abbronzata, facendo scorrere la mano lungo tutta la gamba, pelando via l’acqua in tante strisce argentate. Bob la guardò asciugarsi l’altra gamba in quel modo e la bellezza della scena gli fece pizzicare la gola.
“E se non parlassimo di niente?” Ribatté lei. “Sono una persona più felice quando mi dimentico chi sei.”
Ho sempre saputo che la vita va presa così com’è, senza contratto di garanzia, e che se vuoi ottenere qualcosa farai meglio ad affrontarla con il fuoco nelle vene.
Il nostro non è il tipo di amore fraterno che augurerei ad altri uomini, ma abbiamo la fortuna di possedere un unico, semplice dono: in questi rari momenti di felicità sappiamo condividere la gioia intensamente e sinceramente proprio come facciamo con l’odio.
Mi diceva che l’amore era come la varicella, una cosa da affrontare presto perché avanti negli anni poteva davvero ucciderti.
Dall’ultima volta che l’avevo vista Lucy aveva raggiunto un nuovo stadio di stanchezza e vecchiaia.
Wells Tower
venerdì 25 gennaio 2013
La distruzione di un amore
Come un gruppo Metal
In un locale vuoto
Con due vecchi al bancone
Ti sentirai
Come un cecchino
Senza le munizioni
Al suo primo lavoro
Ti sentirai
Animale da ghiaccio ai tropici
Vegetariano costretto a tritare carne
Per campare...
Come quando
Sono a un palmo di naso
Dalla tua pelle
E non riesco a sfiorati
Non riesco a sfiorarti
Naufrago leghista
Salvato da un rumeno
Residente a Milano
Aspira polvere nel deserto
Un nuovo sospettato
In un caso già chiuso
Come quando
Sono a un palmo di naso
Dalla tua pelle
E non riesco a sfiorati
Non riesco a sfiorarti
Performed by Colapesce
In un locale vuoto
Con due vecchi al bancone
Ti sentirai
Come un cecchino
Senza le munizioni
Al suo primo lavoro
Ti sentirai
Animale da ghiaccio ai tropici
Vegetariano costretto a tritare carne
Per campare...
Come quando
Sono a un palmo di naso
Dalla tua pelle
E non riesco a sfiorati
Non riesco a sfiorarti
Naufrago leghista
Salvato da un rumeno
Residente a Milano
Aspira polvere nel deserto
Un nuovo sospettato
In un caso già chiuso
Come quando
Sono a un palmo di naso
Dalla tua pelle
E non riesco a sfiorati
Non riesco a sfiorarti
Performed by Colapesce
giovedì 24 gennaio 2013
Facciamo finta
Facciamo finta che sia domenica, anche se devo andare a lavorare. Andiamo a fare colazione, in macchina perché piove. Poi torniamo a casa, dimenticandoci la spesa, fino a quando le coperte sono ancora calde. Abbracciami e riscaldami, in tutte le posizioni: facciamo finta.
mercoledì 23 gennaio 2013
Quell'idiota di nostro fratello
Ormai in America sembra essersi decisamente affermato un genere di film che potrebbe essere definito come “quelli di Judd Apatow”. Non è un male, perché quest’ultimi non sfociano mai in una becera cazzata sguaiata e volgare, ma rimangono in equilibrio tra una commedia divertente e una commedia sbracata. Sono pellicole che fanno sorridere, riuscendo a portare il proprio pubblico a quel limite di umorismo che non arriva mai a risate maleducate.
Quell’idiota di nostro fratello, anche se non è di Judd Apatow, raggruppa un cast di tutto rispetto inserendolo tutto quanto in un’unica famiglia e si diverte a collegarne le sorelle unendole con l’unico figlio maschio, il solito simpatico Paul Rudd che per rendersi meno riconoscibile qui si è fatto crescere la barba.
C’è quindi questo fratello abbastanza ingenuo e tra le nuvole, e c’è il suo adorato cane Obi-Wan Kenobi. C’è la sua ex ragazza che, dopo il primo soggiorno di lui in prigione per spaccio di sostanze stupefacenti, lo caccia di casa e gli impedisce di vedere l’amato Obi-Wan. C’è la sorella Elizabeth Banks che pur di riuscire a scrivere un buon articolo per Vanity Fair è disposta a tutto. C’è la sorella Emily Mortimer sposata con figli che non vede il tradimento del marito e si rifugia in una comoda trasandatezza. C’è la sorella lesbica Zooey Deschanel che convive con la sua ragazza avvocato dalla parolaccia facile e che rimane incinta a causa di una breve sbandata etero (e protagonista della più bella battuta di tutto il film).
Tutti questi personaggi si intrecceranno con i loro problemi e i loro guai, additando l’ingenuo Paul Rudd come fonte di tutte le loro difficoltà. Capiranno solo alla fine che sono loro a essere sbagliati, a fare le cose in modo non corretto, per quanto strano possa apparire, e che il loro fratello è un’anima magari troppo candida ma pur sempre buona.
Un film senza troppe pretese ma che si lascia vedere in tranquillità.
Quell’idiota di nostro fratello, anche se non è di Judd Apatow, raggruppa un cast di tutto rispetto inserendolo tutto quanto in un’unica famiglia e si diverte a collegarne le sorelle unendole con l’unico figlio maschio, il solito simpatico Paul Rudd che per rendersi meno riconoscibile qui si è fatto crescere la barba.
