Passiamo l'estate a farci pungere dalla vespe, a bruciarne il nido e a guardarle ricostruirlo. Guadagnare pochi centesimi ad ogni nuovo bruciore, scendendo le scale di corsa: come quando ci sparavano nella giungla e noi scappavamo; correvamo a caso, in direzioni che non conoscevamo, dove il nord non era nord, il sud, l'est, l'ovest dei miei pensieri; saltavamo rami caduti, pozze d'acqua, fango, erba, fino a perdere il fiato e non ritrovarlo più. Scavavamo buche enormi dove seppellire la nostra speranza, nascondendola da un cielo terso capace di improvvisi rovesci. Ma faceva caldo, un caldo insopportabile, fatto di sole continuo, affanni nel respirare, forni nascosti accesi a microonde dove cuocevamo lentamente lasciando evaporare l'acqua; e io sudavo, sudavo da far schifo. Sudavo così tanto da bagnare le lenzuola, in un bagno senza rubinetti, al buio delle tapparelle chiuse, per non far entrare la luce, restavo nel nero come due occhi bianchi che si nascondevano e si aprivano a ritmo regolare dietro e davanti le palpebre leggere; sentivo la fronte impregnarsi appiccicando i capelli, fili scoperti, sempre più fini, proprio all'attaccatura, mostrando la testa.
Nel frattempo i giorni passavano, lenti ma regolari. All'orizzonte solo la stessa linea celeste di sempre, che nelle ore più serene si tratteggiava di bianco schiumoso. Il futuro sarebbe diventato il presente, ma il passato: quello avremmo fatto meglio a dimenticarlo.
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