Performed by Grand Duchy
venerdì 27 febbraio 2009
giovedì 26 febbraio 2009
Assentia
E' il silenzio più lungo, o l'assenza più grande, da quando ti conosco.
E l'astinenza è una brutta bestia, anche se in gabbia e con i denti smussati.
E l'astinenza è una brutta bestia, anche se in gabbia e con i denti smussati.
mercoledì 25 febbraio 2009
Il ricordo di quella Estate
La camera era piccola e disordinata, per quel poco che ricordo, solo accennata, non fosse per il letto e le lenzuola sfatte, color nocciola sopra il bianco di quella appiccicosa estate. Lui mi aprì con addosso un paio di bermuda chiari, di lino, scesi lungo le gambe fin sotto il ginocchio, lasciando intravedere dall'elastico un paio di mutande verdi, di un verde che faceva quasi male agli occhi. Per questo distolsi lo sguardo, subito, neppure qualcosa mi avesse punto, spingendomi così a guardarlo in faccia.
Aveva l'aria di chi fa finta di essersi appena svegliato, di chi fino ad allora era steso a sonnicchiare sul letto, con le palpebre serrate contro la luce immensa che passava attraverso la finestra; ma sotto gli strati di pelle che cercava di nascondere intravidi una leggera sabbia dorata, appoggiata a pennellate giusto ai bordi delle tempie. Non riuscii a non pensare al fatto che di lì a qualche anno, quando entrembi ci saremmo dimenticati l'uno dell'altro (soltanto ora mi rendo conto che solo lui e nessun altro, già allora, aveva la capacità di cancellarsi così facilmente), proprio in quel punto sarebbero comparse le sue rughe. Magari le noterà la prima volta in bagno, mentre si farà la barba, e guardandosi allo specchio si renderà conto di iniziare a crollare; anche se avvicinandosi con le dita cercherà di stirare gli occhi alla cinese, di allungare la pelle fino all'inverosimile.
Ma quel giorno, dopo aver bussato contro la sua porta, stringendo l'aria dentro il pugno destro e sussurrandomi che non sarebbe venuto ad aprire, e prengondo invece nel frattempo che lo faccesse, quella sottile brina d'oro mi sembra abbia lo stesso colore di cui si colora la felicità; e non una felicità qualsiasi, ma quella inaspettata.
Non so cosa ci trovassi in lui. Non era affatto il mio tipo. Era proprio quello che negli inverni ripetevo non essere il tipo di nessuno, se non di se stesso. Aveva la faccia troppo quadrata, i capelli quasi finti, e soprattutto l'aria strafottente e sicura, quella proprietà indigesta che in altri casi non riesco a sopportare. Ma quando giù, ai bordi della piscina, dentro l'acqua, sotto il sole straniero e caldo, non lo trovavo appresso alle sue solite ragazze, quelle tinte di ambrata lucentezza, non ebbi più avuto il coraggio di deglutire. I pori della pelle si dilatarono in sudori e pozzi e caverne con orsi scuri: tutti insieme, tutti all'istante, espandendomi di centimetri su centimetri. Andai in portineria, in preda ad un'asma che non ho mai avuto e che penso invece fosse asma anche non avendola mai vissuta. Un tizio più vecchio di me, ma non di molto, mi dette il suo numero di camera, e le indicazioni necessarie per arrivarci.
Da lui, una volta entrato, ripresi a respirare normalmente, senza i battiti affrettati e i globuli rossi scarichi. Mi sentitii di nuovo normale, ancora umano, dopo quegli scalini così ripidi che mi avevano reso un alieno instabile all'atmosfera terrestre.
Dandogli le spalle mi sedetti immediatamente ad un angolo del letto, mentre lui guardando appena fuori nel corridoio e ritirando la testa chiuse la porta. A chiave. Due mandate.
Io lo guardavo senza parlare, e la cosa mi sembrava strana, perchè la sera prima avevamo tirato la notte a chiacchierare, mescolando un suo italiano accettabile al mio deprecabile spagnolo, discutendo di tutto quanto fosse sceso in terra fino a quel momento, dal rinascimento alle larve degli insetti; dallo sbocciare di farfalle alla Sagrada Familia, e le guerre sante, i circoli arci emiliani, i pub irlandesi con la musica dal vivo, e i pub irlandesi senza musica dal vivo ma con tanta tanta birra. La sera prima era stato così naturale, limpido come l'acqua che zampilla fuori da una fonte di montagna; facemmo pure quel tanto di casino, spingendo la testata del letto contro la parete, contro le stanze e le camere accanto, quando iniziammo a baciarci, stesi sugli stessi lenzuoli sfatti e appiccicati, che il buon padre di famiglia tuo vicino alle tre e mezzo del mattino prese a bussare contro il muro. E allora ci mettemmo a ridere, l'uno contro il petto dell'altro, rotolandoci fino a cadere sul pavimento.
E' stato in quel momento che mi sono sentito così biondo, con una cascata di capelli che mi scendavano fin sopra il culo.
"Lo sai che ti ho sognato, stanotte, quando sei andato via?" Si. Esatto. Disse proprio così. Me ne Andai la sera prima perchè non volevo dormirgli abbracciato, non volevo che risvegliandosi mi vedesse, o sentisse il mio alito tremendo. Preferii tornare in camera mia, tenere le distanze, anche solo per poco, mi dissi: anche solo per poco, giusto il tempo di lavarsi i denti, pettinarsi e lavarsi via quella patina di sonno che ogni mattina mi ritrovo sulla faccia.
Ma poi non ha aspettato che io gli rispondessi. Forse avevo capito male io, oppure avevo aspettato troppo prima di parlargli, ma non era una domanda, la sua.
"Fra quando te ne vai?" Questa era una vera domanda.
Mi irrigidii all'istante. La spina dorsale si fece di pietra.
"Venerdì." Risposi.
"Tra due giorni."
"Si."
"Forse è meglio non rivedersi." Disse senza degnarmi di uno sguardo.
Volevo alzarmi, andare via. Mettere chilometri tra me e quello strano posto. Tra i giorni e le parole biascicate nei gemiti. Quando lo dicevo io, che era meglio perdersi per le strade deserte della pianura toscana, invece di farsi violentare in stupidi villaggi turistici senza senso.
Lo afferrai per l'elastico dei pantaloni, spingendolo per terra. Gli montai addosso togliendomi i vestiti, e in quel modo facemmo l'amore, sul pavimento, tesi in silenzi rattrappiti, in quello spazio ristretto e congestionato dove di solito si mettono i piedi poco prima di alzarsi.
Aveva l'aria di chi fa finta di essersi appena svegliato, di chi fino ad allora era steso a sonnicchiare sul letto, con le palpebre serrate contro la luce immensa che passava attraverso la finestra; ma sotto gli strati di pelle che cercava di nascondere intravidi una leggera sabbia dorata, appoggiata a pennellate giusto ai bordi delle tempie. Non riuscii a non pensare al fatto che di lì a qualche anno, quando entrembi ci saremmo dimenticati l'uno dell'altro (soltanto ora mi rendo conto che solo lui e nessun altro, già allora, aveva la capacità di cancellarsi così facilmente), proprio in quel punto sarebbero comparse le sue rughe. Magari le noterà la prima volta in bagno, mentre si farà la barba, e guardandosi allo specchio si renderà conto di iniziare a crollare; anche se avvicinandosi con le dita cercherà di stirare gli occhi alla cinese, di allungare la pelle fino all'inverosimile.