C’è quindi questo fratello abbastanza ingenuo e tra le nuvole, e c’è il suo adorato cane Obi-Wan Kenobi. C’è la sua ex ragazza che, dopo il primo soggiorno di lui in prigione per spaccio di sostanze stupefacenti, lo caccia di casa e gli impedisce di vedere l’amato Obi-Wan. C’è la sorella Elizabeth Banks che pur di riuscire a scrivere un buon articolo per Vanity Fair è disposta a tutto. C’è la sorella Emily Mortimer sposata con figli che non vede il tradimento del marito e si rifugia in una comoda trasandatezza. C’è la sorella lesbica Zooey Deschanel che convive con la sua ragazza avvocato dalla parolaccia facile e che rimane incinta a causa di una breve sbandata etero (e protagonista della più bella battuta di tutto il film).
Tutti questi personaggi si intrecceranno con i loro problemi e i loro guai, additando l’ingenuo Paul Rudd come fonte di tutte le loro difficoltà. Capiranno solo alla fine che sono loro a essere sbagliati, a fare le cose in modo non corretto, per quanto strano possa apparire, e che il loro fratello è un’anima magari troppo candida ma pur sempre buona.
Un film senza troppe pretese ma che si lascia vedere in tranquillità.
martedì 22 gennaio 2013
Vasco
Quando aveva quindici anni era un ragazzino tranquillo – troppo tranquillo – di quelli che si possono vedere seduti da soli nelle panchine dei parchi a leggere un libro (cosa assai strana per un’età nella quale i libri dovrebbero essere il nemico assoluto e il pallone, o lo svago, la corsa a perdifiato per un qualsiasi tipo di sport, dovrebbe rappresentare l’unico modo possibile per riempire il tempo libero). Vicino agli anziani che davano da mangiare briciole di pane rinsecchite alle anatre, per farle avvicinare e farle vedere a nipoti interessati a tutto tranne appunto alle anatre, lui sedeva per davvero, spesso, da solo, lontano metri e metri dai suoi coetanei, a leggere un libro di fantascienza. Gli piaceva perdersi in mondi sempre nuovi, futuri lontani nei quali i viaggi intergalattici erano all’ordine del giorno e astronavi gigantesche transitavano nello spazio tra i vari pianeti brillando della stessa luce delle stelle che si lasciavano alle spalle. Grazie a quei romanzi poteva vivere avventure diverse ogni giorno, trasformandosi da essere umano a robot, da robot ad androide, da androide a replicante, da replicante a eroe, e tornare poi, ogni volta che chiudeva il libro, a essere di nuovo se stesso, senza lasciare tracce di quanto aveva appena vissuto.
A quell’età aveva una fitta distesa di acne giovanile a coprirgli tutta la fronte, brufoli dalla base rossastra alcuni dei quali incorniciati da intense aureole giallo acido. Li nascondeva con una pettinatura spiaccicata in avanti che faceva apparire la sua testa quasi perfettamente sferica, grazie all’aderenza maniacale con la quale ogni mattina si pettinava cercando di seguire le linee rotonde del suo cranio. A volte il vento, o qualche amico – quale amico? Aveva davvero degli amici a quindici anni? Amici veri, reali, persone che poi avrebbe di nuovo frequentato per il tempo dell’università e del lavoro? – gli apriva la frangia come se fosse una tenda da salotto, spostandola di lato. In casi del genere lui restava calmo, imperturbabile, riportando con un rapido gesto di mano i capelli a coprire di nuovo le sue vergone, senza badare troppo a quanto successo. Continuava a parlare se stava parlando, ad ascoltare se stava ascoltando, a non fare nulla se non stava facendo proprio nulla, come se nulla fosse, appunto, successo.
Era magro, ma non in modo eccessivo. Niente di preoccupante sotto l’aspetto alimentare. Mangiava regolarmente, abbuffandosi sia a pranzo che a cena e inserendo nel mezzo una lauta merenda pomeridiana, senza contare le ricche colazioni con le quali iniziava la giornata, con brioche straboccanti di crema e/o cioccolata e cappuccini schiumosi dentro i quali affondava tre generosi cucchiai di zucchero; ma non riusciva a ingrassare abbastanza da mettere un po’ di carne attorno alle ossa e poter essere definito, a vista, una persona sana. Aveva un’aria deperita, complici anche le guance infossate sulle quali non era presente neppure un minimo accenno di barba; rachitico nella sua postura tutta rannicchiata su se stesso, quasi si volesse avviluppare in un abbraccio che non riusciva a dare a nessun altro. Dava l’impressione di essere di continuo sull’orlo di una fame profonda, che lo costringeva a masticare l’aria senza riuscire a mettere niente sotto i denti. La dimostrazione più lampante della sua forse eccessiva magrezza era quando alzava la mano in classe per intervenire durante una lezione. Nel nugolo di teste abbassate sui libri e sui quaderni per prendere appunti, il suo braccio si stagliava verso l’alto come un ramo secco striminzito, liscio e privo di qualsiasi protuberanza o nodo: una specie di piccola asta sulla quale appendere una bandiera bianca per arrendersi.
