Mettiamo che tutto questo sia una semplice finzione - e ti prego, ripetimelo fino alla nausea, altrimenti rischierei di non crederci, più - potremmo stare tranquillamente seduti a parlare, per ore e ore, sorseggiare un po' di vino, chiacchierare, ridere. Niente di trascendentale, niente di pericoloso. Nessuna lama affilata, nessun coltello seghettato. Potremmo al massimo sezionare i nostri rispettivi arti, le braccia stese sul tavolo in dono offerto all'altro, per aprirli dall'incavo del gomito fino al polso. Un taglio netto, dritto, non tremolante dalla paura, ma lineare come la coscienza di chi sa cosa stia facendo. Potremmo osservare la linea rosso del sangue sgorgare dalla ferita, prima in modo timido, giusto un rivolo a scivolare lungo i bordi, bagnare ai lati gli avambracci. Prenderemmo con delicatezza i lembi di questa apertura, io i miei e tu i tuoi, e la apriremmo il più possibile, per fare vedere all'altro ciò di cui siamo fatti veramente, ovvero nervi muscoli e tendini, una poltiglia tinta di un rosso denso, così appiccicosa da riuscire a tenere tutto quanto insieme. Pure i ricordi, o i pensieri. Questo solo se ammettessi in modo consapevole che quello che stiamo facendo sia solo una finzione.
Invece.
Oggi è tutto diverso. Le uniche domande che ci facciamo non sono quelle vere, quelle di cui davvero vorremmo sentire la risposta, a prescindere da quale essa sia. No, le domande che ci facciamo sono per esempio quanto ancora dovrà durare questa eterna lezione di anatomia, dove io mi vesto da quell'esperto che non sono e ti vengo a indicare con spregevole arroganza quali sono le vene e le arterie più importanti, i canali per accedere al cuore, come tagliarlo, conservarlo per farlo funzionare ancora, recidere i legami, i ventricoli, i sistemi di movimento, quali i muscoli e quali invece le ossa. Non ho nessuna voglia di disperdermi ancora di più in quello che non sono. Non posso spiegarti concetti che neppure io capisco. E si vede bene, come arranco, quanto tento in un modo o nell'altro di fingere alla perfezione, senza voce tremante, sicuro, ma sicuro solo delle bugie. Quando ti dico: vedi questa parte in rilievo qui sul dorso della mano, quella che può sembrare una vena che risale tutto il braccio e poi scompare verso la spalla? Non è una vena, ma è il canale che porta le parole fino alla punta delle dita.
Quando cerco di spiegarti lo faccio più per tentare di spiegarmi. Credo che chi si senta in grado di impartire delle lezioni debba per lo meno avere le idee chiare su se stesso, prima di andare ad analizzare con cura gli altri. Io dalle situazioni posso solo intuire i fatti, ciò che provoca o cosa implica, i risultati come in una particolare equazione, dove le variabili sono infinite e le persone si travestano da numeri anche se numeri non sono. È per questo che sbaglio: perché sostituisco a figure complesse dei numeri semplici. Per cercare di risolvere calcoli difficili non si può pretendere di arrivare a soluzioni facili. Se i risultati poi tornano significa soltanto che nel procedimento si è barato.
Forse hai ragione quando dici che i compiti non vanno copiati. La mattina presto prima di entrare in classe, seduti ai tavoli freddi del bar davanti la scuola. In questo modo si perdono i passaggi, e i concetti sono sempre nascosti in quelle righe vuote che lasciamo tra una parte e l'altra, tra la fine di un calcolo e l'inizio di quello successivo. Le cose davvero importanti da imparare sono invisibili proprio quanto le parole rimaste dentro le penne per spiegare come mai abbiamo deciso di fare in quel modo. Imparare significa accumulare quanti più errori possibili, freghi rossi da maestre o professori, tracciati con violenta ferocia sui nostri pomeriggi studiati non sui libri quanto piuttosto negli sguardi o nelle occhiate, i respiri, per potere capire quando uno di questi debba essere trattenuto oppure rilasciato; quando trasformare un battito in un palpito. Solo in questo modo, forse, riusciremmo un giorno a tradurre tutti i segnali che ci scagliamo forsennati addosso. E cerchiamo di non fraintenderli, e proviamo a raccoglierli quando ci vengono addosso urtandoci, oppure sfiorandoci appena; quando cadono e si frantumano in mille pezzi minuscoli, quasi polvere, e di quella polvere abbiamo piene le mani, strette a pugno, per non perderne neppure un grammo. Prendiamo la sabbia e ce la ficchiamo a forza dentro le tasche, per renderci pesanti, non volare via come i palloncini gonfiati a elio. Vogliamo rimanere con i piedi per terra, forse perché questo ci fa credere di essere al sicuro, che più a terra di così non si possa andare, che se camminiamo tranquilli non potremmo mai cadere, e senza cadere sia impossibile farsi del male.
Ripetimi ancora che le mie cicatrici sono firme sul mio libretto universitario, esami verbalizzati, e che non dovrei vergognarmi di farle vedere, anzi dovrei esserne orgoglioso, come trofei vinti, attestati di stima o prove di avere capito qualcosa, quando invece non ho capito un cazzo. Perché si capisce sempre solo quello che si vuole capire, non c'è spazio per i significati in questi intricati bivi dentro i quali ci perdiamo. Sempre. Senza sapere mai dove siamo veramente e verso quale meta stiamo spingendo la rotta.
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