Ma quel giorno, dopo aver bussato contro la sua porta, stringendo l'aria dentro il pugno destro e sussurrandomi che non sarebbe venuto ad aprire, e prengondo invece nel frattempo che lo faccesse, quella sottile brina d'oro mi sembra abbia lo stesso colore di cui si colora la felicità; e non una felicità qualsiasi, ma quella inaspettata.
Non so cosa ci trovassi in lui. Non era affatto il mio tipo. Era proprio quello che negli inverni ripetevo non essere il tipo di nessuno, se non di se stesso. Aveva la faccia troppo quadrata, i capelli quasi finti, e soprattutto l'aria strafottente e sicura, quella proprietà indigesta che in altri casi non riesco a sopportare. Ma quando giù, ai bordi della piscina, dentro l'acqua, sotto il sole straniero e caldo, non lo trovavo appresso alle sue solite ragazze, quelle tinte di ambrata lucentezza, non ebbi più avuto il coraggio di deglutire. I pori della pelle si dilatarono in sudori e pozzi e caverne con orsi scuri: tutti insieme, tutti all'istante, espandendomi di centimetri su centimetri. Andai in portineria, in preda ad un'asma che non ho mai avuto e che penso invece fosse asma anche non avendola mai vissuta. Un tizio più vecchio di me, ma non di molto, mi dette il suo numero di camera, e le indicazioni necessarie per arrivarci.
Da lui, una volta entrato, ripresi a respirare normalmente, senza i battiti affrettati e i globuli rossi scarichi. Mi sentitii di nuovo normale, ancora umano, dopo quegli scalini così ripidi che mi avevano reso un alieno instabile all'atmosfera terrestre.
Dandogli le spalle mi sedetti immediatamente ad un angolo del letto, mentre lui guardando appena fuori nel corridoio e ritirando la testa chiuse la porta. A chiave. Due mandate.
Io lo guardavo senza parlare, e la cosa mi sembrava strana, perchè la sera prima avevamo tirato la notte a chiacchierare, mescolando un suo italiano accettabile al mio deprecabile spagnolo, discutendo di tutto quanto fosse sceso in terra fino a quel momento, dal rinascimento alle larve degli insetti; dallo sbocciare di farfalle alla Sagrada Familia, e le guerre sante, i circoli arci emiliani, i pub irlandesi con la musica dal vivo, e i pub irlandesi senza musica dal vivo ma con tanta tanta birra. La sera prima era stato così naturale, limpido come l'acqua che zampilla fuori da una fonte di montagna; facemmo pure quel tanto di casino, spingendo la testata del letto contro la parete, contro le stanze e le camere accanto, quando iniziammo a baciarci, stesi sugli stessi lenzuoli sfatti e appiccicati, che il buon padre di famiglia tuo vicino alle tre e mezzo del mattino prese a bussare contro il muro. E allora ci mettemmo a ridere, l'uno contro il petto dell'altro, rotolandoci fino a cadere sul pavimento.
E' stato in quel momento che mi sono sentito così biondo, con una cascata di capelli che mi scendavano fin sopra il culo.
"Lo sai che ti ho sognato, stanotte, quando sei andato via?" Si. Esatto. Disse proprio così. Me ne Andai la sera prima perchè non volevo dormirgli abbracciato, non volevo che risvegliandosi mi vedesse, o sentisse il mio alito tremendo. Preferii tornare in camera mia, tenere le distanze, anche solo per poco, mi dissi: anche solo per poco, giusto il tempo di lavarsi i denti, pettinarsi e lavarsi via quella patina di sonno che ogni mattina mi ritrovo sulla faccia.
Ma poi non ha aspettato che io gli rispondessi. Forse avevo capito male io, oppure avevo aspettato troppo prima di parlargli, ma non era una domanda, la sua.
"Fra quando te ne vai?" Questa era una vera domanda.
Mi irrigidii all'istante. La spina dorsale si fece di pietra.
"Venerdì." Risposi.
"Tra due giorni."
"Si."
"Forse è meglio non rivedersi." Disse senza degnarmi di uno sguardo.
Volevo alzarmi, andare via. Mettere chilometri tra me e quello strano posto. Tra i giorni e le parole biascicate nei gemiti. Quando lo dicevo io, che era meglio perdersi per le strade deserte della pianura toscana, invece di farsi violentare in stupidi villaggi turistici senza senso.
Lo afferrai per l'elastico dei pantaloni, spingendolo per terra. Gli montai addosso togliendomi i vestiti, e in quel modo facemmo l'amore, sul pavimento, tesi in silenzi rattrappiti, in quello spazio ristretto e congestionato dove di solito si mettono i piedi poco prima di alzarsi.
martedì 24 febbraio 2009
Me ne andrò lasciando una scia d'argento
"Stai rovinando tutto." Lo dici quasi arrabbiata, guardandomi dura, decisa.
Non ho nemmeno il coraggio di risponderti, di prenderti in considerazione. Sorseggio schivo il mio caffè, guardandolo di tanto in tanto oscillare nella tazzina, come se fosse il distillato della vita eterna, una pozione magica per vederti passare e non perdere il mio tempo. Ma alla fine tu non ti muovi, resti ferma. Il brusio di sottofondo passa, la gente intorno a noi si muove lasciando scie fosforescenti e abbaglianti, fino a quando non rimaniamo altro che io e te, soli e chiusi nell'intimità di un attimo.
Allora dò la colpa alle labbra, che attraversano il classico periodo di fisicità finta, tesa in plastica. Mi dico che sono i miei capelli, che non hanno sopportato l'ennesimo viaggio nel tempo, che ne sono usciti sciupati, sottili, sfibrati. Non dovevo arrivare dove sono arrivato, ai tempi dei mecenati, della rovina dei tempi. Avrei dovuto fermarmi con i gitani, accamparmi dove capitava e lasciarmi trascinare in passioni dai capelli lunghi, barba incolta e pelle scura o sporca. Invece mi sono lasciato trasportare e convincere e trascinare e comprare, e forse ora hai davvero ragione tu: sto solo rovinando tutto, e se non tutto almeno un piccolo pezzo di quel niente che ero riuscito a costruire dopo tanto.
Quando alzo la testa mi accorgo con meraviglia che hai la faccia fuori fuoco, appannata. Tutto ad un tratto non so più con chi stia parlando. Sei tu, sempre tu, ma allo stesso tempo sei Marco, sei Sofia, sei Alessio, Franco, Francesco, Chiara. I tuoi profili si confondono, si perdono insieme ai tuoi contorni.
Mentre mi alzo, lasciando dietro di me la tua espressione vaga, sfibrata dal mio vagabondare nelle elucubrazioni, mi rendo conto che devo inventarmi una malattia; o una scatola a forma di cuore, dove poter custodire gelosamente tutti questi sintomi dislessici.
Non ho nemmeno il coraggio di risponderti, di prenderti in considerazione. Sorseggio schivo il mio caffè, guardandolo di tanto in tanto oscillare nella tazzina, come se fosse il distillato della vita eterna, una pozione magica per vederti passare e non perdere il mio tempo. Ma alla fine tu non ti muovi, resti ferma. Il brusio di sottofondo passa, la gente intorno a noi si muove lasciando scie fosforescenti e abbaglianti, fino a quando non rimaniamo altro che io e te, soli e chiusi nell'intimità di un attimo.
