venerdì 28 giugno 2013

Unbelievers

Got a little soul
The world is a cold, cold place to be
Want a little warmth
But who’s going to save a little warmth for me

We know the fire awaits unbelievers
All of the sinners the same
Girl you and I will die unbelievers bound to the tracks of the train

See the snow come down
It’s coming on down from the highest peak
Want a little leaf, but who’s going to save a little leaf for me

We know the fire awaits unbelievers
All of the sinners the same
Girl you and I will die unbelievers bound to the tracks of the train

I’m not excited
But should I be
Is this the fate that half of the world has planned for me?

I know I love you
And you love the sea
Wonder if the water contains a little drop little drop for me

See the sun go down
It’s going on down when the night is deep
Want a little light but who’s going to save a little light for me?

We know the fire awaits unbelievers
All of the sinners the same
Girl you and I will die unbelievers bound to the tracks of the train

If I’m born again I know that the world will disagree
Want a little grace but who’s going to say a little grace for me?

We know the fire awaits unbelievers
All of the sinners the same
Girl you and I will die unbelievers bound to the tracks of the train

I’m not excited
But should I be
Is this the fate that half of the world has planned for me?

I know I love you
And you love the sea
Wonder if the water contains a little drop little drop for me

I’m not excited
But should I be
Is this the fate that half of the world has planned for me?

I know I love you
And you love the sea
Wonder if the water contains a little drop little drop for me
Performed by Vampire Weekend

mercoledì 26 giugno 2013

Into Darkness: Star Trek

Lo spazio profondo attende. I suoi confini restano lì, fermi, mentre il resto si estende verso l’infinito, in attesa di essere esplorato. Sarà compito dell’equipaggio della Enterprise setacciare ogni singolo pianeta sperso nello spazio esterno per conoscere e comprendere nuove specie di vita. Ma non sarà l’equipaggio di questo Enterprise a farlo, non ancora. Sarà quello della serie originale del telefilm. Quello del film di Abrams ha il compito di riscrivere la storia e di narrarne in modo alternativo i presupposti, anticipando forse un po’ gli eventi.
Adrenalinico, ricco di effetti speciali e di azione, la pellicola, proposta solo in versione 3D nelle sale delle vicinanze (ma che si reggerebbe bene in piedi, e forse meglio, senza gli occhialini) magari può porgere il fianco a qualche critica extra-fanmade, ovvero quelle più generiche che esulano le teorie e le congetture nerd. A mente fredda possono essere individuati alcuni buchi nei quali la sceneggiatura viene forzata per l’evolversi della storia, ma Abrams è bravo a nasconderli, coinvolgendo lo spettatore in un vortice di narrazione ed eventi che non lasciano tempo per riflettere molto su cosa realmente accada. Si segue il percorso che il regista vuole far seguire, quello impresso nella pellicola come un solco, e lo si percorre assai gradevolmente, godendosi tutto il tempo della proiezione sognando a occhi aperti. Un risultato ottimo per quelli che dovrebbero essere un film di fantascienza.
Gli estimatori di lungo corso della saga, quelli che seguivano il telefilm originale in tv, avranno sicuramente di che lamentarsi, così come avvenne con il primo episodio di Abrams, ma bisogna dare merito al regista americano di essere riuscito a riportare entusiasmo sulla plancia della mitica nave della flotta stellare. Un rinnovamento che potrà fare storcere la bocca a qualcuno ma che è stato capace di portare molta gente che inizialmente non era attratta da Star Trek a vedere un film di Star Trek. Un bottino non di poco conto, soprattutto per le tasche delle case di produzioni.
Un film bello e piacevole che lascia ben sperare per il prossimo riavvio a cui è chiamato Abrams. Un lavoro che lo porterà a vere e proprie guerre e che lo vedrà vestire oltre i panni del regista anche quelli di pacificatore: il nuovo episodio del tanto odiato (dai treker) Star Wars.
E che la forza sia con lui.

