giovedì 30 giugno 2011

Lezioni

Mettiamo che tutto questo sia una semplice finzione - e ti prego, ripetimelo fino alla nausea, altrimenti rischierei di non crederci, più - potremmo stare tranquillamente seduti a parlare, per ore e ore, sorseggiare un po' di vino, chiacchierare, ridere. Niente di trascendentale, niente di pericoloso. Nessuna lama affilata, nessun coltello seghettato. Potremmo al massimo sezionare i nostri rispettivi arti, le braccia stese sul tavolo in dono offerto all'altro, per aprirli dall'incavo del gomito fino al polso. Un taglio netto, dritto, non tremolante dalla paura, ma lineare come la coscienza di chi sa cosa stia facendo. Potremmo osservare la linea rosso del sangue sgorgare dalla ferita, prima in modo timido, giusto un rivolo a scivolare lungo i bordi, bagnare ai lati gli avambracci. Prenderemmo con delicatezza i lembi di questa apertura, io i miei e tu i tuoi, e la apriremmo il più possibile, per fare vedere all'altro ciò di cui siamo fatti veramente, ovvero nervi muscoli e tendini, una poltiglia tinta di un rosso denso, così appiccicosa da riuscire a tenere tutto quanto insieme. Pure i ricordi, o i pensieri. Questo solo se ammettessi in modo consapevole che quello che stiamo facendo sia solo una finzione.
Invece.
Oggi è tutto diverso. Le uniche domande che ci facciamo non sono quelle vere, quelle di cui davvero vorremmo sentire la risposta, a prescindere da quale essa sia. No, le domande che ci facciamo sono per esempio quanto ancora dovrà durare questa eterna lezione di anatomia, dove io mi vesto da quell'esperto che non sono e ti vengo a indicare con spregevole arroganza quali sono le vene e le arterie più importanti, i canali per accedere al cuore, come tagliarlo, conservarlo per farlo funzionare ancora, recidere i legami, i ventricoli, i sistemi di movimento, quali i muscoli e quali invece le ossa. Non ho nessuna voglia di disperdermi ancora di più in quello che non sono. Non posso spiegarti concetti che neppure io capisco. E si vede bene, come arranco, quanto tento in un modo o nell'altro di fingere alla perfezione, senza voce tremante, sicuro, ma sicuro solo delle bugie. Quando ti dico: vedi questa parte in rilievo qui sul dorso della mano, quella che può sembrare una vena che risale tutto il braccio e poi scompare verso la spalla? Non è una vena, ma è il canale che porta le parole fino alla punta delle dita.
Quando cerco di spiegarti lo faccio più per tentare di spiegarmi. Credo che chi si senta in grado di impartire delle lezioni debba per lo meno avere le idee chiare su se stesso, prima di andare ad analizzare con cura gli altri. Io dalle situazioni posso solo intuire i fatti, ciò che provoca o cosa implica, i risultati come in una particolare equazione, dove le variabili sono infinite e le persone si travestano da numeri anche se numeri non sono. È per questo che sbaglio: perché sostituisco a figure complesse dei numeri semplici. Per cercare di risolvere calcoli difficili non si può pretendere di arrivare a soluzioni facili. Se i risultati poi tornano significa soltanto che nel procedimento si è barato.
Forse hai ragione quando dici che i compiti non vanno copiati. La mattina presto prima di entrare in classe, seduti ai tavoli freddi del bar davanti la scuola. In questo modo si perdono i passaggi, e i concetti sono sempre nascosti in quelle righe vuote che lasciamo tra una parte e l'altra, tra la fine di un calcolo e l'inizio di quello successivo. Le cose davvero importanti da imparare sono invisibili proprio quanto le parole rimaste dentro le penne per spiegare come mai abbiamo deciso di fare in quel modo. Imparare significa accumulare quanti più errori possibili, freghi rossi da maestre o professori, tracciati con violenta ferocia sui nostri pomeriggi studiati non sui libri quanto piuttosto negli sguardi o nelle occhiate, i respiri, per potere capire quando uno di questi debba essere trattenuto oppure rilasciato; quando trasformare un battito in un palpito. Solo in questo modo, forse, riusciremmo un giorno a tradurre tutti i segnali che ci scagliamo forsennati addosso. E cerchiamo di non fraintenderli, e proviamo a raccoglierli quando ci vengono addosso urtandoci, oppure sfiorandoci appena; quando cadono e si frantumano in mille pezzi minuscoli, quasi polvere, e di quella polvere abbiamo piene le mani, strette a pugno, per non perderne neppure un grammo. Prendiamo la sabbia e ce la ficchiamo a forza dentro le tasche, per renderci pesanti, non volare via come i palloncini gonfiati a elio. Vogliamo rimanere con i piedi per terra, forse perché questo ci fa credere di essere al sicuro, che più a terra di così non si possa andare, che se camminiamo tranquilli non potremmo mai cadere, e senza cadere sia impossibile farsi del male.
Ripetimi ancora che le mie cicatrici sono firme sul mio libretto universitario, esami verbalizzati, e che non dovrei vergognarmi di farle vedere, anzi dovrei esserne orgoglioso, come trofei vinti, attestati di stima o prove di avere capito qualcosa, quando invece non ho capito un cazzo. Perché si capisce sempre solo quello che si vuole capire, non c'è spazio per i significati in questi intricati bivi dentro i quali ci perdiamo. Sempre. Senza sapere mai dove siamo veramente e verso quale meta stiamo spingendo la rotta.