Allora dò la colpa alle labbra, che attraversano il classico periodo di fisicità finta, tesa in plastica. Mi dico che sono i miei capelli, che non hanno sopportato l'ennesimo viaggio nel tempo, che ne sono usciti sciupati, sottili, sfibrati. Non dovevo arrivare dove sono arrivato, ai tempi dei mecenati, della rovina dei tempi. Avrei dovuto fermarmi con i gitani, accamparmi dove capitava e lasciarmi trascinare in passioni dai capelli lunghi, barba incolta e pelle scura o sporca. Invece mi sono lasciato trasportare e convincere e trascinare e comprare, e forse ora hai davvero ragione tu: sto solo rovinando tutto, e se non tutto almeno un piccolo pezzo di quel niente che ero riuscito a costruire dopo tanto.
Quando alzo la testa mi accorgo con meraviglia che hai la faccia fuori fuoco, appannata. Tutto ad un tratto non so più con chi stia parlando. Sei tu, sempre tu, ma allo stesso tempo sei Marco, sei Sofia, sei Alessio, Franco, Francesco, Chiara. I tuoi profili si confondono, si perdono insieme ai tuoi contorni.
Mentre mi alzo, lasciando dietro di me la tua espressione vaga, sfibrata dal mio vagabondare nelle elucubrazioni, mi rendo conto che devo inventarmi una malattia; o una scatola a forma di cuore, dove poter custodire gelosamente tutti questi sintomi dislessici.
lunedì 23 febbraio 2009
Greg
E' strano, ma forse non lo è poi così tanto, che proprio in questi giorni chi ha preso il tuo posto stia male.
venerdì 20 febbraio 2009
Carnival
Where in the world have you been
It's as strange as I've ever lived
So you're comin' along to the sideshow
I'll be fallin' all over like dominos
For girls are sad in their eyes
They're all standin' around bein' hypnotised
And walkin' me back to the firin' line
You smile to get in the door
You can't keep it closed anymore
Tell your mother that you're gone to the freakshow
I'm crawlin' all over the carnival
Just scratchin' a stitch in a skin
I'm moanin' for more of the medicine
In the mornin' you're wonderin' where ya been
Just turnin' your back to the ghost
And tryin' to look like you just might know
That all of the good that you've seen
Just went down and into the drain
Oh kids am I straight out for now
In the mornin' I'm gonna find it on out
What in the world can it be
It's as strange as I've ever seen
The girls are dead in their eyes
Just standin' around like they're hypnotised
Who'll follow me back to the freak show
I'm crawlin' all over the carnival
And I am gone
The kid's in a straight out for now
In the mornin' I'm wanna find it on out
What in the world can it be
It's as strange as I've ever seen
The girls are dead in their eyes
Just standin' around like they're hypnotised
Who'll follow me back to the freak show
I'm crawlin' all over the carnival
And I am gone
It's as strange as I've ever lived
So you're comin' along to the sideshow
I'll be fallin' all over like dominos
For girls are sad in their eyes
They're all standin' around bein' hypnotised
And walkin' me back to the firin' line
You smile to get in the door
You can't keep it closed anymore
Tell your mother that you're gone to the freakshow
I'm crawlin' all over the carnival
Just scratchin' a stitch in a skin
I'm moanin' for more of the medicine
In the mornin' you're wonderin' where ya been
Just turnin' your back to the ghost
And tryin' to look like you just might know
That all of the good that you've seen
Just went down and into the drain
Oh kids am I straight out for now
In the mornin' I'm gonna find it on out
What in the world can it be
It's as strange as I've ever seen
The girls are dead in their eyes
Just standin' around like they're hypnotised
Who'll follow me back to the freak show
I'm crawlin' all over the carnival
And I am gone
The kid's in a straight out for now
In the mornin' I'm wanna find it on out
What in the world can it be
It's as strange as I've ever seen
The girls are dead in their eyes
Just standin' around like they're hypnotised
Who'll follow me back to the freak show
I'm crawlin' all over the carnival
And I am gone
Performed by Mark Lanegan
giovedì 19 febbraio 2009
Io sono rimasto lì
Rimango come uno stupido, a letto, a guardare te e le tue dita. Ti guardo mentre suoni una chitarra marrone scuro, quando passi il plettro su tutte le corde e quando invece fai vibrare solo le ultime. La fai apparire così facile, la musica, quando io invece non riesco a produrre nessun suono, nemmeno un vagito, un pianto o un verso da uomo delle caverne. E mi pare magico, quando al contrario è tutto normale, così ordinario, che tu riesca da sola a fare questa cosa, a partorire della musica, a fare l'amore con le note e a far godere qualcun'altro.
Mi ricordo quando eravamo a casa tua, quel tuo posto speciale con le pareti di legno e il divano di una stoffa dove sembrava essere esploso un leopardo. Tu all'epoca avevi i capelli verdi, sempre corti. Portavi una maglietta a mezze maniche, a righe bianche e nere, che sembrava un prigioniero al contrario, o un pigiama se non fosse stato per lo scollo nascosto dalla chitarra. Portavi una gonna nera a pouis bianchi, sopra delle calze rosso acceso, rosso fluorescente, rosso del sangue dei cartoni animati o dei film splatter. Da dietro gli occhiali, i tuoi occhi per strada, quell'aria un po' tagliata fuori dal tempo, ed un cappotto che ti nascondeva quasi per intero dal freddo, mi hai detto vieni da me, devo farti sentire una cosa; ho bisogno che tu mi ascolti.
E siamo finiti in una specie di soffitta, con il tetto che ci pioveva graduatamente sopra le teste, una tenda blu e stellata a coprire l'unica finestra che dava sulla strada. Questa è la mia lampada, dicesti accendendola sopra una specie di comodino fuori posto, un pezzo di albero che traboccava di cd e libri e ricordi e statuine e fate e sigarette e mozziconi e posacenere e cenere e cenere. Questa è la mia lampada, e la tua lampada rispose con un giallo, una corrente fioca che illuminò la stanza in maniera perfetta: un buio acceso, con ombre dai contorni sbiaditi. Io le tesi la mano, mentre mi mettevo a sedere davanti a te, seduta sul divano, con la chitarra già sulle gambe, ad accordare un po' i tuoi pensieri.
Mi ricordo quando eravamo a casa tua, quel tuo posto speciale con le pareti di legno e il divano di una stoffa dove sembrava essere esploso un leopardo. Tu all'epoca avevi i capelli verdi, sempre corti. Portavi una maglietta a mezze maniche, a righe bianche e nere, che sembrava un prigioniero al contrario, o un pigiama se non fosse stato per lo scollo nascosto dalla chitarra. Portavi una gonna nera a pouis bianchi, sopra delle calze rosso acceso, rosso fluorescente, rosso del sangue dei cartoni animati o dei film splatter. Da dietro gli occhiali, i tuoi occhi per strada, quell'aria un po' tagliata fuori dal tempo, ed un cappotto che ti nascondeva quasi per intero dal freddo, mi hai detto vieni da me, devo farti sentire una cosa; ho bisogno che tu mi ascolti.