A scuola voleva passare inosservato. Non indossava mai niente che potesse attirare attenzione, in particolare. Si limitava a vestire delle anonime maglie di lana dai colori neutrali, quando era freddo, o semplici camice a righe o a scacchi o a tinta unita, quando invece l’inverno non era ancora arrivato oppure era appena passato. Non era interessato a scarpe ultra ergonomiche, studiate appositamente per non sforzare la pianta del piede, e come pantaloni portava dei semplici jeans né larghi né stretti, né a vita larga o a vita bassa, solo dei jeans scuri, senza strappi o scuciture, niente risvolti, cerniera lampo e non bottoni: jeans blu, blue jeans. Questo lo collocava in un particolare segmento alquanto esile che separava due categorie diverse di studenti, permettendogli di non appartenere a nessuna di queste e di vivere la propria vita scolastica senza grossi traumi causati dai ragazzi più grandi e più fighi e più belli e più fumatori nei cortili o nei bagni, né essere oggetto delle attenzioni maniacali dei più studiosi e appassionati quattrocchi con apparecchi odontoiatrici, mobili o fissi, e capelli talmente unti da apparire lucidi.
A quell’età aveva una fitta distesa di acne giovanile a coprirgli tutta la fronte, brufoli dalla base rossastra alcuni dei quali incorniciati da intense aureole giallo acido. Li nascondeva con una pettinatura spiaccicata in avanti che faceva apparire la sua testa quasi perfettamente sferica, grazie all’aderenza maniacale con la quale ogni mattina si pettinava cercando di seguire le linee rotonde del suo cranio. A volte il vento, o qualche amico – quale amico? Aveva davvero degli amici a quindici anni? Amici veri, reali, persone che poi avrebbe di nuovo frequentato per il tempo dell’università e del lavoro? – gli apriva la frangia come se fosse una tenda da salotto, spostandola di lato. In casi del genere lui restava calmo, imperturbabile, riportando con un rapido gesto di mano i capelli a coprire di nuovo le sue vergone, senza badare troppo a quanto successo. Continuava a parlare se stava parlando, ad ascoltare se stava ascoltando, a non fare nulla se non stava facendo proprio nulla, come se nulla fosse, appunto, successo.
Era magro, ma non in modo eccessivo. Niente di preoccupante sotto l’aspetto alimentare. Mangiava regolarmente, abbuffandosi sia a pranzo che a cena e inserendo nel mezzo una lauta merenda pomeridiana, senza contare le ricche colazioni con le quali iniziava la giornata, con brioche straboccanti di crema e/o cioccolata e cappuccini schiumosi dentro i quali affondava tre generosi cucchiai di zucchero; ma non riusciva a ingrassare abbastanza da mettere un po’ di carne attorno alle ossa e poter essere definito, a vista, una persona sana. Aveva un’aria deperita, complici anche le guance infossate sulle quali non era presente neppure un minimo accenno di barba; rachitico nella sua postura tutta rannicchiata su se stesso, quasi si volesse avviluppare in un abbraccio che non riusciva a dare a nessun altro. Dava l’impressione di essere di continuo sull’orlo di una fame profonda, che lo costringeva a masticare l’aria senza riuscire a mettere niente sotto i denti. La dimostrazione più lampante della sua forse eccessiva magrezza era quando alzava la mano in classe per intervenire durante una lezione. Nel nugolo di teste abbassate sui libri e sui quaderni per prendere appunti, il suo braccio si stagliava verso l’alto come un ramo secco striminzito, liscio e privo di qualsiasi protuberanza o nodo: una specie di piccola asta sulla quale appendere una bandiera bianca per arrendersi.
A scuola voleva passare inosservato. Non indossava mai niente che potesse attirare attenzione, in particolare. Si limitava a vestire delle anonime maglie di lana dai colori neutrali, quando era freddo, o semplici camice a righe o a scacchi o a tinta unita, quando invece l’inverno non era ancora arrivato oppure era appena passato. Non era interessato a scarpe ultra ergonomiche, studiate appositamente per non sforzare la pianta del piede, e come pantaloni portava dei semplici jeans né larghi né stretti, né a vita larga o a vita bassa, solo dei jeans scuri, senza strappi o scuciture, niente risvolti, cerniera lampo e non bottoni: jeans blu, blue jeans. Questo lo collocava in un particolare segmento alquanto esile che separava due categorie diverse di studenti, permettendogli di non appartenere a nessuna di queste e di vivere la propria vita scolastica senza grossi traumi causati dai ragazzi più grandi e più fighi e più belli e più fumatori nei cortili o nei bagni, né essere oggetto delle attenzioni maniacali dei più studiosi e appassionati quattrocchi con apparecchi odontoiatrici, mobili o fissi, e capelli talmente unti da apparire lucidi.
lunedì 21 gennaio 2013
Il tennis come esperienza religiosa
Le pubblicità sulla metropolitana sfruttano il fatto che le corse presentano sia un mucchio di tempo mentale passivo sia il problema di dove posare lo sguardo – i finestrini sono per lo più troppo scuri e guardare gli altri in modo diretto in metropolitana è un gesto che chi viene guardato può interpretare in vari modi, alcuni fastidiosi e perfino rischiosi – e la pubblicità sopra i finestrini sono un punto neutro dove dirottare e posare lo sguardo, perciò di solito godono di grande attenzione.