mercoledì 29 giugno 2011

In campagna

Il corpo di lui era sdraiato di lato, rivolto a occhi chiusi verso la parete e non invece verso di lei come avveniva invece durante le prime notti della loro relazione, quando si attorcigliavano con gambe braccia dita, tutte intorno a se stessi, dopo avere fatto sesso o anche dopo non averlo fatto, o avere letto alcune pagine di libri posati poi sul comodino in modo disordinato. Tutto questo quando avevano una camera e un letto sul quale dormire, ben diverso dal periodo durante il quale di nascosto si andavano a perdere nelle strade sperdute di montagna, al limitare dei boschi, dove parcheggiavano tra gli alberi e gli aghi di pino dei sempreverde, e si spogliavano dei vestiti buttandosi sul sedile posteriore della macchina di lui - un'utilitaria piuttosto piccola e per questo scomoda per farci quello che ci dovevano fare - tutti rannicchiati dietro, con lui sotto che doveva piegare le gambe per riuscire a non sbattere i piedi sui finestrini chiusi, e lei che china in avanti, poco sopra di lui, cercava di togliersi il maglione nel modo meno impacciato possibile, nel tentativo di non sciupare quel minimo di atmosfera che poteva essersi creata in una macchina spenta parcheggiata tra gli alberi, finendo poi con lo scoppiare di risate genuine, di entrambi, mentre lei restava con addosso il reggiseno nero e lanciava la maglia appena sfilata sul sedile del passeggero, insieme alla sua borsa, e si chinava su di lui per accarezzarlo, ridere in sbuffi non trattenuti e cercare di smorzare le risate con dei baci poco profondi ma nonostante questo più o meno teneri.
Quando si appartavano d'inverno i loro respiri si condensavano in vapori fluttuanti appena fuori le loro bocche. Per scherzo a volte si respiravano addosso, come il bue e l'asinello nel presepe, per cercare di riscaldarsi quando appena dopo non avevano voglia di rivestirsi subito, e il vedere o anche solo toccare i propri corpi nudi era un piacere molto simile a quello sessuale appena spremuto. Si rannicchiavano sotto un plaid arancione che lui teneva nel portabagagli e che prima di iniziare si era preso la briga di recuperare, andandolo a posare sul proprio sedile, davanti allo sterzo; oppure a volte lei se lo avvolgeva sulle spalle, giocando a fare l'indiana quando ancora si trovava sopra di lui, e si muoveva o si lasciava muovere dai movimenti del bacino di lui, fino a perdersi del tutto senza rendersi più conto di chi muovesse cosa e di cosa chi, la vista confusa, il plaid che ormai non serviva più perché le pareva di bruciare da dentro, prendere fuoco appena sotto la pelle, al di là del freddo oggettivo che poteva imperare all'interno di quella macchina, erano scaldati dai movimenti, dalle scosse elettriche che scintillavano rispettivamente nel bacino di lui e nel bacino di lei, per propagarsi in passioni lungo tutto il loro corpo, facendo dimenticare l'oggettività della situazione, ovvero la temperatura esterna di una notte che poteva essere di novembre o di dicembre, e immergerli di nuovo solo una volta spentasi anche l'ultima fiammella di quel fuoco dentro la fredda realtà, scaraventadoli tra i battiti di denti ad accucciarsi sotto quel plaid recuperato velocemente, incastrandosi sotto di esso nel tentativo di entrarci entrambi, più o meno bene o comodi, o sdraiati sui sedili, tutti e due di lato per occupare meno posto, le gambe legate forse più strette di quanto non lo fossero brevi attimi prima, le braccia abbracciate sotto la testa, con lui che giocava a districarsi le dita dalla complessa ragnatela dei capelli spettinati di lei, privati dalla furia di qualsiasi ordine preesistente; oppure sempre lui che con la punta dell'indice le lisciava una porzione di coscia laterale, tra la sporgenza dell'anca e il centro esatto della coscia stessa, uscita fuori dalla copertura del plaid. Lei rideva, dapprima, per poi mordersi un poco le labbra nel trattenere dei fremiti quando lui iniziava a fare passare l'unghia leggera sempre più lentamente in slalom tra i bordoni che iniziavano a confonderle la pelle, non tanto per il freddo quanto piuttosto per il contatto di lui e per la conoscenza sempre da parte sua di quanto quello strofinarsi quasi impercettibile la eccitasse in modo frenetico e inerme, come se lei fosse legata a una sedia o su di un letto a imitare la posizione dell'uomo vitruviano e non potesse muoversi o fare alcunché mentre dentro provava quella sensazione di sospensione di stare in bilico sull'orlo di un vulcano sempre un attimo prima di una violenta eruzione in zampilli di lava mista a cenere e zolfo che però non scoppiava mai.
Non aveva mai rimpianto quel periodo per la comodità o per il freddo o il caldo. D'estate si spremevano via tutte le forze fino a grondare di sudore. Non importava quanto potessero tenere i finestrini aperti. Anche di sera o di notte l'aria era appesantita dall'afa insopportabile che pareva aggrapparsi a ogni singola molecola di ossigeno per trascinarla verso il basso. D'estate prima di prendere la via per tornare in città o in paese o in qualsiasi altro posto più civilizzato, uscivano di macchina e ancora nudi si lasciavano baciare dalla breve brezza, se c'era, o dalla luce della luna, le stelle, sentendo le gocce di sudore che imperlavano i loro corpi ghiacciarsi in un soddisfacente riverbero di freschezza, sulle tempie, lungo la schiena, tra le natiche arrossate dal loro continuo afferrarsi.
Si abbracciavano e si baciavano, ancora con trasporto, prima di rivestirsi e andarsene via. Non era quella clandestinità che rimpiangeva, no, quanto piuttosto la passione. Non sapeva per quale motivo ma quando si trovava a dovere fare una somma della sua vita sessuale con suo marito si trovava sempre a dovere fare il conto con un risultato negativo, dove quel periodo primitivo era l’unico picco presente.