E siamo finiti in una specie di soffitta, con il tetto che ci pioveva graduatamente sopra le teste, una tenda blu e stellata a coprire l'unica finestra che dava sulla strada. Questa è la mia lampada, dicesti accendendola sopra una specie di comodino fuori posto, un pezzo di albero che traboccava di cd e libri e ricordi e statuine e fate e sigarette e mozziconi e posacenere e cenere e cenere. Questa è la mia lampada, e la tua lampada rispose con un giallo, una corrente fioca che illuminò la stanza in maniera perfetta: un buio acceso, con ombre dai contorni sbiaditi. Io le tesi la mano, mentre mi mettevo a sedere davanti a te, seduta sul divano, con la chitarra già sulle gambe, ad accordare un po' i tuoi pensieri.
mercoledì 18 febbraio 2009
Da te nascevano dinosauri
Ci inventavamo delle parentele immaginarie perchè ubriacarci non ci sembrava la soluzione giusta. Poi però il sabato ci separavamo andando ognuno per conto proprio, e vomitavamo nei fiumi, appoggiando il petto agli argini bassi. Quegli stessi argini che ieri sono franati, hanno tirato giù una quantità di terra che non puoi immaginare, e mentre le luci si facevano sempre più alte, sempre più insistenti, la gente si accalcava ai bordi, stringeva le transenne per guardare chissà cosa poi. Solo un buco dove prima c'era un mucchio di terra.
Anni fa le persone ci ignoravano, quando andavamo in giro insieme ci sputavano quasi addosso, mentre ora. Non so cosa facciano ora, perché ho come perso il filo di tutto questo accadere. Ho perso e perdo il passato, il futuro. Non vedo legame tra un minuto e quello che lo ha proceduto. Eppure, mi rispondo, ci deve essere qualche cosa che li incolla, in qualche modo devono avere dei lacci, come le scarpe, e legarsi insieme, uniti, con nodi e fiocchi o doppi nodi.
E mentre parlo, mentre vomito parole come ai nostri tempi vomitavo pizze e birra e succhi gastrici e lamenti, tu mi guardi in modo straniero, con gli occhi di chi non ha guardato abbastanza il sole per accecarsi. Forse ti ho bruciato la retina. Forse mi sono bruciato io. Il tempo è infame, anche se non c'è più passato, e il presente è l'unico verbo adatto a questo incontro. Quando mi siedo al tavolo, tu ti siedi al tavolo insieme ad un me di chissà quale spazio-tempo. Incominciamo a parlare ma non abbiamo mai veramente parlato prima di ora. Le parole si tuffano in un buco nero, in un universo parallelo, in questa stupida filastrocca che la gente si annoia di sentirmi raccontare.
Hai capelli più lunghi, arricciati attorno ad un filo stretto e complicato. Un volto più magro, diverso dall'ombra di quello stesso volto che mi aspettava fuori sulle gradinate. Quando scappammo da una prigione fatta di libri, con io che sembravo un cretino arroccato a finestre chiuse e appeso a linguacce rubate, a ipotetici baci, alle controindicazioni e prevenzioni di un nostro singolo fluido. Non basta la stessa angolazione del sorriso, che ripercorre in modo casuale l'inclinazione della mia prima adolescenza; non bastano gli occhi per ricalcarti di nuovo in questo presente, tralasciando il passato e dimanticandosi le mani. Forse sei davvero una persona diversa, proprio perché quando ci sediamo sono io a parlare, mentre te assente ti limita a domandare.
Anni fa le persone ci ignoravano, quando andavamo in giro insieme ci sputavano quasi addosso, mentre ora. Non so cosa facciano ora, perché ho come perso il filo di tutto questo accadere. Ho perso e perdo il passato, il futuro. Non vedo legame tra un minuto e quello che lo ha proceduto. Eppure, mi rispondo, ci deve essere qualche cosa che li incolla, in qualche modo devono avere dei lacci, come le scarpe, e legarsi insieme, uniti, con nodi e fiocchi o doppi nodi.
E mentre parlo, mentre vomito parole come ai nostri tempi vomitavo pizze e birra e succhi gastrici e lamenti, tu mi guardi in modo straniero, con gli occhi di chi non ha guardato abbastanza il sole per accecarsi. Forse ti ho bruciato la retina. Forse mi sono bruciato io. Il tempo è infame, anche se non c'è più passato, e il presente è l'unico verbo adatto a questo incontro. Quando mi siedo al tavolo, tu ti siedi al tavolo insieme ad un me di chissà quale spazio-tempo. Incominciamo a parlare ma non abbiamo mai veramente parlato prima di ora. Le parole si tuffano in un buco nero, in un universo parallelo, in questa stupida filastrocca che la gente si annoia di sentirmi raccontare.
Hai capelli più lunghi, arricciati attorno ad un filo stretto e complicato. Un volto più magro, diverso dall'ombra di quello stesso volto che mi aspettava fuori sulle gradinate. Quando scappammo da una prigione fatta di libri, con io che sembravo un cretino arroccato a finestre chiuse e appeso a linguacce rubate, a ipotetici baci, alle controindicazioni e prevenzioni di un nostro singolo fluido. Non basta la stessa angolazione del sorriso, che ripercorre in modo casuale l'inclinazione della mia prima adolescenza; non bastano gli occhi per ricalcarti di nuovo in questo presente, tralasciando il passato e dimanticandosi le mani. Forse sei davvero una persona diversa, proprio perché quando ci sediamo sono io a parlare, mentre te assente ti limita a domandare.
martedì 17 febbraio 2009
Il diario di una tata
L'educazione, non sentimentale, di un bambino della zona ricca di New York, e la presa di coscienza del vero io di una ragazza neolaureata. C'è Scarlett Johansson mora/castana; Paul Giamatti biondiccio/rossiccio (molto probabilmente si sono scambiati le tinte dei capelli); Alicia Keys nella sua, penso, prima particina; un monello che si addolcisce mangiando direttamente dai barattoli; e critica nei confronti del modo di allevare, o tirar su, i bambini da parte dei nuovi ricchi, che non riescono ad aggiustare le proprie vite e finiscono di fotocopiare sulla prole il rapporto che a loro volta avevano avuto all'epoca con i propri genitori.
Peccato che alla fine il tutto venga ricoperto con un po' di melassa, o con dello zucchero per poveri. Rimangono dei momenti godibili e lo sguardo di una Johansson borghese borghese che come sempre cattura, forse anche più di sempre proprio perchè meno plastificata e più reale del solito.
Giudizio: Tv
- Cinema ==> Da vedere assolutamente, correre al cinema
- Dvd ==> Da vedere, ma si può aspettare il noleggio
- Tv ==> Niente di esaltante, se proprio si deve vedere aspettare il passaggio in tv
- Passeggiata ==> Perdibilissimo. Andate pure a fare una passeggiata.. anche sotto la pioggia
lunedì 16 febbraio 2009
Despero
Torno in Italia scarico, depresso e sconfitto.
"Sei troppo strana."
"Sarà il colore." ride lei, passandosi una mano fra i capelli.
"No, è proprio..." Non mi escono le parole, ma sembra più solare, meno rigida, il suo sguardo sonnolento si è illuminato, è molto più magra, e quando sorride non si limita a stirare le labbra, ma scopre i denti bianchissimi. Parla con uno strano accento sdrucciolo.
Poi apre la porta, ci salutiamo, la bacio sulle guance e c'è un attimo di sospensione imbarazzata a breve distanza.
Io scrivo a Sarah tre pagine su come sia strano ritrovarsi così lontani da casa insieme a tutti i suoi amori, Zanna, Tex e il Magico, con me a fare da spettatore, e di come non essere mai preso in considerazione in dodici anni sia mille volte peggio di un rifiuto, perché un rifiuto si può accettare, ma l'indifferenza, quella ferisce molto più a fondo.