(Il sex-simbolismo di Agassi è un fenomeno profondamente misterioso per la maggior parte dei maschi di mia conoscenza perché abbiamo tutti ben presente che Agassi in realtà è un piccoletto con la faccia schiacciata e la testa dalla strana forma [messa ancora più in risalto dal taglio a spazzola] che cammina strusciando un po’ i piedi e buttandoli in dietro come uno scolaretto con le mutande incastrate in mezzo alle chiappe: e non riusciamo proprio a capacitarci del fascino e della presa che Agassi esercita sulle donne).
Convergono nel Queens NE tramite le autostrade Van Wyck, Long Island e Whitestone, tramite l’Interborough, la Grand Central Parkway, il Crosso Bay Boulevard, portandosi dietro quattrini in quantità e qualunque santino aiuti a trovare parcheggio.
Sono tante le cose brutte di avere un corpo. È talmente vero che non ci sarebbe bisogno di esempi, ma citiamo solo brevemente il dolore, le ferite, i cattivi odori, la nausea, la vecchiaia, la gravità, la sepsi, la goffaggine, la malattia, i limiti – ogni singolo scisma tra i nostri desideri fisici e le nostre reali capacità. Qualcuno dubita che ci serva aiuto per riconciliarci? Che ne abbiamo un disperato bisogno? È il corpo che muore, in fin dei conti.
Certo, avere un corpo ha anche aspetti magnifici – è solo che coglierli e apprezzarli in tempo reale è molto più difficile. Al pari di certe rare epifanie parossistiche dei sensi (“Come sono contento di avere gli occhi per vedere questo tramonto!” eccetera) i grandi atleti sembrano catalizzare la nostra consapevolezza di quanto sia meraviglioso toccare e percepire, muoversi nello spazio, interagire con la materia. Vero è che gli atleti sanno fare con il corpo cose che il resto di noi può solo sognarsi. Ma sono sogni importanti: compensano molte cose.
Come Ali, Jordan, Maradona e Gretzky, pare allo stesso tempo più e meno concreto dei suoi avversari. Specie nel completo tutto bianco che Wimbledon ancora si diverte impunemente a imporre, sembra quello che (secondo me) potrebbe benissimo essere: una creatura con il corpo fatto sia di carne sia, in un certo senso, di luce.
Immaginate di essere una persona dotata di riflessi, coordinazione e velocità preternaturali e di giocare un tennis ad alto livello. Giocando non vi sembrerà di possedere riflessi e velocità fenomenali; semmai vi sembrerà che la palla da tennis sia piuttosto grossa e rallentata, e che possiate colpirla con tutta calma. Vale a dire che non vi accorgerete affatto della rapidità e della maestria (empiricamente reali) che il pubblico, guardando dal vivo le palle da tennis andare così veloci da sibilare e sfocarsi, vi attribuirà.
È interessante perché questa settimana, in effetti, Ancic [virgola Mario, lo spilungone croato della Top 10 che Federer ha battuto ai quarti di finale di mercoledì] ha giocato sullo Stadio Centrale contro il mio amico, capito, lo svizzero Wawrinka [virgola Stanislas, compagno di squadra di Federer nella Coppa Davis] e sono andato a guardarli dal posto dove si siede sempre la mia fidanzata, capito, Mirka [Vavrinec, ex giocatrice nella Top 100 femminile, messa fuori combattimento da un infortunio, che ora è fondamentalmente la Alice B. Toklas di Federer] e sono andato a vedere… per la prima volta da quando sono a Wimbledon, sono andato a vedere una partita sullo Stadio Centrale, e mi ha sorpreso, in effetti, capito, quant’è veloce il servizio e quanto devi essere veloce tu per riuscire a prenderlo, specie se al servizio c’è uno come Mario [Ancic, famoso per il servizio assassino] capito? Poi però, quando in campo ci sei tu è tutto diverso, capito, perché quello che vedi è la palla, non quanto va veloce…
L’allenamento richiesto è tanto muscolare quanto neurologico. Esercitarsi in migliaia di tiri, giorno dopo giorno, sviluppa la capacità di fare con la “percezione” quello che non può essere fatto con il nomarle pensiero consapevole. Un esercizio ripetitivo che spesso il profano considera noioso e perfino crudele, ma il profano non può percepire quello che succede dentro il giocatore: aggiustamenti minuscoli, incessanti, e un senso degli effetti di ogni singolo cambiamento che si acuisce al progressivo allontanarsi dalla normale consapevolezza.
L’allenamento è importante, ma soprattutto perché la prima cosa che la fatica fisica aggredisce è il senso cinestetico. (Altri antagonisti sono la paura, l’insicurezza e l’eccesso di agitazione: ecco perché una psiche fragile è una rarità nel tennis professionistico).
Il genio non è riproducibile. L’ispirazione, però, è contagiosa, e multiforme, e anche soltanto vedere, da vicino, la potenza e l’aggressività rese vulnerabili dalla bellezza significa sentirsi ispirati e (in un modo fugace, mortale) riconciliati.
