L’atmosfera è densa. Fuori è freddo mentre dentro, in uno spazio ristretto, è caldo di quel caldo fatto dai respiri di altre persone e dai loro corpi coperti da cappotti pesanti e maglie e sciarpe e guanti. Non c’è spazio per la pelle libera, la sola che si vede è nella faccia, o nelle gambe delle ragazze che indossano una gonna, ma anche in questo caso è solo un’impressione velata dalle calze spesso scure, e gli stivali alti, giacche di pelle, acconciature strane dai colori sgargianti e a volte metallizzati.
Lo scenario è il tipico dipinto che si potrebbe pensare di disegnare guardando a un altrettanto tipico e ipotetico locale indipendente. Ipotetico, e: si potrebbe pensare. Da queste parti non ci sono molti locali del genere, non di quelli che si potrebbe immaginare come tali, appunto. La prerogativa viene lasciata alle grandi città, dove da qui si possono sognare luoghi in cui la musica risuona con più liberta e soprattutto con più continua regolarità. Qui non siamo in una metropoli, siamo nella zona industriale di una città che nasce come periferia di una grande città piccola. Prato è l’estensione dell’urbanizzazione di Firenze, e Firenze, se paragonata a Roma o Milano, arrossisce per l’imbarazzo.
La gente fa la spola da fuori a dentro, al bancone del bar e di nuovo fuori: prendere qualcosa da bere, fumare una sigaretta; aspettare. L’inizio si lascia attendere, l’apertura delle danze si annacqua in discorsi tra le persone accorse al concerto, chiacchiere ancora ricche degli strascichi che il capodanno si è lasciato alle spalle. È tempo utile per raccontarsi cose accadute una manciata di giorni prima, quando ancora era un anno fa, e i buoni propositi sembravano davvero buoni e possibili nella loro possibile realizzazione. Dello stesso avviso sembra essere Serena, che si aggira tra il pubblico salutando amici e conoscenti, fermandosi a scambiare quattro parole prima di mettersi a cantare sul palco, abbandonando la giacca pesante e anche un atteggiamento talmente naturala da lasciare pensare che tra un saluto e l’altro, tra un ciao, un come stai, è da tanto che non ci vediamo, come va come non va, i prossimi a beneficiare delle sue parole e del suo sorriso saremmo proprio noi, come se magicamente, nel sogno di qualsiasi fan, lei si ricordasse delle nostre facce tra tutte le miriadi di facce viste in chissà quanti altri concerti oltre a quelli a cui abbiamo assistito noi.
Noi siamo seduti su una porzione di gradinata larga abbastanza da contenere non più di quattro culi normalmente larghi. Ci sono tre scalini e noi siamo seduti su quello più alto, senza per questo guardare la gente dall’alto in basso, anzi: siamo proprio all’altezza degli occhi di chi ci cammina davanti, sulla pista, e anche Serena ci passa di fronte un paio di volte, tra una passeggiata e l’altra, e siamo proprio lì, a un soffio da lei, non può non vederci, non può non notare quegli occhi appollaiati come su di un ramo che la osservano passare con la stessa espressione di chi costudisce il segreto non troppo segreto di sapere chi essa sia. Ovviamente non ci viene a salutare e anche se quando salirà sul palco sembrerà lanciarci delle strane occhiate indirizzate proprio a noi e a nessun altro, sapremo bene distinguere l’illusione sognatrice di essere il suo punto unico di concentrazione, nel cantare e nel recitare con la sua voce a tratti potente e a tratti delicata, urlante nella nuova linea che il gruppo ha intrapreso, dalla realtà fisica di trovarsi più o meno nel centro esatto dell’orizzonte del palco, e che il suo cono visivo, quando guarda verso il pubblico, da dove si trova lei sul palco, potrebbe abbracciare qualsiasi persona presente nel locale e fargli provare la stessa identica sensazione di importanza e vicinanza (emotiva).