Ciao Sarah, questa è l'ultima delle lettere non spedite. Dodici anni a scrivere a se stessi sono dodici di troppo.
"Sei troppo strana."
"Sarà il colore." ride lei, passandosi una mano fra i capelli.
"No, è proprio..." Non mi escono le parole, ma sembra più solare, meno rigida, il suo sguardo sonnolento si è illuminato, è molto più magra, e quando sorride non si limita a stirare le labbra, ma scopre i denti bianchissimi. Parla con uno strano accento sdrucciolo.
Poi apre la porta, ci salutiamo, la bacio sulle guance e c'è un attimo di sospensione imbarazzata a breve distanza.
Io scrivo a Sarah tre pagine su come sia strano ritrovarsi così lontani da casa insieme a tutti i suoi amori, Zanna, Tex e il Magico, con me a fare da spettatore, e di come non essere mai preso in considerazione in dodici anni sia mille volte peggio di un rifiuto, perché un rifiuto si può accettare, ma l'indifferenza, quella ferisce molto più a fondo.
Ciao Sarah, questa è l'ultima delle lettere non spedite. Dodici anni a scrivere a se stessi sono dodici di troppo.
Gianluca Morozzi
venerdì 13 febbraio 2009
Kiss Me Again
Performed By Jessica Lea Mayfield
giovedì 12 febbraio 2009
E' solo una domanda, non è un processo
Cosa fai stasera? Ti va di andare a farsi leggere la mano da un chiromante, o visitare le cripte più segrete della piramide di Cheope. Ti accompagnerei volentieri, sul serio. E prometto di non scherzare, di non prenderti in giro. Giuro che diventerò serio come le cose che tu pensi lo siano.
"So già che non mi prenderai in giro. Mi prenderai per il culo. E' assai diverso."
Potremmo trovarci al luna park, sotto la ruota panoramica. Potremmo farci un giro sopra, anche se poi io terrò gli occhi chiusi tutto il tempo, e tu dondolerai la cabina per farmi paura. Una volta scesi ci fermeremo al baracchino parcheggiato al bordo della strada, e ci scoleremo venti birre. Mi guarderai, ti guarderò. E la gente ci guarderà mentre noi non degneremo loro di uno sguardo.
"Andiamo - dirai alzandoti dal marciapiede. - Dobbiamo andare a fare scorta di guardare."
"Il verbo?"
"Si, la parola. L'abbiamo finita."
E ci immergeremo tra la folla. Cammineremo mano nella mano curiosando tra le bancarelle. Le tue dita su collane fatte a mano, le proverai al collo e cercherai uno specchio per giudicare. Ma non comprerai niente, no. Aspetterai la mezzanotte senza chiedermi la luna, e mi sfiorerai leggeremente la guancia quando ti avrò riaccompagnato a casa.
In quel momento saremo tutti e due seri. Non avremo più voglia di parlare, né di ridere, o di scherzare. Ed infatti non parleremo. Non rideremo. Non scherzeremo. Saremo seri, e tu mi sfiorerai leggermente. Io ti sfiorerò leggermente. Ci sfioreremo leggermente cercando di attrarci il più possibile, come due calamite. Questo.
Allora, cosa fai stasera?
"So già che non mi prenderai in giro. Mi prenderai per il culo. E' assai diverso."
Potremmo trovarci al luna park, sotto la ruota panoramica. Potremmo farci un giro sopra, anche se poi io terrò gli occhi chiusi tutto il tempo, e tu dondolerai la cabina per farmi paura. Una volta scesi ci fermeremo al baracchino parcheggiato al bordo della strada, e ci scoleremo venti birre. Mi guarderai, ti guarderò. E la gente ci guarderà mentre noi non degneremo loro di uno sguardo.
"Andiamo - dirai alzandoti dal marciapiede. - Dobbiamo andare a fare scorta di guardare."
"Il verbo?"
"Si, la parola. L'abbiamo finita."
E ci immergeremo tra la folla. Cammineremo mano nella mano curiosando tra le bancarelle. Le tue dita su collane fatte a mano, le proverai al collo e cercherai uno specchio per giudicare. Ma non comprerai niente, no. Aspetterai la mezzanotte senza chiedermi la luna, e mi sfiorerai leggeremente la guancia quando ti avrò riaccompagnato a casa.
In quel momento saremo tutti e due seri. Non avremo più voglia di parlare, né di ridere, o di scherzare. Ed infatti non parleremo. Non rideremo. Non scherzeremo. Saremo seri, e tu mi sfiorerai leggermente. Io ti sfiorerò leggermente. Ci sfioreremo leggermente cercando di attrarci il più possibile, come due calamite. Questo.
Allora, cosa fai stasera?
mercoledì 11 febbraio 2009
L'India
La prima volta che siamo arrivati in India, ricordi? C'era così tanta gente, e malattia, e lebbra. Alle sei del mattino per arrivare al grande tempio l'odore di fritto era già così pungente da far quasi vomitare. E le persone ci chiedevano l'elemosima con insistenza. Avevano gambe piegate, ma nel verso sbagliato, voci assottigliate, e più malati erano e più i loro familiari erano felici. Tu avevi paura di andarci proprio per questo: perché non volevi vedere le malattie e la povertà, e l'infelicità. Ed invece erano loro ad ostentarla, a conservarla quasi.
Quando siamo arrivati in albergo hai respirato di sollievo. Hai perlustrato la camera e hai contato le zampe degli insetti che camminavano sui muri. Le finestre erano sottili, ma ben chiuse. Non come la capanna dove avremmo dormito qualche giorno dopo, in piena campagna, dove non c'erano vetri ma solo delle sbarre a maglia larga per non far entrare, le tigri. Di notte ti sei meravigliata quando alzandoti hai trovato gli scarafaggi in bagno. Camminavano veloci, passando pure sopra i tuoi piedi.
In Amazzonia, dove non sono stato, io e i miei compagni passavamo la notte sdraiati su delle amache appese tra gli alberi. Eravamo come in letargo dentro bozzoli di farfalla. Ci impiccavamo ovunque, tranne che nelle tende, no. Perché quando il sole calava la foresta iniziava a muoversi. Ci svegliavamo, io e i miei compagni, e guardando giù dalle nostre amache vedevamo il terreno spostarsi da destra a sinistra, dal basso all'alto. Le foglie, o quello che sembravano foglie, gli animali sul terreno e i nostri occhi che non riuscivano a stargli dietro. Avrei voluto fartelo vedere, ma alla luce del giorno le uniche cose che rimanevano erano serpenti pericolosi. Ho provato a fargli una foto, ma dopo averlo afferrato per la coda ho dovuto mozzargli la testa con il machete.
In Perù invece dormivamo sul materasso, ma dentro la tenda. Ascoltavamo gli insetti sbattere contro le pareti del nostro rifugio, e poi da gravità scivolare verso il basso.
O in Malesia, dove dalle palafitte si vedevano spiagge bianche, palme, acque turchesi, rimanevamo svegli a sentire cantare i geki. Gli vedevamo le zampe con le ventose attraverso i muri fatti di canne intrecciate. Gli indigeni ci dicevano che se cantavano una volta pari portava fortuna, se invece lo facevano dispari era sfortuna. Io persi il conto dopo circa due ore, senza mai addormentarmi.