David Foster Wallace
venerdì 18 gennaio 2013
Anyone Else But You
You're a part time lover and a full time friend
The monkey on you're back is the latest trend
I don't see what anyone can see, in anyone else
But you
Here is the church and here is the steeple
We sure are cute for two ugly people
I don't see what anyone can see, in anyone else
But you
We both have shiny happy fits of rage
I want more fans, you want more stage
I don't see what anyone can see, in anyone else
But you
You are always trying to keep it real
I'm in love with how you feel
I don't see what anyone can see, in anyone else
But you
I kiss you on the brain in the shadow of a train
I kiss you all starry eyed, my body's swinging from side to side
I don't see what anyone can see, in anyone else
But you
The pebbles forgive me, the trees forgive me
So why can't, you forgive me?
I don't see what anyone can see, in anyone else
The monkey on you're back is the latest trend
I don't see what anyone can see, in anyone else
But you
Here is the church and here is the steeple
We sure are cute for two ugly people
I don't see what anyone can see, in anyone else
But you
We both have shiny happy fits of rage
I want more fans, you want more stage
I don't see what anyone can see, in anyone else
But you
You are always trying to keep it real
I'm in love with how you feel
I don't see what anyone can see, in anyone else
But you
I kiss you on the brain in the shadow of a train
I kiss you all starry eyed, my body's swinging from side to side
I don't see what anyone can see, in anyone else
But you
The pebbles forgive me, the trees forgive me
So why can't, you forgive me?
I don't see what anyone can see, in anyone else
But you
Du du du du du du dudu
Du du du du du du dudu
I don't see what anyone can see, in anyone else
But you
Du du du du du du dudu
Du du du du du du dudu
I don't see what anyone can see, in anyone else
But you
Performed by The Moldy Peaches
giovedì 17 gennaio 2013
Balliamo un ballo
Balliamo un ballo di quelli che piacciono a me, guancia a guancia, stretti e lenti. Un ballo su di una musica soffusa e un po' strana, una canzone cantata da gente che sta male.
mercoledì 16 gennaio 2013
The Brave - Ribelle
C’era una volta, tanto tempo fa, in mezzo a tanti studi cinematografici, una piccola azienda di animazione di nome Pixar. Così si potrebbe riassumere questo The Brave, andando a raccontare gli inizi strepitosi della propria casa di produzione fino a giungere all’acquisizione da parte della Disney, una specie di Pac-man hollywoodiano che in questo ultimo periodo sembra volersi mangiare il mondo intero: Marvel, Lucasfilm, etc.
L’animazione è sempre a buoni livelli, anche se la caratterizzazione di alcuni personaggi, vedi il re, rimanda un po’ troppo a cose già viste in Dragon Trainer. Quello che stona in questa pellicola è la storia, che sembra essere indecisa su che strada prendere. Un’indecisione che alla fine della visione non permette un godimento pieno e spensierato, pur restando un film che si lascia vedere. L’inizio, con la protagonista piccola Robin Hood in gonnella, anche se la gonna e qualsiasi abito femminile si rifiuta di indossare, lascia presagire una direzione che però il film non ha il coraggio di intraprendere, o che magari gli sceneggiatori non sapevano come far evolvere. Si prende perciò un’altra strada, un po’ frastagliata e disconnessa, e si finisce per arrivare nelle parti di Koda Fratello Orso, o giù di lì. Curioso, perché quello sì che era della Disney. Tutto questo getta un’ombra scura sul futuro dei nuovi film targati Pixar: saranno tutti come questo ultimo The Brave (ovvero con un sottofondo disneyano assai marcato)? Speriamo di no, perché i film della Pixar erano davvero davvero molto molto belli, mentre questo ultimo lavoro può essere carino, ma non molto di più.
L’animazione è sempre a buoni livelli, anche se la caratterizzazione di alcuni personaggi, vedi il re, rimanda un po’ troppo a cose già viste in Dragon Trainer. Quello che stona in questa pellicola è la storia, che sembra essere indecisa su che strada prendere. Un’indecisione che alla fine della visione non permette un godimento pieno e spensierato, pur restando un film che si lascia vedere. L’inizio, con la protagonista piccola Robin Hood in gonnella, anche se la gonna e qualsiasi abito femminile si rifiuta di indossare, lascia presagire una direzione che però il film non ha il coraggio di intraprendere, o che magari gli sceneggiatori non sapevano come far evolvere. Si prende perciò un’altra strada, un po’ frastagliata e disconnessa, e si finisce per arrivare nelle parti di Koda Fratello Orso, o giù di lì. Curioso, perché quello sì che era della Disney. Tutto questo getta un’ombra scura sul futuro dei nuovi film targati Pixar: saranno tutti come questo ultimo The Brave (ovvero con un sottofondo disneyano assai marcato)? Speriamo di no, perché i film della Pixar erano davvero davvero molto molto belli, mentre questo ultimo lavoro può essere carino, ma non molto di più.
martedì 15 gennaio 2013
Quanta robaccia targata David Foster Wallace
Cinque
anni fa il suicidio di David Foster Wallace, scrittore molto amato o
molto odiato, a seconda dei gusti, ma senza dubbio cruciale per
l'influenza esercitata nella letteratura americana (e mondiale) da libri
come Infinite Jest.