martedì 28 giugno 2011

Bolla

Non è il cuore, lui lo sa. Il cuore può battere forte o avere dei sussulti, ma ha poco altro potere. Non sono neppure i polmoni, anche se la zona è più o meno quella, dentro la cassa toracica, però a volte può raggiungere pure lo stomaco, comprimerlo verso il basso, attorcigliarlo in modo complicato; quindi non possono essere loro, abbracciati come sono dalla pleura. A dire la verità non è un organo vero e proprio, qualcosa di tangibile, visibile magari durante un'autopsia, quanto piuttosto una bolla, una specie di palloncino che si gonfia e si sgonfia a seconda dello stato d'animo. Può essere grande e dolce, ma anche piccolo, duro e aspro. Cambia di forma, di sostanza. A volte è talmente malleabile da poterci fare qualsiasi cosa: un fiore, una stella di mare, un'autostrada intera con svincoli e sopraelevate, tornanti a salire sopra i suoi umori, portarlo a toccare il cielo con un dito. Allo stesso modo, in senso contrario, quando si irrigidisce diventa pesante come un macigno, un puntino minuscolo di piombo dal peso specifico infinito che pare dare una mano alla gravità nell'ancorarlo a terra.
L'ultima volta che questo palloncino si è gonfiato è stato quando lui lo ha abbracciato. Ne sentiva il contatto, e un'onda di calore è partita dal centro del suo petto a espandersi verso l'esterno, fino sotto le spalle. Non sentiva mai caldo sulle braccia, o alle gambe. I suoi arti erano come insensibili a quel tepore, nonostante lui lo potesse afferrare per un avambraccio o gli sfiorasse casuale una coscia. Quel palloncino si ingrandiva solo all'interno del suo busto, pure alla testa non arrivava mai. Paradossalmente arrivava vicino alla testa solo quando era triste, quando in teoria quella bolla doveva essere microscopica ma allo stesso tempo pesantissima. Quando avveniva lo sentiva fissarsi proprio sotto lo sterno, ed era una sensazione continua, persistente, un fastidio che per quanto si grattasse e cercasse di rimuovere non andava via, né si allietava. Restava lì, al centro del suo petto, spostato rispetto al cuore - anche per questo non poteva essere il cuore - ma, non riusciva a capire come, ne sentiva anche una punta decisa, distaccata, alla base del collo, appena sotto la gola, impedirgli di respirare con tranquillità. Era come se un anello gli restringesse la trachea, facendo passare meno aria di quella di cui aveva bisogno. Questa era la sensazione che provava da quando lui se ne era andato quel giorno. Sempre, ogni giorno, ogni minuto. Questo cercava di spiegare alla dottoressa: il fastidio costante, sempre a camminare su di una lama affilata, un male che però non diventa mai dolore, bensì ti consumava lento, per sfinimento, inesorabile.