Ma l'India fu bellissima, dicevi. Non quella urbana o falsamente moderna, ma quella che attraversammo in due giorni di treno, andando piano e guardando la natura, la vera natura, crescere al di là dei finestrini. Quando mangiammo lenticchie piccanti a colazione o quando facevamo a lotta per salire sui mezzi pubblici. Così affittavamo i taxi a giornata e ci fermavamo dove volevamo. Guardavamo il cielo e ci domandavamo se fosse lo stesso cielo del giorno prima, o se era lo stesso che avrebbero potuto vedere i nostri genitori da casa, in quello stesso momento. Aspettavamo la stagione delle piogge perché avevamo voglia di pulirci per bene, e di sentirsi finalmente rinfrescati. Ma non dal caldo: dai nostri sogni. E dai nostri pensieri.
Era questa l'India che volevi ricordare. Quella che va oltre gli occhi e atterra dentro. Attracca in porti sicuri, dove per ora non si vede ombra di alcun soldato tedesco. Ed è questa l'India che vorrei farti rivedere, domani, o dopo domani, passati i sessanta, quando senza accorgercene saremo emigrati in Polonia.
Quando siamo arrivati in albergo hai respirato di sollievo. Hai perlustrato la camera e hai contato le zampe degli insetti che camminavano sui muri. Le finestre erano sottili, ma ben chiuse. Non come la capanna dove avremmo dormito qualche giorno dopo, in piena campagna, dove non c'erano vetri ma solo delle sbarre a maglia larga per non far entrare, le tigri. Di notte ti sei meravigliata quando alzandoti hai trovato gli scarafaggi in bagno. Camminavano veloci, passando pure sopra i tuoi piedi.
In Amazzonia, dove non sono stato, io e i miei compagni passavamo la notte sdraiati su delle amache appese tra gli alberi. Eravamo come in letargo dentro bozzoli di farfalla. Ci impiccavamo ovunque, tranne che nelle tende, no. Perché quando il sole calava la foresta iniziava a muoversi. Ci svegliavamo, io e i miei compagni, e guardando giù dalle nostre amache vedevamo il terreno spostarsi da destra a sinistra, dal basso all'alto. Le foglie, o quello che sembravano foglie, gli animali sul terreno e i nostri occhi che non riuscivano a stargli dietro. Avrei voluto fartelo vedere, ma alla luce del giorno le uniche cose che rimanevano erano serpenti pericolosi. Ho provato a fargli una foto, ma dopo averlo afferrato per la coda ho dovuto mozzargli la testa con il machete.
In Perù invece dormivamo sul materasso, ma dentro la tenda. Ascoltavamo gli insetti sbattere contro le pareti del nostro rifugio, e poi da gravità scivolare verso il basso.
O in Malesia, dove dalle palafitte si vedevano spiagge bianche, palme, acque turchesi, rimanevamo svegli a sentire cantare i geki. Gli vedevamo le zampe con le ventose attraverso i muri fatti di canne intrecciate. Gli indigeni ci dicevano che se cantavano una volta pari portava fortuna, se invece lo facevano dispari era sfortuna. Io persi il conto dopo circa due ore, senza mai addormentarmi.
Ma l'India fu bellissima, dicevi. Non quella urbana o falsamente moderna, ma quella che attraversammo in due giorni di treno, andando piano e guardando la natura, la vera natura, crescere al di là dei finestrini. Quando mangiammo lenticchie piccanti a colazione o quando facevamo a lotta per salire sui mezzi pubblici. Così affittavamo i taxi a giornata e ci fermavamo dove volevamo. Guardavamo il cielo e ci domandavamo se fosse lo stesso cielo del giorno prima, o se era lo stesso che avrebbero potuto vedere i nostri genitori da casa, in quello stesso momento. Aspettavamo la stagione delle piogge perché avevamo voglia di pulirci per bene, e di sentirsi finalmente rinfrescati. Ma non dal caldo: dai nostri sogni. E dai nostri pensieri.
Era questa l'India che volevi ricordare. Quella che va oltre gli occhi e atterra dentro. Attracca in porti sicuri, dove per ora non si vede ombra di alcun soldato tedesco. Ed è questa l'India che vorrei farti rivedere, domani, o dopo domani, passati i sessanta, quando senza accorgercene saremo emigrati in Polonia.
martedì 10 febbraio 2009
La ragazza che viene dal passato
Olaf scosta la sedia dal tavolo e sparecchia, porta tutto in cucina. Poi mi fa alzare dalla sedia. Mi stringe tra le braccia e mi bacia. Mi ritrovo in bocca residui di riso e di souvlaki, e li deglutisco. Baciarsi è una faccenda piuttosto schifosa, penso, mentre la sua lingua si attorciglia alla mia. Bisogna che qualcuno ti piaccia davvero molto per riuscire a tollerarla.
Da giovani ci si sente tenuti a manifestare solo una personalità del ventaglio di quelle possibili. Ci sono tutte, nascoste sotto la superficie, ma le circostanze determinano quale “io” verrà allo scoperto.
“Non dovresti cercare una soluzione ai problemi, ma le loro cause.”
Simone van der Vlugt
lunedì 9 febbraio 2009
Perché voglio accordare le mie parole
Oggi a pranzo abbiamo parlato di camper. Dei furgoni. Di come estraniarsi mentre si mangia spezzatino, o pollo, o macedonia, o chicchi di caffè macinati. Ho pensato a come sarebbe bella l'immagine di noi, tu ed io, a viaggiare su un camper; e le strade della Toscana, poi della Liguria. Andare con questa casa, con quelle ruote, in Francia e lungo i castelli della Loira. Parcheggiare in parchi verdi che non siamo abituati a vedere, e visitare abitazioni non nostre, con mattoni invecchiati dal tempo, e a domandarsi chi altro potrebbe invecchiare qualcosa, se non il tempo.
Mi sono accorto di quanto fosse strano, per gli altri, quando sulle scale mobili hai cominciato a sussurrare i versi di una canzone che non conoscevo. Quando fuori perdevi la via e ti ritrovavi immersa in parole che non riuscivi a far quadrare, o a mettere in fila. Ti ho preso a braccetto, perchè volevo aiutarti a dare un ordine a quello che avevi di più disordinato; ma la verità, tu lo sai, è che non sono stato io a prenderti per il braccio, ma tu: l'uomo. Mi hai insegnato a non far morire un arto, a tenerti stretta e a distaccarmi da te quando smettevi di abbracciarmi.
Mi sentivo bagnato. Non per l'acuqa giù dalle nuvole, ma per te che mi piovevi addosso. E i tuoi sorrisi, i tuoi denti. Lo sguardo disteso e poi ad un tratto smarrito. Come quando ti ho perso, appunto, quando non eri più con noi. Quando ti eri ammutolita e ti nascondevi pure nel respirare, e non ti trovavo. Ti cercavo, arruffando tutti i miei pensieri e scartando ogni posto dove ti avevo vista o dove avrei voluto vederti. E poi eri così lontana e così vicina, come il cielo sopra Berlino, tu, Wim Wenders ed io, in auto, seduta dietro, a non ascoltare. Non hai pensato a quello che dimenticavi e per questo ho ringraziato nel mio piccolo chi ti aveva distratta e fatta andar via. Ho parcheggiato, ho ripreso la macchina, mi sono vestito nell'etere come un arlecchino amatoriale. Ho passato la notte a sudare, ma questo non lo sai. Hai saputo altre cose, e credimi, vorrei davvero che tu riuscissi a dimenticarle.