Da allora, negli Stati Uniti, sono usciti quattro libri
postumi. This Is Water (Questa è l'acqua, Einaudi), volume costruito
attorno al testo di un discorso pubblico tenuto dal podio del Kenyon
College in occasione della consegna del diploma nel 2005. Fate, Time and
Language, la sua tesi di laurea in Filosofia. The Pale King (Il re
pallido, Einaudi), romanzo incompiuto frutto di una ardita operazione
editoriale, già abbondantemente criticata: da un manoscritto di 200
pagine, lasciato in garage affinché fosse trovato, è uscito un romanzone
di oltre 300, assemblato con materiale proveniente da agende
difficilmente destinate alla pubblicazione. Both Flesh and Not,
assemblaggio di saggi scritti fra il 1994 e il 2007, mai raccolti in
volume.
È un bel po' di roba. A cui si potrebbe aggiungere un'ampia biografia, libri-intervista (un po' dubbi) e una mole già sterminata di monografie. In fondo David Foster Wallace ha una legione di fan, in attesa di nuovo materiale. Tutto bene, quindi? Per niente. Infatti, a scoppio ritardato ma non per questo meno efficace, ecco arrivare la polemica. Riassumendo: ma che cavolo di robaccia arriva in libreria? David Foster Wallace, noto perfezionista e maniacale correttore dei propri testi, mai avrebbe acconsentito alla pubblicazione di romanzi-Frankenstein come The Pale King. A lanciare la provocazione è lo scrittore Blake Butler, fan di vecchia data di Foster Wallace, dalle colonne di Vice, divertente (e diffusissimo) magazine tra il modaiolo e il «corsaro». E sono mazzate. L'accusa più leggera verso chi gestisce l'eredità dello scrittore è «manipolazione». Per il resto, Butler scrive che questo pescare nel pozzo porta alla luce frammenti incoerenti. Cosa che alla lunga finirà con l'oscurare, o meglio col diminuire, la grandezza di un autore inimitabile. La polemica non è nuova e non riguarda solo David Foster Wallace: certo è che l'articolo di Butler, poche ore dopo la pubblicazione sul web, aveva già fatto il giro del mondo.
Trovato qua: IlGiornale.it
È un bel po' di roba. A cui si potrebbe aggiungere un'ampia biografia, libri-intervista (un po' dubbi) e una mole già sterminata di monografie. In fondo David Foster Wallace ha una legione di fan, in attesa di nuovo materiale. Tutto bene, quindi? Per niente. Infatti, a scoppio ritardato ma non per questo meno efficace, ecco arrivare la polemica. Riassumendo: ma che cavolo di robaccia arriva in libreria? David Foster Wallace, noto perfezionista e maniacale correttore dei propri testi, mai avrebbe acconsentito alla pubblicazione di romanzi-Frankenstein come The Pale King. A lanciare la provocazione è lo scrittore Blake Butler, fan di vecchia data di Foster Wallace, dalle colonne di Vice, divertente (e diffusissimo) magazine tra il modaiolo e il «corsaro». E sono mazzate. L'accusa più leggera verso chi gestisce l'eredità dello scrittore è «manipolazione». Per il resto, Butler scrive che questo pescare nel pozzo porta alla luce frammenti incoerenti. Cosa che alla lunga finirà con l'oscurare, o meglio col diminuire, la grandezza di un autore inimitabile. La polemica non è nuova e non riguarda solo David Foster Wallace: certo è che l'articolo di Butler, poche ore dopo la pubblicazione sul web, aveva già fatto il giro del mondo.
Trovato qua: IlGiornale.it
lunedì 14 gennaio 2013
Questo libro ti salverà la vita
Si è messo a piangere. Ha pianto senza emettere suono e quando si è reso conto che stava piangendo, il fatto se stesso di piangere o la paura del pianto, gli ha fatto capire che c’era qualcosa che decisamente non andava. E allora si è messo a piangere più forte.
La gente dovrebbe prestare più attenzione. Tutti vogliono attenzione, ma nessuno è disposto a darne.
Era poi così sciocco pensare che persino quando ogni cosa cade a pezzi, in fondo è una fortuna?
Da chi ha avuto Sylvia? Le persone si prendono da altre persone, ma chi è stato a dargli Sylvia?
“Non piangere,” dice lui. “Non ne vale la pena.” Esce dalla stanza portandosi dietro il telefono. “Sono solo soldi.”
I due figli sono seduti dietro con l’aria perplessa. Hanno quell’età strana in cui si è troppo grandi per essere bambini e troppo piccoli per essere adolescenti.
“È bello,” dice lei. “C’è odore di vernice fresca.”
L’odore gli dilata l’interno del cervello, un incrocio fra essere fumato e avere il mal di testa.
“Mi è piaciuto. È stato prezioso, mi sono sentito messo alla prova come non succedeva da anni – tranne che adesso mi sembra tutto strano, scombinato. Non sono chi credevo di essere.”
“Nessuno di noi lo è.”
“È molto simpatico tuo padre,” dice Richard quando sono di nuovo fuori.
“Non è mio padre. Vengo a trovarlo perché non posso andare a trovare mio padre.”
“È morto?”
C’è una pausa. “Certe volte non riesci a fare le cose per le persone per cui dovresti, incluso te stesso, però le puoi fare per qualcun altro, uno sconosciuto. Fred è uno sconosciuto. Il mio sconosciuto.”
Viviamo in un’epoca in cui nessuno vuole ricordare. Fingiamo di essere sempre all’inizio.
L’importante non è quello che dici ma quello che fai.