Prima di tutto ciò c’è spazio per una band emergente che inizia a suonare verso le undici, l’orario perfetto per permettere a tutti di scolarsi una birra e un cocktail a scelta. Si chiamano Sneers, un duo chitarra/voce batteria che è una specie di White Stripes invertiti, con lui seduto dietro ai tamburi e lei in piedi, di lato al microfono e il più delle volte leggermente ingobbita su di esso, i capelli lisci e lunghi di un castano chiaro tendente al biondo sporco a nasconderle il volto, intenta a cantare i testi delle loro canzoni. Diversamente da quanto si potrebbe pensare, non sono di Prato e neppure dei dintorni. I due vengono da Berlino, e non è ben chiaro se abbiano macinato chilometri su chilometri appositamente per venire a suonare a questo specifico concerto o se abbiano un qualche tipo di accordo con i Blue Willa per aprire tutti i loro spettacoli. È un mistero non abbastanza stuzzicante da richiederne in modo assiduo la soluzione, tanto più che il gruppo non lascia un’impressione così profonda da radicarsi nella mente e nei cuori degli spettatori. Il loro stile è rumoroso, rabbioso, chiassoso, con le parole che vengono urlate con tono basso tanto da non far capire se lei, la cantante, stia appunto cantando in inglese o in tedesco. Appartengono a una scena che molto probabilmente non appartiene a noi italiani, o almeno non appartiene a chi è intervenuto qui stasera, visto che nessuno pare prestar loro troppa attenzione. È un antipasto sonoro del concerto vero e proprio, e non è colpa loro né del pubblico se la loro esibizione passa così in secondo piano da sembrare un riempitivo della serata. È molto improbabile che qualcuno sia venuto in questo locale, questa precisa sera, per vedere e ascoltare loro.
L’interesse di chiunque è tutto rivolto verso questi nuovi Blue Willa, evoluzione dei vecchi Baby Blue, che stanno per esordire con un album tutto nuovo prodotto Carla Bozulich. Complice anche l’effetto megafono ottenuto da una buona campagna pubblicitaria fatta dalla critica di settore, tutti sembrano essere incuriositi da questo nuovo vecchio gruppo e dalla virata post punk, o new punk, o comunque più hard del rock precedentemente suonato, con la quale il quartetto ha deciso di darsi alle stampe.
Ed ecco che quindi il concerto è compresso e riassumibile dentro un’unica canzone, nella quale Serena pare guardarmi con più insistenza e durante la quale io devo ripetermi più e più volte di non lasciarmi trasportare troppo dai suoni e dalle sensazioni che ne nascono, dentro di me e fuori da me, di non farmi illudere dalla mia mente del mio punto di vista, costringendomi a mettermi al suo posto, al posto di Serena, e di guardarmi dal suo punto di vista. Devo fare uno sforzo sovrumano per tentare di rendermi immune dalla magia che la musica può fare, e dare, e regalare, a chi ha ancora voglia di emozionarsi per sei o quattro corde pizzicate per produrre un suono. E infatti non ci riesco. Finisco per lasciarmi sommergere del tutto dal rumore (ai Blue Willa piace fare rumore, ma un rumore, state attenti, non confuso ma organizzato) disseminato nell’aria in forme geometriche concentriche, una dentro l’altra, ad allargarsi fino a raggiungerti e ad accerchiarti, ovvero: farti sentire in mezzo alla canzone.
Per tutta la durata sono ipnotizzato dalle sue mani, le mani di Serena, che si muovono una sopra l’altra, come se fossero una medusa nell’acqua, al ritmo di un noise musicale che tutto il gruppo costruisce attorno alla voce della loro cantante, con chitarra basso e batteria a racchiudersi a cupola sulla piccola figura della propria front woman come per accudirla. Quando si chiudono, le mani, di scatto, all’improvviso, ho come un crampo allo stomaco, o al cuore, o una via di mezzo: un crampo al cuore sarebbe troppo, ma allo stesso tempo un crampo allo stomaco sarebbe troppo poco. Ecco, questo.
Nessun commento:
Posta un commento