Quando arriviamo al Tender, che non si trova in zona
stazione come ci avevano detto bensì è esattamente a lato della stazione di
Santa Maria Novella, da fuori si sente già qualcuno suonare. Sul palco c’è
Caroline Keating, ovvero: musica per pianoforte e violino. Poco importa se sul
palco non c’è un imponente pianoforte a coda (non ci sarebbe lo spazio fisico
necessario a ospitare uno strumento così ingombrante), la musica ci rapisce all’istante
con le sue note vellutate e per niente aggressive. Al piano c’è questa ragazza dai capelli rossi
e la carnagione chiara, occhi vivaci sempre a suggerire un sorriso in rampa di
lancio; è accompagnata da un ragazzo asiatico dal fisico asciutto (tale Sebastian
Chow degli Island, scopriremo poi), maglia aderente rossa con un profondo
scollo a V e capelli ordinatamente pettinati da una parte. In due mettono in
piedi uno spettacolo intimo e variegato che, a dispetto della poca strumentazione
in scena, riesce a suonare sempre brillante, con canzoni di volta in volta mai uguali
a se stesse, vibrando ognuna di una particolare ritmica che ne contraddistingue
l’impronta sonora. Un’impronta sonora che si imprime dentro la testa come l’orma
di un passo sulla neve: magari non sarà qualcosa di permanente, un segno
destinato a durare per l’eternità all’interno della tua memoria, ma riuscirà lo
stesso a regalare quel senso di fascinazione e piacere leggero del rumore che
il tuo passo si lascia dietro sulla neve, e l’impronta, subito coperta da altra
neve che cade giù dal cielo, quel fruscio dal vago sapore frivolo ma che ti fa
socchiudere gli occhi e bearti per un attimo, sia questo pure effimero quanto
basta, di un sorriso sincero.
L’acustica del Tender in questo caso è perfetta. Accoglie
ogni singola nota nel suo ristretto spazio e la ripone con cura su chi si è
accalcato al suo interno, sedendosi per terra o appoggiandosi alle pareti. È la
musica ideale per una giornata uggiosa piena di pioggia, con la sera e la notte
così sprofondate nel loro stringersi fino a diventare una cosa sola, senza
farti rendere conto del passaggio dall’una all’altra. Sarebbero necessarie
delle sedie sulle quali sedersi, e dei tavolini su cui appoggiare un bicchiere
di whiskey da sorseggiare di tanto in tanto, magari tra un applauso e l’altro,
mentre si guarda questo duo esibirsi educatamente sul palco a un metro di
distanza: una specie di tributo a loro, per farli sentire più a casa, o farci
sentire noi più in Canada.
Purtroppo l’acustica non risponde altrettanto bene quando
sul palco salgono i Thegiornalisti, quartetto romano per i quali ci siamo presi
la briga di scoprire dove si trovasse il Tender. Sarà per il numero maggiore di
strumenti on stage, sarà per le sonorità più aggressive, sarà per il fatto che
siamo letteralmente a due passi dall’impianto di amplificazione, in bocca al
cantante, ma a tratti è davvero difficile distinguere il suono delle chitarre
da quello del basso e della batteria, per non parlare della voce del cantante. Il
gruppo però non si scompone e mette in scena un concerto dove alterna canzoni
del primo e del secondo lavoro, proponendole al pubblico arrangiate un po’ più combattive
di quanto non fossero su disco. Laddove la batteria era solo appena accennata, dal
vivo acquista un maggiore spessore che contribuisce al ritmo più marcato dell’esibizione.
Se ascoltandole a casa, o in auto, o nell’ipod mentre si corre, o dove diavolo
volete voi, le canzoni dei Thegiornalisti ti mettevano voglia di canticchiarle
tra te e te tanto da strapparti quasi i versi di bocca, in concerto le stesse
canzoni ti prendono dentro e, oltre a canticchiarle, ti incitano al ballo,
scuotendoti da dentro. Entrano dalle orecchie e scendono lungo il collo fino a
metà schiena, a quel punto ti afferrano la colonna vertebrale e ti muovono come
una bambola.
Ad aiutare la musica ci pensa anche la fisicità bislacca del
cantante e frontman del gruppo, che si agita davanti al microfono come un
ossesso, mantenendo una postura ricurva all’indietro che manderebbe nei pazzi
qualsiasi pedagogo di vecchio stampo, come se volesse cantare e al contempo
partecipare a una gara di limbo.
Visivamente i Thegiornalisti si presentano al proprio
pubblico come se fossero l’incarnazione umana di un grafico sull’andamento
della moda degli anni ’80, quando in realtà sono dei giovani ragazzi italiani
che si divertono con la musica e riescono a conferire alle loro canzoni un
misto di magia/romanticismo/umorismo/significato profondo che ultimamente in
pochi nel panorama italiano sono in grado di miscelare con così tanta cura. È di
questa opinione pure Federico Fiumani che durante il bis di rito accompagna il
gruppo sulla conclusiva “Cose in disuso”, cantando con il solito aplomb di pura
sincerità nello sviscerare il suo ruolo di rocker e mentore di un’intera
generazione di musicisti: un po’ impacciato di fronte al microfono, alle prese
con un testo non suo e imparato in fretta e furia, del quale conserva in mano la
trascrizione da leggere senza troppo nascondersi quando ha dei dubbi su quale
verso venga dopo una determinata parola.
Finisce così, con le parole di Federico rivolte al pubblico
a esaltare il gruppo di Roma – e con il gruppo di Roma che si ferma per un
attimo a inchinarsi di fronte alla persona che a Firenze viene subito dopo
Giotto – un concerto che in canna avrebbe ancora un’altra canzone. Tutti quanti
sembrano però già felici, già appagati, così tanto che anche i Thegiornalisti
ringraziano Federico, il pubblico, il Tender, e fanno per smontare. Quando si
ricordano di avere in scaletta un ultimo pezzo, ormai è tardi, il deejay ha già
iniziato a suonare e non rimane far altro che uscire ridendo: loro per la
piccola gaffe, noi per la splendida serata.
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