Qualsiasi malessere sentisse poco prima, viene sostituito da un leggero stato di euforia, una carica positiva, la sensazione di essere sopravvissuto a qualcosa.
C’è grande conforto nei rituali quotidiani.
Richard la sta guardando – i piani del suo viso, la trama della sua pelle, il modo in cui indossa il passare del tempo – sembra tutto più morbido, più caloroso di come si ricordava.
A. M. Homes
La gente dovrebbe prestare più attenzione. Tutti vogliono attenzione, ma nessuno è disposto a darne.
Era poi così sciocco pensare che persino quando ogni cosa cade a pezzi, in fondo è una fortuna?
Da chi ha avuto Sylvia? Le persone si prendono da altre persone, ma chi è stato a dargli Sylvia?
“Non piangere,” dice lui. “Non ne vale la pena.” Esce dalla stanza portandosi dietro il telefono. “Sono solo soldi.”
I due figli sono seduti dietro con l’aria perplessa. Hanno quell’età strana in cui si è troppo grandi per essere bambini e troppo piccoli per essere adolescenti.
“È bello,” dice lei. “C’è odore di vernice fresca.”
L’odore gli dilata l’interno del cervello, un incrocio fra essere fumato e avere il mal di testa.
“Mi è piaciuto. È stato prezioso, mi sono sentito messo alla prova come non succedeva da anni – tranne che adesso mi sembra tutto strano, scombinato. Non sono chi credevo di essere.”
“Nessuno di noi lo è.”
“È molto simpatico tuo padre,” dice Richard quando sono di nuovo fuori.
“Non è mio padre. Vengo a trovarlo perché non posso andare a trovare mio padre.”
“È morto?”
C’è una pausa. “Certe volte non riesci a fare le cose per le persone per cui dovresti, incluso te stesso, però le puoi fare per qualcun altro, uno sconosciuto. Fred è uno sconosciuto. Il mio sconosciuto.”
Viviamo in un’epoca in cui nessuno vuole ricordare. Fingiamo di essere sempre all’inizio.
L’importante non è quello che dici ma quello che fai.
Qualsiasi malessere sentisse poco prima, viene sostituito da un leggero stato di euforia, una carica positiva, la sensazione di essere sopravvissuto a qualcosa.
C’è grande conforto nei rituali quotidiani.
Richard la sta guardando – i piani del suo viso, la trama della sua pelle, il modo in cui indossa il passare del tempo – sembra tutto più morbido, più caloroso di come si ricordava.
A. M. Homes
venerdì 11 gennaio 2013
Jorge Regula
My name is Jorge Regula.
I'm walkin' down the street.
I love you.
Let's go to the beach.
Let's go sailing.
Let's get a bite to eat.
Let's talk about movies.
Let's go to sleep.
I wake up in the morning.
Put on my yellow shirt.
I get a bite to eat.
I go to work.
I'm the A/V guy.
I'm the AFNY guy.
I'm the piano guy.
Let's go to sleep.
I wrote a new song.
It has a good beat.
Let's talk about movies.
Let's get a bite to eat.
My name is Jorge Regula.
I'm walkin' down the street.
I love you.
Let's go to sleep.
Performed by The Moldy Peaches
I'm walkin' down the street.
I love you.
Let's go to the beach.
Let's go sailing.
Let's get a bite to eat.
Let's talk about movies.
Let's go to sleep.
I wake up in the morning.
Put on my yellow shirt.
I get a bite to eat.
I go to work.
I'm the A/V guy.
I'm the AFNY guy.
I'm the piano guy.
Let's go to sleep.
I wrote a new song.
It has a good beat.
Let's talk about movies.
Let's get a bite to eat.
My name is Jorge Regula.
I'm walkin' down the street.
I love you.
Let's go to sleep.
Performed by The Moldy Peaches
giovedì 10 gennaio 2013
Alla televisione
Alla televisione passano film di fantascienza, fatti di viaggi insterstellari e pianeti straordinari. Sembrano le meraviglie di quando ci baciamo o anche solo ci sfioriamo.
mercoledì 9 gennaio 2013
Lo Hobbit: Un viaggio inaspettato
Questo primo capitolo della nuova trilogia basata sul mondo di JRR Tolkien e targata dopo molte vicissitudini dal solito Peter Jackson, soffre di un piccolo dettaglio (non tecnico né di storia) che entra dentro la testa dello spettatore che conosce l’opera dello scrittore inglese e si ostina a suggerire una natura puramente economica di tutto quanto il progetto. Se è vero che Il signore degli Anelli si prestava benissimo a una trasposizione in tre pellicole, anzi sarebbe stato troppo riduttivo portarlo al cinema in un solo film tagliato e potato da molte molte storie, visto che la stessa storia letteraria era basata su tre distinti libri, Lo Hobbit necessitava davvero di essere suddiviso in tre parti? Il libro di per sé è molto meno epico de Il signore degli Anelli e anche nella storia e nella prosa si può capire bene che era rivolto a un pubblico assai diverso e più piccolo. Quindi: perché tre film anziché uno, come lo era il libro? Al massimo magari due, ma perché tre? Il rischio è di vedere allungati i tre film per ragioni puramente di mercato, una specie di annacquamento del brodo per vendere più biglietti e cercare di lucrare il più possibile con un materiale originale che inevitabilmente andrebbe a esaurirsi.