lunedì 27 giugno 2011

Fuori pioveva

Cambiati. Quanto diversi siamo diventati da quando ci sdraiavamo sul letto ancora disfatto, disegnando con lo sguardo cerchi colorati sul soffitto della camera, mentre fuori pioveva. Quei giorni durante i quali ci perdevamo spesso, senza fare niente, e per ritrovarci impiegavamo ore, giornate intere a frugare tra i rifiuti e i pensieri. Notti insonni dimenticate tra cuscini stropicciati, bisbigli sussurrati a orecchie delicate, mentre fuori la pioggia cadeva violenta per strada, il passo deciso del brutto tempo. E tu inventavi scuse per convincermi a restare, a non lasciarti. Dicevi di non sentirti al sicuro, di pensare a qualcosa di non normale. Non andare via, dicevi, soffro il sonno senza di te. La porta non si chiudeva, io a tre quarti sulla soglia. Il cigolio di un ripensamento. Abbracci serrati, stretti, mentre fuori pioveva. L'auto parcheggiata lontano, il passo svelto per non bagnarsi. Vestiti fradici, occhi lucidi.
Se mi guardo ora allo specchietto retrovisore mi accorgo di quanto sia opaco il mio sguardo. Ho macchie sulle guance. Il tempo si è aggrappato agli zigomi cercando di tirarli giù il più possibile. Le sopracciglia strappate con foga. La bocca secca. Quanta aria condizionata per condizionare i sentimenti, con psicologia serrata.
Tu dove sei in tutto questo? In quale parte del mio corpo ti sei nascosta a dormire? I ricordi sono tutti nelle dita. La punta comincia quasi a essere insensibile, ne perdo il controllo. Il tatto, non è più tuo. Il tocco, dicevi tu.
Le unghie: non mangiartele, tagliatele. E la lima che passavi per smussarne le unghie. Quante volte hai provato a passarla anche su di noi. Spesso le metafore servono a spiegare le storie, ma le storie non si aggiustano nello stesso modo delle metafore. Metafore e giorni sono cose diverse, inutile tentare di vestire le une con gli altri, o viceversa.
Il divano ci ascoltava mentre da parti distanti sorseggiavamo vino in bicchieri del tutto inadeguati. Fuori pioveva, il tempo passava. Le lancette degli orologi che non avevamo ai polsi ticchettavano veloci tanto da sembrare volare. I piccioni tubavano appena sotto la tettoia dell'edificio, riparati dal vento, dalla pioggia. Le rondini ogni anno tardavano sempre di più ad arrivare, con i bambini sui marciapiedi con la testa rivolta verso l'altro a guardarne i nidi vuoti, grappoli di rifiuti.
Quanta fatica a buttarmi fuori ogni sera, ricordi? Quando nessuno dei due aveva voglia di uscire al freddo. Televisione spenta, occhi di cemento. Settimane su settimane a girarsi attorno discorsi che dovevano apparire per forza innocui. Sentivamo le spine scendere dentro la carne, perché quello che volevamo dire non lo dicevamo ma ci cresceva lo stesso dentro. Un patto mai fatto, tra due persone che non hanno mai creduto nei patti.

giovedì 16 giugno 2011

Tutto sarebbe tornato a posto

Le separazioni che dobbiamo affrontare. Giorno dopo giorno. Come cicatrici che una sull'altra si accavallano.

Mentre l'ortica mi addentava le gambe, ho proseguito a scivolare sulle ginocchia.

I consigli all'inizio mi proteggono, costruendo un argine ai miei dubbi, permettendo di muovermi dentro un ambiente pulito, sicuro, silenzioso. Poi, ogni volta, arriva la nausea: una sensazione profonda che attraversa lo stomaco e il tubo digerente esplodendo violenta nella gola.

L'uomo ha posato la pistola sul tavolo e io ho sentito il cuore fare una capriola dentro al petto.

