La prima volta che siamo arrivati in India, ricordi? C'era così tanta gente, e malattia, e lebbra. Alle sei del mattino per arrivare al grande tempio l'odore di fritto era già così pungente da far quasi vomitare. E le persone ci chiedevano l'elemosima con insistenza. Avevano gambe piegate, ma nel verso sbagliato, voci assottigliate, e più malati erano e più i loro familiari erano felici. Tu avevi paura di andarci proprio per questo: perché non volevi vedere le malattie e la povertà, e l'infelicità. Ed invece erano loro ad ostentarla, a conservarla quasi.
Quando siamo arrivati in albergo hai respirato di sollievo. Hai perlustrato la camera e hai contato le zampe degli insetti che camminavano sui muri. Le finestre erano sottili, ma ben chiuse. Non come la capanna dove avremmo dormito qualche giorno dopo, in piena campagna, dove non c'erano vetri ma solo delle sbarre a maglia larga per non far entrare, le tigri. Di notte ti sei meravigliata quando alzandoti hai trovato gli scarafaggi in bagno. Camminavano veloci, passando pure sopra i tuoi piedi.
In Amazzonia, dove non sono stato, io e i miei compagni passavamo la notte sdraiati su delle amache appese tra gli alberi. Eravamo come in letargo dentro bozzoli di farfalla. Ci impiccavamo ovunque, tranne che nelle tende, no. Perché quando il sole calava la foresta iniziava a muoversi. Ci svegliavamo, io e i miei compagni, e guardando giù dalle nostre amache vedevamo il terreno spostarsi da destra a sinistra, dal basso all'alto. Le foglie, o quello che sembravano foglie, gli animali sul terreno e i nostri occhi che non riuscivano a stargli dietro. Avrei voluto fartelo vedere, ma alla luce del giorno le uniche cose che rimanevano erano serpenti pericolosi. Ho provato a fargli una foto, ma dopo averlo afferrato per la coda ho dovuto mozzargli la testa con il machete.
In Perù invece dormivamo sul materasso, ma dentro la tenda. Ascoltavamo gli insetti sbattere contro le pareti del nostro rifugio, e poi da gravità scivolare verso il basso.
O in Malesia, dove dalle palafitte si vedevano spiagge bianche, palme, acque turchesi, rimanevamo svegli a sentire cantare i geki. Gli vedevamo le zampe con le ventose attraverso i muri fatti di canne intrecciate. Gli indigeni ci dicevano che se cantavano una volta pari portava fortuna, se invece lo facevano dispari era sfortuna. Io persi il conto dopo circa due ore, senza mai addormentarmi.
Ma l'India fu bellissima, dicevi. Non quella urbana o falsamente moderna, ma quella che attraversammo in due giorni di treno, andando piano e guardando la natura, la vera natura, crescere al di là dei finestrini. Quando mangiammo lenticchie piccanti a colazione o quando facevamo a lotta per salire sui mezzi pubblici. Così affittavamo i taxi a giornata e ci fermavamo dove volevamo. Guardavamo il cielo e ci domandavamo se fosse lo stesso cielo del giorno prima, o se era lo stesso che avrebbero potuto vedere i nostri genitori da casa, in quello stesso momento. Aspettavamo la stagione delle piogge perché avevamo voglia di pulirci per bene, e di sentirsi finalmente rinfrescati. Ma non dal caldo: dai nostri sogni. E dai nostri pensieri.
Era questa l'India che volevi ricordare. Quella che va oltre gli occhi e atterra dentro. Attracca in porti sicuri, dove per ora non si vede ombra di alcun soldato tedesco. Ed è questa l'India che vorrei farti rivedere, domani, o dopo domani, passati i sessanta, quando senza accorgercene saremo emigrati in Polonia.
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