Il rischio c’era, ma a dire la verità a parte l’introduzione nella quale si vede il vecchio Bilbo di Ian Holm e il giovane Frodo pre viaggio verso monte Fato di Elijah Wood, parte che sembra effettivamente stiracchiata fino al limite per occupare più spazio possibile, il film scorre bene e intrattiene come era suo compito fare. Viene narrata la storia dei nani, del drago Smaug, e si capisce così il senso del viaggio. Complice anche una lontana lettura del libro (e per questo non posso dire con esattezza quali siano le libertà che si sono concessi in fase di stesura della sceneggiatura) Lo Hobbit: un viaggio inaspettato arriva alla fine, dopo le due ore e passa di proiezione e si lascia alle spalle il solo momento non tanto riuscito (la parte iniziale appunto) riuscendo a collegarsi, sia per atmosfere e paesaggi sia per alcuni accenni di storia, in modo molto omogeneo alla trilogia dell’anello. Non era facile farlo, ma a quanto pare Jackson si trova proprio a suo agio nella terra di mezzo. Adesso rimane solo da vedere come verrà portata avanti la storia e come siano riusciti gli sceneggiatori (Jackson e le fidate Fran Walsh e Philippa Boyens, più l'intruso Guillermo del Toro) a tirarne fuori senza sbavature altri due interi film (e pensare che di questo primo capitolo si parla già di una extended version in home video).
Il rischio c’era, ma a dire la verità a parte l’introduzione nella quale si vede il vecchio Bilbo di Ian Holm e il giovane Frodo pre viaggio verso monte Fato di Elijah Wood, parte che sembra effettivamente stiracchiata fino al limite per occupare più spazio possibile, il film scorre bene e intrattiene come era suo compito fare. Viene narrata la storia dei nani, del drago Smaug, e si capisce così il senso del viaggio. Complice anche una lontana lettura del libro (e per questo non posso dire con esattezza quali siano le libertà che si sono concessi in fase di stesura della sceneggiatura) Lo Hobbit: un viaggio inaspettato arriva alla fine, dopo le due ore e passa di proiezione e si lascia alle spalle il solo momento non tanto riuscito (la parte iniziale appunto) riuscendo a collegarsi, sia per atmosfere e paesaggi sia per alcuni accenni di storia, in modo molto omogeneo alla trilogia dell’anello. Non era facile farlo, ma a quanto pare Jackson si trova proprio a suo agio nella terra di mezzo. Adesso rimane solo da vedere come verrà portata avanti la storia e come siano riusciti gli sceneggiatori (Jackson e le fidate Fran Walsh e Philippa Boyens, più l'intruso Guillermo del Toro) a tirarne fuori senza sbavature altri due interi film (e pensare che di questo primo capitolo si parla già di una extended version in home video).
martedì 8 gennaio 2013
mercoledì 2 gennaio 2013
... e ora parliamo di Kevin
Visto poco dopo la strage di Newtown assume uno strano sapore che non riesci a toglierti dalla bocca, nonostante qui non si parli di pistole e del loro folle proliferare. Il film inizia dando l’impressione di trattare un argomento tanto delicato quanto importante, ovvero l’amore tra un genitore e il proprio figlio, quello che dovrebbe essere incondizionato da parte della madre verso il figlio: cosa succede quando questo non avviene? Quando invece di amore nel petto della donna (qui una distaccata Tilda Swinton nella prima parte e paranoica [ma mica tanto] nella seconda) c’è diffidenza se non un sentimento molto simile all’odio?
La pellicola si sviluppa su una specie di segreto di pulcinella, quando alterna il montaggio tra presente solitario e passato in famiglia della protagonista, nascondendo e a tratti suggerendo un tragico evento. Fino ad arrivare all’adolescenza del figlio, passando da tutta una serie di dispetti e ripicche tra prole e madre, e la fiducia cieca, a volte pure incomprensibile, da parte del padre. Un disastro che poteva essere evitato, guardando tutti i fatti in modo distaccato, come se non fosse il proprio figlio a essere oggetto di questo sguardo.
Un film che fa male a guardarlo, non tanto per le scene violente (che non ci sono) ma nel capirlo. Ci si affonda dentro come in un bicchiere d’acqua, annaspando in silenzio senza fare rumore, e lì si rimane, nel fondo, a cerare di togliersi dalla testa questa storia. Dopo i libri che le madri non devono leggere, i film che le madri non devono vedere.
La pellicola si sviluppa su una specie di segreto di pulcinella, quando alterna il montaggio tra presente solitario e passato in famiglia della protagonista, nascondendo e a tratti suggerendo un tragico evento. Fino ad arrivare all’adolescenza del figlio, passando da tutta una serie di dispetti e ripicche tra prole e madre, e la fiducia cieca, a volte pure incomprensibile, da parte del padre. Un disastro che poteva essere evitato, guardando tutti i fatti in modo distaccato, come se non fosse il proprio figlio a essere oggetto di questo sguardo.
Un film che fa male a guardarlo, non tanto per le scene violente (che non ci sono) ma nel capirlo. Ci si affonda dentro come in un bicchiere d’acqua, annaspando in silenzio senza fare rumore, e lì si rimane, nel fondo, a cerare di togliersi dalla testa questa storia. Dopo i libri che le madri non devono leggere, i film che le madri non devono vedere.
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