Michele Cocchi

mercoledì 15 giugno 2011

Silenzio bianco

Il silenzio è un panno bianco steso all'infinito, dentro il quale ti ritrovi senza volerlo e anche volendo poi non sai più uscirne. È uno sfondo bianco senza fine, solo bianco e altro bianco solo. Non ha profondità in termini tridimensionali, sei una persona reale all'interno di uno spazio dove lo spazio si annulla. Non ha larghezza perché la sua larghezza oltrepassa tutte le altre larghezze possibili, per andare a finire nello stesso punto dove inizia la sua larghezza. Non ha altezza, perché i punti cardinali vengono cancellati, la destra e la sinistra, l'alto e il basso, non esiste niente di tutto questo. Galleggi. I piedi non si possono appoggiare dove non c'è terreno. Sei a gravità zero, ma con un accenno fastidioso di attrito, quello stesso che permette il movimento. Se ti guardi attorno non riesci a distinguere un punto preciso. Non c'è niente, un paesaggio o un oggetto, e tutto il tutto, ovunque, oltre te, è bianco. Cosa potrebbe distinguere il bianco qua dal bianco là? Se non riesci a distinguerlo non ha più senso parlare né di un qua né di là: è solo bianco. E tu ci sei in mezzo. Oppure da una parte. Chi può dirlo? Ti senti centrale a tutto questo silenzio, mentre magari sei solo una piccola parte di un altro silenzio ancora più grande, bianco nello stesso preciso modo. Identica tonalità, identica percezione dello sfondo di questo silenzio fatto bianco. Non trovi alcun indizio di fine. Il tuo silenzio ti pare non avere limiti, e se il tuo bianco non ha limiti allora è inevitabile che il tuo sia il solo bianco possibile, perché senza limiti o frontiere occuperebbe tutto lo spazio possibile. Infatti il tuo bianco non ha spazio, lo ha invaso del tutto, non lasciandone neppure un briciolo, un brandello sfilacciato di significato. Il bianco, il tuo bianco, ha sostituito lo spazio, inteso come luogo sul quale espandersi, ma anche spazio inteso come concetto. I due termini si sovrappongono, si confondono, uno si sostituisce all'altro. Non c'è spazio che non sia bianco nel tuo bianco, nel tuo silenzio.

giovedì 9 giugno 2011

Eternal Sunshine

tu mi lasci e poi io non ti cancello, perché lo splendore, terrore, di una mente così affina, che mi affila mi strofina che mi sospira, frasi dolci nelle orecchie piene di confetti, mi prende le guancie e le fa diventare rosse, passando il pollice a smacchiare via tutte le lacrime perdute amare, di chi crede di poter recuperare, arraffare, afferrare, affannare, guardare il mondo da una finestra, dire bello questo bello quello senza sentirsi un po' spegnere dentro. e invece urlare, spergiurare, gridare forte, più forte del vento: CHE NE HO LE PALLE PIENE DI TUTTO QUESTO TUO CONTINUO LAMENTO, che l'aria è troppo fredda, che l'aria è troppo calda. sparisci ti prego, non farmelo ripetere. vieni qui e abbracciami, stringimi forte, che ho paura di tremare.
nelle passeggiate distratte vicino alle bancarelle del lungo mare, facciamo finta di niente, ci mescoliamo tra facce tristi e facce allegre, facce così inutili e scostanti. ricordo ancora quando avevamo l'armadio tutto sparso per il pavimento, e ripetevamo di pulire, di ordinare dei cassetti, per corrispondenza, via internet o da un vecchio catalogo degli anni ottanta. riordinare i pensieri, i palinsesti, i sentimenti, quelli seri, mettere a posto la felicità - non se ne ha mai abbastanza e quando avanza non avanza, quando la cerchi non la trovi, finisce sotto il letto con i corpi degli uomini neri, i cadaveri dei nostri sogni, quelli lasciati cadere dal cuscino, quando andavamo a dormire con i capelli ancora bagnati, la salsedine intrecciata nei tuoi bagni sconfinati, o la pioggia fitta senza ombrello, correvamo per strada alla ricerca di un riparo: un porto, una tettoia, una cazzo di sentinella che ci scortasse fino alla fermata degli autobus più vicina. le macchine della polizia, le cisterne dei pompieri, le volanti dei carabinieri. ci nascondevamo non appena sentivamo una sirena, io Ulisse con le mani legate attorno a un cartello stradale, tu sorridevi, solare. sembravi vera, sembravi sincera, sembravi crederci fino in fondo, anche durante le nostre crisi e critiche più profonde. ti tappavi gli occhi, coprivi le orecchie. non volevi ascoltare niente e negavi l'evidenza. la verità, dicevano gli altri, è che siete due mondi distanti, così lontani che quando vi avvicinate troppo la gravità vi fa male, vi attraete a vicenda e vi spingete via allo stesso tempo. 'fanculo la fisica, dicevi nei tuoi momenti più leggeri, la chimica, 'fanculo la matematica dai segni distorti dei nostri sentimenti strambi, addizioni e sottrazioni per calcolare i buonumori, capire quale fosse il giorno migliore per chiederti di uscire, per poterti incontrare, anche solo per poter semplicemente parlare, del più e del meno, del tempo grigio piovigginoso, uggioso, sei meteoropatica ti ripetevo con un filo di voce, impaurito. non sapevo come l'avresti presa, questa ennesima definizione segreta, di te, vista ai miei occhi, non finivo mai di spiegarti.

