lunedì 21 gennaio 2013
Il tennis come esperienza religiosa
Le pubblicità sulla metropolitana sfruttano il fatto che le corse presentano sia un mucchio di tempo mentale passivo sia il problema di dove posare lo sguardo – i finestrini sono per lo più troppo scuri e guardare gli altri in modo diretto in metropolitana è un gesto che chi viene guardato può interpretare in vari modi, alcuni fastidiosi e perfino rischiosi – e la pubblicità sopra i finestrini sono un punto neutro dove dirottare e posare lo sguardo, perciò di solito godono di grande attenzione.
(Il sex-simbolismo di Agassi è un fenomeno profondamente misterioso per la maggior parte dei maschi di mia conoscenza perché abbiamo tutti ben presente che Agassi in realtà è un piccoletto con la faccia schiacciata e la testa dalla strana forma [messa ancora più in risalto dal taglio a spazzola] che cammina strusciando un po’ i piedi e buttandoli in dietro come uno scolaretto con le mutande incastrate in mezzo alle chiappe: e non riusciamo proprio a capacitarci del fascino e della presa che Agassi esercita sulle donne).
Convergono nel Queens NE tramite le autostrade Van Wyck, Long Island e Whitestone, tramite l’Interborough, la Grand Central Parkway, il Crosso Bay Boulevard, portandosi dietro quattrini in quantità e qualunque santino aiuti a trovare parcheggio.
Sono tante le cose brutte di avere un corpo. È talmente vero che non ci sarebbe bisogno di esempi, ma citiamo solo brevemente il dolore, le ferite, i cattivi odori, la nausea, la vecchiaia, la gravità, la sepsi, la goffaggine, la malattia, i limiti – ogni singolo scisma tra i nostri desideri fisici e le nostre reali capacità. Qualcuno dubita che ci serva aiuto per riconciliarci? Che ne abbiamo un disperato bisogno? È il corpo che muore, in fin dei conti.
Certo, avere un corpo ha anche aspetti magnifici – è solo che coglierli e apprezzarli in tempo reale è molto più difficile. Al pari di certe rare epifanie parossistiche dei sensi (“Come sono contento di avere gli occhi per vedere questo tramonto!” eccetera) i grandi atleti sembrano catalizzare la nostra consapevolezza di quanto sia meraviglioso toccare e percepire, muoversi nello spazio, interagire con la materia. Vero è che gli atleti sanno fare con il corpo cose che il resto di noi può solo sognarsi. Ma sono sogni importanti: compensano molte cose.
Come Ali, Jordan, Maradona e Gretzky, pare allo stesso tempo più e meno concreto dei suoi avversari. Specie nel completo tutto bianco che Wimbledon ancora si diverte impunemente a imporre, sembra quello che (secondo me) potrebbe benissimo essere: una creatura con il corpo fatto sia di carne sia, in un certo senso, di luce.
Immaginate di essere una persona dotata di riflessi, coordinazione e velocità preternaturali e di giocare un tennis ad alto livello. Giocando non vi sembrerà di possedere riflessi e velocità fenomenali; semmai vi sembrerà che la palla da tennis sia piuttosto grossa e rallentata, e che possiate colpirla con tutta calma. Vale a dire che non vi accorgerete affatto della rapidità e della maestria (empiricamente reali) che il pubblico, guardando dal vivo le palle da tennis andare così veloci da sibilare e sfocarsi, vi attribuirà.
È interessante perché questa settimana, in effetti, Ancic [virgola Mario, lo spilungone croato della Top 10 che Federer ha battuto ai quarti di finale di mercoledì] ha giocato sullo Stadio Centrale contro il mio amico, capito, lo svizzero Wawrinka [virgola Stanislas, compagno di squadra di Federer nella Coppa Davis] e sono andato a guardarli dal posto dove si siede sempre la mia fidanzata, capito, Mirka [Vavrinec, ex giocatrice nella Top 100 femminile, messa fuori combattimento da un infortunio, che ora è fondamentalmente la Alice B. Toklas di Federer] e sono andato a vedere… per la prima volta da quando sono a Wimbledon, sono andato a vedere una partita sullo Stadio Centrale, e mi ha sorpreso, in effetti, capito, quant’è veloce il servizio e quanto devi essere veloce tu per riuscire a prenderlo, specie se al servizio c’è uno come Mario [Ancic, famoso per il servizio assassino] capito? Poi però, quando in campo ci sei tu è tutto diverso, capito, perché quello che vedi è la palla, non quanto va veloce…
L’allenamento richiesto è tanto muscolare quanto neurologico. Esercitarsi in migliaia di tiri, giorno dopo giorno, sviluppa la capacità di fare con la “percezione” quello che non può essere fatto con il nomarle pensiero consapevole. Un esercizio ripetitivo che spesso il profano considera noioso e perfino crudele, ma il profano non può percepire quello che succede dentro il giocatore: aggiustamenti minuscoli, incessanti, e un senso degli effetti di ogni singolo cambiamento che si acuisce al progressivo allontanarsi dalla normale consapevolezza.
L’allenamento è importante, ma soprattutto perché la prima cosa che la fatica fisica aggredisce è il senso cinestetico. (Altri antagonisti sono la paura, l’insicurezza e l’eccesso di agitazione: ecco perché una psiche fragile è una rarità nel tennis professionistico).
Il genio non è riproducibile. L’ispirazione, però, è contagiosa, e multiforme, e anche soltanto vedere, da vicino, la potenza e l’aggressività rese vulnerabili dalla bellezza significa sentirsi ispirati e (in un modo fugace, mortale) riconciliati.
David Foster Wallace
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