martedì 25 giugno 2013

Una chiacchierata

Ci eravamo arrampicati su per gli stretti tornanti fino ad arrivare a quella che alcuni secoli prima era una rocca a difesa della città sottostante. Il tempo aveva lasciato ben poco, solo qualche masso impilato uno sopra l’altro a vago ricordo di un muro di cinta. In un angolo, il più remoto e lontano dalla vista, si poteva immaginare ergersi una torre quadrata, la base era appena accennata. Da lì alcuni uomini di vedetta facevano la guardia per controllare che all’orizzonte non arrivassero i nemici.
Pochi anni prima la circospezione comunale aveva deciso di adibire l’intera zona a una specie di area protetta, un luogo di interesse culturale, o spazio archeologico, non ricordo bene. Il risultato fu una festa celebrativa durante la quale tutti quanti si divertirono a vestirsi con abiti medioevali e a favellare come era uso fare all’epoca. Era stata anche fatta una passeggiata panoramica, lungo la quale ci si poteva mettere a sedere su una delle panchine in legno e restarsene in coppia a parlare, oppure semplicemente a guardare di fronte a sé.
Noi eravamo seduti proprio su una di quelle panchine. Fin da subito la zona non aveva attirato nessun tipo di turismo, né tantomeno era diventata il nucleo principale di ritrovo della gioventù cittadina. Era sempre per lo più deserta, se si escludono alcuni tossici che di tanto in tanto vi trovavano rifugio per spacciare e comprare e. L’erba, quella ai bordi delle strade, compresa la passeggiata che doveva essere il fiore all’occhiello dell’intera area, cresceva incontrollata senza che nessuno si prendesse il fastidio di tagliarla regolarmente. Nelle sere d’estate più fortunate potevi sentire il lieve alito di vento soffiare tra i ciuffi più alti, muoverli in un danza ondulata, e startene a occhi chiusi a goderti quella leggera brezza rinfrescare le giornate sempre più calde.
Noi andavamo là a prescindere dal tempo. Non aspettavamo l’estate per salire lassù. Ci andavamo quando più ci tornava comodo, anche d’inverno se ne sentivamo il bisogno. Era un buon posto dove starsene in pace a parlare. Quella volta per esempio era abbastanza freddo ed entrambi indossavamo una giacca di pelle. Tenevamo il bavero rialzato per ripararci il collo mentre un sorso dopo l’altro ci passavamo una bottiglia di vino rosso che avevamo portato da giù.
Lei parlava, poi si fermava. Aspettava qualcosa che pareva non arrivare mai, un segno o un indizio, dopodiché riprendeva a parlare. Si tuffava in discorsi così appassionati che le parole sembravano prendere forma davanti a noi. Sentiva fortemente quello che diceva. I suoi discorsi erano individui, li partoriva quasi.
Lo spettacolo era fantastico. Eravamo abbastanza in alto e abbastanza dispersi nel nulla da essere illuminati solo dalla luce della luna, piena quella sera. Allo stesso tempo di fronte a noi si srotolava il paesaggio della valle, fatto di strade collegate le une alle altre, con i lampioni ad accendere la notte e i fari delle auto percorrerle lente. Era come vedere il fluire di un sangue irradiato da chissà quale sostanza radioattiva.
Fino a quando io a un tratto mi decisi a dire: lui non capisce quale persona speciale tu sia. E fu lì che rovinai tutto. Non in quel preciso istante, non in quel momento, ma furono quelle parole che diedero il via a un processo di erosione che portò a smussare il terreno sul quale si appoggiava tutta quella stupenda sensazione di tranquillità e bellezza.
A volte lo capisce. Rispose lei. Capisce che sono speciale.
Aveva sentito nella mia frase un certo grado di critica negativa ed era subito corsa a cercare un riparo, un modo per giustificarsi giustificando lui.
Era calato un silenzio così denso da prendere quasi forma attorno a noi. Era un muro spesso e solido, non a difesa ma a separazione.
Non dovrebbe capirlo sempre, di continuo, dissi io, che sei speciale?

lunedì 24 giugno 2013

Come stare soli

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Il cervello non è un album in cui i ricordi vengono immagazzinati separatamente come fotografie inalterabili. Un ricordo è , invece, come afferma lo psicologo Daniel L. Schachter, una “costellazione temporanea” di attività – un’eccitazione inevitabilmente approssimativa dei circuiti neuronali che collegano un insieme di immagini sensoriali e dati semantici per creare la sensazione momentanea di un ricordo unitario. Immagini e dati sono raramente appannaggio esclusivo di un unico ricordo.