mercoledì 8 giugno 2011

31/05/2011

se fossi brava con l’elettronica, se la tensione non fosse soltanto un qualcosa che mi toglie l’appetito e la corrente non avesse la forma dell’acqua del fiume, se sapessi dove vanno a finire i numeri quando non ho più dita per contarli e potessi spiegare com’è che i giorni passano e comunque ripassano sempre per le sette del mattino, allora costruirei una sveglia a condizione climatica, che suoni soltanto quando fuori c’è il sole e neanche una nuvola, che mi lasci dormire nei giorni che stanno tra il grigio malinconico del cielo e quello un po’ più triste dell’asfalto, che non si prenda il disturbo di ricordarmi che ho tutta un vita da riempire nel tempo che passa che tra l’oggi e il tuo o il suo o il chissà di chi ritorno, che non s’azzardi a farmi notare che ho tutta una vita che assomiglia ogni giorno di più a un passatempo, un modo come un altro per ingannare i mesi a venire — ancora non ho capito se sto andando loro incontro —, col cuore sempre esposto sul banco delle occasioni e il guinzaglio ogni volta di un poco più corto, e non mettere le dita nella presa, non mettere le mani nel fuoco, non mettere le braccia in grovigli di corpi umani in cui potresti rimanere incastrata.

se fossi brava con le parole, se condizionali fossero solo i tempi verbali e non i miei sogni, e il futuro tornasse una buona volta a essere semplice, se avessi capito in che ordine vadano messe le voci del vocabolario per riuscire a descrivere almeno metà dei miei sentimenti, allora forse smetterei di pensare che la bellezza che dici di vedermi addosso finisce non appena comincio a raccontarmi, allora forse riuscirei a farmi più bella ancora — un’ottima coppia di pessimi bugiardi —, anche vestita, anche spogliata e invecchiata e ingrassata di quel peso che vedo io sola quando giro gli occhi indietro, anche con le gambe che non dimostrano più vent’anni e questi miei occhi sempre più speranzosi e arresi, e le dita meticolose e neanche troppo dispiaciute che staccano i desideri dalle puntine sul muro e li ripongono dentro al cassetto delle stelle che non sono cadute, col cuore sempre aperto come un libro di avventure, e tu e lui e chissà chi altri ancora, appeso all’ultima pagina a chiedere, per favore, non fermarti, non ancora.

non svegliarti, ché il cielo s’è fatto liquido e forse son già le sette e comunque non è ancora ora.