Perché poi ho preso il caffè amaro, per poter rubare lo zucchero e nascondere le bustine in tasca. Così quando le tocco, quando ci gioco, quando cerco le chiavi di casa o della macchina ed invece prendo loro, le bustine dello zucchero, allora penso a te e tutto quello che ho scritto fino a qui inizia ad avere un senso, a suonare un po' meno impacciato, e a suonare come vorrei che suonasse anche per te.
Mi sono accorto di quanto fosse strano, per gli altri, quando sulle scale mobili hai cominciato a sussurrare i versi di una canzone che non conoscevo. Quando fuori perdevi la via e ti ritrovavi immersa in parole che non riuscivi a far quadrare, o a mettere in fila. Ti ho preso a braccetto, perchè volevo aiutarti a dare un ordine a quello che avevi di più disordinato; ma la verità, tu lo sai, è che non sono stato io a prenderti per il braccio, ma tu: l'uomo. Mi hai insegnato a non far morire un arto, a tenerti stretta e a distaccarmi da te quando smettevi di abbracciarmi.
Mi sentivo bagnato. Non per l'acuqa giù dalle nuvole, ma per te che mi piovevi addosso. E i tuoi sorrisi, i tuoi denti. Lo sguardo disteso e poi ad un tratto smarrito. Come quando ti ho perso, appunto, quando non eri più con noi. Quando ti eri ammutolita e ti nascondevi pure nel respirare, e non ti trovavo. Ti cercavo, arruffando tutti i miei pensieri e scartando ogni posto dove ti avevo vista o dove avrei voluto vederti. E poi eri così lontana e così vicina, come il cielo sopra Berlino, tu, Wim Wenders ed io, in auto, seduta dietro, a non ascoltare. Non hai pensato a quello che dimenticavi e per questo ho ringraziato nel mio piccolo chi ti aveva distratta e fatta andar via. Ho parcheggiato, ho ripreso la macchina, mi sono vestito nell'etere come un arlecchino amatoriale. Ho passato la notte a sudare, ma questo non lo sai. Hai saputo altre cose, e credimi, vorrei davvero che tu riuscissi a dimenticarle.
Perché poi ho preso il caffè amaro, per poter rubare lo zucchero e nascondere le bustine in tasca. Così quando le tocco, quando ci gioco, quando cerco le chiavi di casa o della macchina ed invece prendo loro, le bustine dello zucchero, allora penso a te e tutto quello che ho scritto fino a qui inizia ad avere un senso, a suonare un po' meno impacciato, e a suonare come vorrei che suonasse anche per te.
venerdì 6 febbraio 2009
Jumpers
I spend the afternoon in cars
I sit in traffic jams for hours
Don't push me
I am not OK
The sky is blue most every day
The lemons grow like tumors they
Are tiny suns infused with sour
Lonely as a cloud
In the Golden State
"The coldest winter that I ever saw
Was the summer that I spent..."
The only substance is the fog
And it hides all that has gone wrong
Can't see a thing
Inside the maze
There is a bridge adored and famed
The Golden spine of engineering
Who's back is heavy
With my weight
Be still this old heart
Be still this old skin
Drink your last drink
Sin your last sin
Sing your last song
About the beginning
Sing your song loud
So the people can hear
Let's Go
Be still this sad day
Be still this sad year
Hope your last hope
Fear you last fear
Your not the only one
Let's Go
Let's Go
Let's Go
My falling shape will draw a line
Between the blue of sea and sky
I'm not a bird
I'm not a plane
I took the taxi to the gate
I will not go to school again
Four seconds was
The longest wait
The longest wait
The longest wait
The longest wait
I sit in traffic jams for hours
Don't push me
I am not OK
The sky is blue most every day
The lemons grow like tumors they
Are tiny suns infused with sour
Lonely as a cloud
In the Golden State
"The coldest winter that I ever saw
Was the summer that I spent..."
The only substance is the fog
And it hides all that has gone wrong
Can't see a thing
Inside the maze
There is a bridge adored and famed
The Golden spine of engineering
Who's back is heavy
With my weight
Be still this old heart
Be still this old skin
Drink your last drink
Sin your last sin
Sing your last song
About the beginning
Sing your song loud
So the people can hear
Let's Go
Be still this sad day
Be still this sad year
Hope your last hope
Fear you last fear
Your not the only one
Let's Go
Let's Go
Let's Go
My falling shape will draw a line
Between the blue of sea and sky
I'm not a bird
I'm not a plane
I took the taxi to the gate
I will not go to school again
Four seconds was
The longest wait
The longest wait
The longest wait
The longest wait
Performed by Sleater-Kinney
giovedì 5 febbraio 2009
Sublimare
Sublimare:
1. (lett.) innalzare ad alte cariche e onori; (fig.) elevare spiritualmente: sublimare al pontificato; sublimare alla gloria dei cieli; un insegnamento che ci sublima; sublimare gli istinti, (psican.) indirizzarne l'energia verso fini più alti deviandola da sbocchi nocivi.
2. (ant.) far rialzare:
Come la fronda che flette la cima
nel transito del vento, e poi si leva
per la propria virtù che la sublima
(DANTE Par. XXVI vv. 85-87)
3. (chim. fis.) depurare una sostanza solida facendola passare direttamente allo stato aeriforme, e condensando quindi il vapore in modo da ottenere un solido cristallizzato || v.intr. (chim. fis.) detto di sostanza, passare direttamente dallo stato solido a quello aeriforme || sublimarsi, v.intr.pron. (ant.) erigersi verso l'alto: monte che si sublima a grande altezza || v.rifl. (fig.) rendersi sublime: sublimarsi nella rinuncia.
Dal latino tardo sublimare, derivante dal latino classico sublimis 'sublime'; il significato del verbo intransitivo proviene dal latino medievale degli alchimisti.
1. (lett.) innalzare ad alte cariche e onori; (fig.) elevare spiritualmente: sublimare al pontificato; sublimare alla gloria dei cieli; un insegnamento che ci sublima; sublimare gli istinti, (psican.) indirizzarne l'energia verso fini più alti deviandola da sbocchi nocivi.
2. (ant.) far rialzare:
Come la fronda che flette la cima
nel transito del vento, e poi si leva
per la propria virtù che la sublima
(DANTE Par. XXVI vv. 85-87)
3. (chim. fis.) depurare una sostanza solida facendola passare direttamente allo stato aeriforme, e condensando quindi il vapore in modo da ottenere un solido cristallizzato || v.intr. (chim. fis.) detto di sostanza, passare direttamente dallo stato solido a quello aeriforme || sublimarsi, v.intr.pron. (ant.) erigersi verso l'alto: monte che si sublima a grande altezza || v.rifl. (fig.) rendersi sublime: sublimarsi nella rinuncia.
