Quando la sera cala gli alberi diventano scuri, l'aria sa di musica, e lo spiazzo aperto tra l'aggrovigliarsi di radici e verde si riempie di niente. Dobbiamo aspettare la notte, per cacciare i ginghiali. Nell'oscurità loro scenderanno a valle, sviscerando la libertà di cui godono, nella preda che corre lontano o nel trotterellare placido di una famiglia animale. Poco oltre, dove la gente rumoreggia vaghi vagiti di freschi sorrisi, la luce dei lampioni illumina di giallo/arancione l'erba bruciata dal sole.
Sai da cosa ho capito che non sei venuta? La ragazza sdraiata sulla panchina, sotto il tetto intrecciato di rami e foglie stagionate, vestita di nero con la pelle delle spalle nuda su del nero sorretto da sottili strisce di tessuto; seno divergente sui lati a biaciare le costole con un lieve sfiorare dettato dalle dimensioni delicate; le gambe nascoste dall'ombra fin poco sotto il ginocchio, leccate dal vento sugli stinchi e nei polpacci appoggiati al legno. Se quella ragazza, che vedevo tremolante nella spinta prima di una gamba e poi di un'altra, fossi stata tu allora avresti avuto i piedi scoperti, senza scarpe né calze, e non ti vedo come persona che tiene i piedi nudi in posti pubblici.
Così ho preso tutto quanto, le mie storie, la mia voce nella testa, lasciando la terra sulle scarpe, camminando lento per riprendere fiato nel tragitto di riposo. E quando bevo l'acqua sa di sudore, sulle mani chiuse a coppa, sui capelli che spinti dal vento seguono obliqui il getto della fontana e mi finiscono a ciocche sottili in bocca. Poco prima di attraversare la strada, salire in macchina, e andare via.
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