Scritto da la ragazza dai capelli strani
An Invisible Sign of My Own

martedì 7 giugno 2011

Colpi di tosse

I colpi di tosse erano diventati sempre più frequenti. Gli salivano da un punto ben preciso della gola, in fondo, portando fuori tutto il marcio accumulato dentro. Rendevano il sapore del suo alito di un vago marcio scadente, con un certo intimo ribrezzo lo poteva gustare tutto. Non sapeva se gli altri, chi gli stava davanti magari parlandogli o ascoltandolo, potessero sentire quello stesso sapore di malattia rappresa che lui invece percepiva in bocca a ogni colpo di tosse. Doveva stare attento, si era detto, agli eventuali movimenti impercettibili del naso di chi gli stava davanti. Era sicuro si potesse vedere, se con attenzione ci si faceva caso, quando una persona si costringeva a non annusare l'aria attorno a sé. Più delle varie smorfie facciali, il ripugno nello sguardo, gli occhi nauseati, pensava fossero proprio le narici a potergli dare un'indicazione effettiva di quanto sdegno provassero le persone davanti a lui quando magari gli scappava un colpo di tosse profondo, uno di quelli capaci di estrargli dalla gola uno di quei respiri putridi già respirati e ingoiati.
Gli ultimi giorni i colpi di tosse erano pure più violenti. Veloci. Non gli davano neppure il tempo di portarsi una mano alla bocca. Non riusciva a pararsi. Gli straziavano il discorso, interrompendolo in un punto qualsiasi, non all'inizio, non alla fine, né in un punto preciso, magari quello più importante. Non gli offrivano una pausa a effetto. Non regalavano al momento un qualche segno di pathos o importanza. Gli tranciavano le parole a metà, a tre quarti, dopo avere pronunciato appena due lettere, una sillaba. Non sapeva quando lo avrebbero colto, non poteva prevederli. Lo coglievano del tutto impreparato, senza difese, neppure, appunto, una mano davanti alla bocca. Finiva per sputare tutta la saliva raccolta dentro la bocca, per quanto improvvisi questi fossero. Non riusciva a trattenersi perché gli capitava anche quando stava parlando, o quando stava pensando di iniziare a parlare. Le parole venivano tagliate non proprio di netto e quello che sputava ne rappresentava il sangue, non rosso ma in piccoli bollicine umide. Una parte della parola che stava pronunciando finiva la sua corsa dentro l'orecchio di chi lo ascoltava, mentre un'altra gli ripiombava in fondo ai polmoni per poi generare il colpo di tosse. Gli sputi erano lo strappo, quella parte di parola che non era riuscita a uscire dalla bocca ma che al tempo stesso era ormai troppo in alto per poterla riportare dentro i polmoni. Non era maleducazione o mancanza di riflessi. Il movimento della mano era anche veloce, nel correre rapido a coprirsi la bocca, ma i colpi di tosse erano talmente repentini che finivano prima ancora di potersi accorgere che stavano cominciando.
Lo interrompevano di continuo, i colpi di tosse. Non gli permettevano più di fare niente. Parlare era fuori discussione. Con il passare del tempo erano peggiorati e le parole non poteva altro che scriverle, inzuppando il foglio tanto di inchiostro quanto di saliva. Non poteva scendere dal letto, fare attività fisica, i colpi di tosse gli occupavano tutto lo spazio motorio che poteva controllare. Gli rubavano il fiato, rendendoglielo corto. Non poteva dare ossigeno ai muscoli perché tutto l'ossigeno era impegnato per alimentare i colpi di tosse stessi. Tossiva e tossiva solo per poter tossire ancora e ancora di più, sempre più spesso. Era diventato ripetitivo, noioso per alcuni. Fino a quando nell'indifferenza generale non diede un colpo di tosse speciale, intriso di un significato particolare, segreto, privato.
Nessuno se ne accorse.

lunedì 6 giugno 2011

La fine della strada

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Ero sempre in imbarazzo con le donne che prendevano troppo sul serio i loro trasporti sessuali, e la signorina Rankin non era il tipo che si potesse lasciare a fremere e a gemere sul letto sapendo che tutto ciò era solo puro e genuino divertimento.

Ma poiché non potevo sopportare di essere attivamente scontento di me stesso più di un certo periodo di tempo, quando quel tempo fu sul punto di scadere – alle sette e un quarto circa – andai a dormire. Solo l’intensità e la durata limitata dei miei sbalzi di umore mi trattenevano dal suicidarmi: così, questa mia abitudine di andare a letto quando le cose diventavano troppo orribili, questa deliberata conclusione della mia giornata, era in sé una specie di suicidio, e serviva allo scopo altrettanto bene. I miei umori erano degli ometti: una volta ammazzati erano morti completamente.

“L’idea del ‘matrimonio a tutti i costi’ di certo non mi convince e sono sicuro che anche Rennie la pensa così. Non c’è niente di intrinsecamente prezioso, nel matrimonio.”
“Al vostro matrimonio, però, mi sembra che diate un valore abbastanza alto”, dissi.
Mi diede un’occhiata di disappunto e sentii che se fossi stato sua moglie mi avrebbe corretto anche più severamente.
“State facendo lo stesso errore fatto da Rennie poco fa, prima di cena: l’errore di pensare che se un valore non è intrinseco, oggettivo e assoluto, in certo qual modo non è reale. Ciò che ho detto è che il rapporto matrimoniale non è più assoluto di qualunque altra cosa. Ciò non significa che non lo apprezzi; anzi credo di apprezzare il mio rapporto con Rennie più di qualsiasi altra cosa al mondo. Ma significa che, una volta ammesso che non è assoluto, dovete decidere voi stessi le condizioni alle quali il matrimonio è importante per voi. Ok?”

Nella mia morale il massimo che un uomo può fare è aver ragione dal suo punto di vista; non c’è nessun motivo generale perché debba preoccuparsi di difendere il suo punto di vista e, ancor mono, aspettarsi che un altro lo accetti; la sola cosa che può fare è agire in conseguenza di esso, perché non esiste nient’altro. Deve aspettarsi un conflitto con gli uomini o le istituzioni, che hanno anche loro ragione dai loro punti di vista, ma che hanno punti di vista diversi dai suoi.