Dal latino tardo sublimare, derivante dal latino classico sublimis 'sublime'; il significato del verbo intransitivo proviene dal latino medievale degli alchimisti.
mercoledì 4 febbraio 2009
Once
C'e un gatto. Piccolo. Un cucciolo. Potrebbe essere anche un cane. Sempre piccolo. Sempre un cucciolo. Una specie di peluche animato. Questo cucciolo si aggira per casa e te non riesci a non guardarlo in modo bonario, con gli occhi teneri. Lo vedi annusare le stanze, fermarsi negli angoli, leccarsi le zampe. Ti azzardi ad avvicinarti a lui e cominci a lisciarlo. Lui in un primo tempo comincia a fare le fusa. All'inizio piano, poi sempre più forti. Un ronfo, alla fine, che sveglierebbe un'intera mandria di elefanti. Dopodichè, senza alcun preavviso, dalle coccole passa al gioco. Si sdraia per terra, si gira con la pancia all'insù, e si lascia grattare. Per un po'. Per un altro po'. Poi tira una specie di zampata, a pugno chiuso se mai la sua zampa potesse chiudersi a pungo. Si rotola per terra e continua a prendere di mira la tua mano. Ogni tanto gli dà un morso, ogni tanto fa assaggiare le unghie. Fino a quando, sempre nel gioco, il tuo sangue comincia a sanguinare. Un po' come le tue parole che cominciano a parlare. Tu guardi questa lingua rossa uscire dalla tua pelle, ma non dai la colpa al gatto. Non dai la colpa al cucciolo. Non si può dare la colpa ad un peluche. Nonostante ti abbia ferito non sei capace di non guardarlo allo stesso modo di prima: inclinando magari la testa leggermente da una parte e perdendoti nel tuo mondo. Metti in pausa il resto e guardi un gatto.
E' un animale piccolo, all'inizio dei suoi giorni. C'è qualcosa che attraversa chiunque e fa schiudere un po' di felicità. Forse è perchè è così indifeso e così fragile. Basterebbe un nonnulla a sciuparlo, a fargli del male. Ad eliminarlo per sempre. Sai che sotto certi aspetti non è completo, che è un animale che sta creascendo e che deve ancora diventare adulto; ma nonostante questo non riesci a non guardarlo mentre si lava la faccia leccandosi prima la zampa e poi strusciando quest'ultima con tenerezza sul muso. Gli perdoneresti tutto: i graffi alle mani mentre giocate, le eventuali cacate e/o pisciate sparse per la casa. Tutte le cose che poi, dopo qualche anno, non saresti più disposto a perdonare. Gli stessi graffi sulle mani, le stesse pisciate e/o cacate sparse per la casa; così come i rivestimenti dei divani e delle poltrone rovinate, utilizzati come utensili per affilare le sue unghie. Sempre le stesse cose, identiche. E' lui che però non è più uguale. E' cresciuto. E' diventato grande. Si è in qualche modo completato.
Once è un cucciolo destinato a rimanere per sempre cucciolo. Lo guardi e ti ostini a non tener conto della stupenda colonna sonora. Lo guardi e rivedi le strade che le tue scarpe hanno calpestato. Lo guardi e ti immergi nella sua atmosfera. Lo vivi ad un livello puramente emotivo. Ed è un bene. Se ti dovessi fermare un attimo e fare magari un passo indietro, uscire dal tuo corpo e come una nuvola con la tua sagoma distaccarsi da quel che sei, potresti accorgerti magari che qualcosa non va, che c'è un sapore un po' acre che ti lascia in bocca e ti fa aspettare, ti fa aspettare. Aspettare. Aspettare. Anche dopo i titoli di coda. Ma Once è un cucciolo stupendo, che gioca con la forza che ha la musica e l'incontro di persone, e l'annusarsi, e il fermarsi a due millimetri dal prendere la scossa, il non poggiare per un pelo la mano su quel filo con appeso il segnale di alto voltaggio. Once mostra con immagini, con una chitarra ed un pianoforte, cosa significa quella sensazione che straripa dalle vene: è l'immagine cinematografica dell'adrenalina tracotante del fermarsi un attimo prima. Non ti importa se magari non è completo, o se per caso non è adulto: non riesci a trattenerti dal prenderlo in braccio e stringerlo tra le mani, coccolarlo, proteggerlo e accudirlo. Se crescesse, se diventasse grande, o se perdesse la propria innocenza così come il pelo, potresti non perdonargli più i graffi, le ferite e le eventuali cacate e/o pisciate sparse per casa, o proprio sotto la televisione.
Giudizio: Dvd
- Cinema ==> Da vedere assolutamente, correre al cinema
- Dvd ==> Da vedere, ma si può aspettare il noleggio
- Tv ==> Niente di esaltante, se proprio si deve vedere aspettare il passaggio in tv
- Passeggiata ==> Perdibilissimo. Andate pure a fare una passeggiata.. anche sotto la pioggia
martedì 3 febbraio 2009
very important person
Ho uno spillo. E una bacheca.
Rischia di diventare piena, un mare di appunti, questo rettangolo di cartone chiamato bacheca. Ma le cose belle le voglio sfoggiare. Le voglio conservare. Poterle rileggere anche in altri posti. Averle a casa, se si può dire.
Spero. Tu. Comprenda.
Ciò che voglio dire non sta in queste parole, ma so già che le orecchie sentiranno il suono reale.
non ti ho in pugno: ti tengo tra le mani come una cosa fragile, con la stessa cura, come una cosa preziosa, con la stessa attenzione, come un tesoro, unendo le dita, lasciandole molli per poterti guardare, per poterti soffiare il tuo nome e le mie parole per te. cammino rischiando di inciampare perché gli occhi non controllano i passi, controllano te che riposi, te che ti muovi, te che ti schiudi e diventi fiore e pietra e animale e stella e alfabeto, il mio, controllano te per non farti cadere, ti tengo, te l’ho sempre detto, prometto, mantengo.
non ti ho in pugno: ti ho in mano all’altezza degli occhi per meglio poterti vedere e non c’è niente di te che non vada, niente di te che non splenda intrecciando le ciglia, le mie, e spuntandomi fiori e vento e cambiando le lacrime in miele in unguento che sana le tue ferite e le mie che disegnavano solo la mappa per poterci incontrare, vedere, per permetterci di riconoscerci in mezzo ai miliardi di altri.
Rischia di diventare piena, un mare di appunti, questo rettangolo di cartone chiamato bacheca. Ma le cose belle le voglio sfoggiare. Le voglio conservare. Poterle rileggere anche in altri posti. Averle a casa, se si può dire.
Spero. Tu. Comprenda.
Ciò che voglio dire non sta in queste parole, ma so già che le orecchie sentiranno il suono reale.
----------------------------------------------------------
non ti ho in pugno: ti tengo tra le mani come una cosa fragile, con la stessa cura, come una cosa preziosa, con la stessa attenzione, come un tesoro, unendo le dita, lasciandole molli per poterti guardare, per poterti soffiare il tuo nome e le mie parole per te. cammino rischiando di inciampare perché gli occhi non controllano i passi, controllano te che riposi, te che ti muovi, te che ti schiudi e diventi fiore e pietra e animale e stella e alfabeto, il mio, controllano te per non farti cadere, ti tengo, te l’ho sempre detto, prometto, mantengo.
non ti ho in pugno: ti ho in mano all’altezza degli occhi per meglio poterti vedere e non c’è niente di te che non vada, niente di te che non splenda intrecciando le ciglia, le mie, e spuntandomi fiori e vento e cambiando le lacrime in miele in unguento che sana le tue ferite e le mie che disegnavano solo la mappa per poterci incontrare, vedere, per permetterci di riconoscerci in mezzo ai miliardi di altri.
lunedì 2 febbraio 2009
Gennaio 2009
"Perché non si riesce ad abbandonare le parole a se stesse, a emetterle semplicemente, a trasmetterne il calore e l’amore, a trascenderne ogni significato, a farle dischiudere in semplici carezze."
William Dollace
Iscriviti a:
Post (Atom)