Lei ha le dita gonfie. Lo si capisce dal modo in cui non muove le mani. Le lascia appoggiate sul tavolo, spostandole solo di poco ogni tanto per prendere il bicchiere e portarselo alla bocca, bere un breve sorso di caffè lungo americano, arroventato. Di solito gioca con gli anelli, cambiandogli posizione, da un dito all’altro, per mascherare nervosismo o altro; ma ora non lo fa, non può.
Lui non riesce quasi a guardarla, abbassa sempre gli occhi. Sposta la testa come farebbe un cavallo che cerca di ottenere una carezza, puntando lo sguardo verso il basso, quasi volesse superare il tavolino e fissare il pavimento.
A separarli, come un muro invisibile in mezzo a loro, c’è quell’aria che si può respirare un attimo prima dell’esplosione di una bomba. Entrambi sanno bene cosa accadrà quando ci sarà la deflagrazione, e non saranno urla né liti o ferite; sarà uno scoppio buono, se non di amore di qualcosa che gli va molto vicino. Nonostante questo nessuno ha il coraggio di accendere la miccia, di iniziare a parlare, di toccarsi, o anche solo guardare una parte del corpo dell’altro o dell’altra.
Nella caffetteria non c’è molta gente. È ancora presto, le otto del mattino. La gente si sta svegliando in quel momento, nelle proprie case. La domenica mattina e il suo ritmo lento soffocato nel riposo. Solo loro sono già pronti: alzati, svegli, lavati, pettinati. Si sono trovati per strada, mentre giocavano con i propri cellulari, come se non avessero fissato di vedersi. Si sono detti: ciao. Uno ciascuno, lui a lei, lei a lui, quasi in contemporanea.
Sono entrati nel locale uno dietro l’altra, dirigendosi sicuri verso il bancone sapendo già cosa ordinare. Hanno chiesto due caffè normali, senza aggiunte, lunghi e neri. Lui ha preso pure un sandwich da mettere in mezzo al tavolo, come una specie di agnello sacrificale da smangiucchiare un po’ ciascuno. Nessuno dei due però ha fame.
Hanno aspettato che i loro caffè fossero pronti, dopodiché hanno preso posto non molto lontano dall’ingresso. Si sono seduti uno di fronte all’altra, in silenzio, e hanno aspettato che il caffè freddasse un poco. Le ustioni, all’interno della bocca, fanno più male di quanto non si pensi. E liquido caldo a scendere giù lungo l’esofago, sembra lava incandescente.
Poi è entrata una nuova persona, facendo tintinnare un campanello messo in equilibrio sopra la porta. Loro si sono voltati a guardarla, giusto per curiosità o riflesso, non per altro. Non aspettavano nessuno.
Volevo dirti, ha iniziato lui mentre voltava la testa di nuovo verso di lei.
Lei si è sporta sul tavolo verso di lui e senza lasciarlo finire lo ha baciato con fermezza sulla bocca.
Lei aveva gli occhi chiusi. Lui invece, colto di sorpresa, all’inizio li aveva ancora aperti. Ha avuto il tempo di contare, senza rendersene conto, quante persone fossero presenti nella caffetteria: sei, oltre a loro, più tre del personale.
Quanta gente innocente, in mezzo a un attentato premeditato con una bomba.
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