“Sarei un pazzo se mi aspettassi che il mondo debba scusare le mie azioni semplicemente perché sono in gradi di spiegarle chiaramente.
Questa è una delle ragione per cui non mi scuso mai per qualcosa”, disse Joe infine. “È perché non ho il diritto di aspettarmi che voi o chiunque altro accettiate qualunque cosa io faccia o dica – ma posso sempre spiegare ciò che faccio o dico. Non c’è senso nello scusarsi, perché niente è difendibile fino all’ultimo. Ma un uomo può agire coerentemente in un modo che può sempre spiegare, se vuole. Questo è importante per me.”

“L’idea è che voi potete avere desideri contrastanti – cioè il desiderio di non cenare con noi e il desiderio di non offenderci. Ma se finite col venire a cena è perché il secondo desiderio è stato più forte del primo: a parità di condizioni voi non vorreste mangiare con noi, ma dato che le condizioni non sono mai pari, voi effettivamente preferite mangiare con noi piuttosto che offenderci. Perciò mangiate con noi – e questo, alla fine, è quello che volete fare. Non avreste dovuto dire che avreste mangiato con noi, che ne aveste voglia o meno; avreste dovuto dire che avreste mangiato con noi se ciò avesse soddisfatto in voi desideri più forti che non il non mangiare con noi”.
“È come far la somma di più cento e meno novantanove”, disse Joe. “Il risultato è appena positivo, me è completamente positivo. Ecco un’altra ragione per cui è sciocco che qualcuno si scusi per qualcosa che ha fatto sostenendo che veramente non lo voleva fare: ciò che voleva fare, alla fine, è ciò che ha fatto.”

Si sentiva di dover star zitti perché una sola parola avrebbe potuto sbilanciare l’universo.

“Nella vita”, disse, “non ci sono personaggi essenzialmente principali o secondari. Sotto questo riguardo tutta la letteratura narrativa e biografica e la maggior parte della storiografica sono una menzogna. Ognuno è necessariamente il protagonista della storia della sua vita. L’Amleto potrebbe essere raccontato dal punto di vista di Polonio e chiamato La tragedia di Polonio, Ministro della Real Casa di Danimarca. Scommetto che lui non pensava di essere in niente un personaggio minore. O supponete di far parte della scoperta d’onore in un matrimonio. Dal punto di vista dello sposo, è lo sposo il personaggio principale; gli altri recitano parti secondarie, perfino la sposa. Ma dal vostro punto di vista il matrimonio è un episodio secondario nella interessantissima storia della vostra vita, e la sposa e lo sposo sono entrambi delle figure secondarie. Ciò che avete fatto è scegliere di recitare la parte di un personaggio secondario: può essere piacevole per voi far finta di essere meno importante di quello che sapete di essere, come fa Ulisse quando si traveste da porcaro. E ogni persona presente al matrimonio vede se stessa come il personaggio principale, che accondiscende ad assistere allo spettacolo. In questo senso la narrativa non è una menzogna, ma una rappresentazione veritiera della deformazione che ognuno fa della vita.

Forse non approvate quello che avete fatto ma è chiaro che lo volevate fare, altrimenti non l’avreste fatto. Ciò che un uomo finisce per fare è ciò ch esi deve prendere la responsabilità di aver voluto fare.

Quello che era stato era stato, ma, dopo tutto, il passato esiste solo nella mente di chi ci ripensa nel presente, e quindi nelle interpretazioni che gli vengono date. In questo senso non è mai troppo tardi per fare qualcosa riguardo al passato.

“E va bene”, protestai con forza, “naturalmente nulla è importante in sé per sé, ma è serio tutto quello che vogliamo prendere sul serio. Non c’è ragione di prendere in giro la serietà di un altro uomo.”

Questo è il paradosso: in qualunque società non primitiva, un uomo, di solito, è libero solo nella misura in cui osserva tutte le regole di quella società.

Anche se non è effettivamente vero che ti amo, il fatto che la cosa potrebbe esser possibile – il fatto che non sono sicura di non amarti – uccide tutto. Questo non risolve alcun problema: è il problema.

Ero facilmente e smodatamente sensibile a ogni dimostrazione di affetto da parte di persone che ammiravo o rispettavo in qualche modo.

John Barth

mercoledì 1 giugno 2011

Maggio 2011


"It must be like I’m in your dream, and you in mine, or something."

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