È molto difficile vivere con una persona molto infelice quando sospetti di essere la causa principale di quell’infelicità.

Una delle principali caratteristiche della mente è la smania di costruire interi a partire da frammenti. Tutti quanti abbiamo un vero e proprio punto cieco nel campo visivo, nella zona in cui il nervo ottico si congiunge alla retina, ma il nostro cervello registra immancabilmente un mondo senza soluzioni di continuità. Cogliamo parte di una parola e ci sembra di sentirla per intero. Vediamo volti espressivi in una tappezzeria a disegni floreali; siamo sempre impegnati a riempire gli spazi vuoti.

Mio padre era un uomo profondamente riservato, e per lui essere riservati significava mantenere il contenuto vergognoso della propria vita intima lontano dagli sguardi della gente.

La privacy perde valore se non esiste qualcosa a cui contrapporla.

Se sei uno scrittore e nemmeno tu hai voglia di leggere, come puoi aspettarti che qualcun altro legga i tuoi libri?

Il romanziere ha sempre più cose da dire a lettori che hanno sempre meno tempo per leggerle: dove trovare l’energia per dialogare con una cultura in crisi quando la crisi consiste nell’impossibilità di dialogare con la cultura?

Immaginiamo che l’esistenza umana sia definita da un Dolore: il Dolore di non essere, ognuno di noi, il centro dell’universo; di avere desideri che saranno sempre più numerosi dei mezzi a nostra disposizione per soddisfarli. Se consideriamo la religione e l’arte come i metodi storicamente preferiti per venire a patti con questo Dolore, che ne è dell’arte quando i nostri sistemi tecnologici ed economici e persino le nostre religioni commercializzate sono ormai abbastanza sofisticati da collocare ognuno di noi al centro del proprio universo di scelte e gratificazioni?

Non sopporto l’idea che la narrativa seria ci faccia bene, perché non credo che esista una cura per tutte le cose sbagliate del mondo, e anche se lo credessi, che diritto avrei di offrire una cura, io che per primo mi sento ammalato?

Ciò che emerge come elemento comune a tutti non è la certezza che un romanzo possa cambiare qualcosa, ma la certezza che possa preservare qualcosa.

La morte è una rottura del legame fra l’io e il mondo, e dato che l’io non può immaginare di non esistere, forse ciò che rende davvero spaventosa la prospettiva di morire non è la scomparsa della coscienza ma la scomparsa del mondo.

Il valore di un’azione della Philip Morris aumentò con un coefficiente di 192 tra il 1966 e il 1989. Sano, ricco e saggio, l’uomo che nel ’64 smise di fumare e investi i soldi delle sigarette in azioni Philip Morris.

Se il lavoro dello scrittore si basa sulla creazione di personaggi complessi su un ampio sfondo sociale, come si fa a scrivere un romanzo se gli elementi sullo sfondo sono indistinguibili da quelli in primo piano?

Jonathan Franzen

venerdì 21 giugno 2013

1784

Lei non ha più bisogno di credere
e accarezza le gambe ai suoi demoni
e come neve scioglie e confonde il silenzio
di un inverno che non può nascondersi

poi diventa luce che
non tradisce nessuno
come il fuoco che si sa fermare
è un coltello che non vuole fare male

e nei suoi occhi i miei sogni esplodono
nei suoi occhi i miei sogni esplodono
nei suoi occhi i miei sogni esplodono

purifica i miei slanci e travolgimi
paralizza le gambe ai miei angeli
avvicina le labbra

poi diventi luce e illumini
e non esiste nessuno
che non possa vederti volare
e sorridere sfiorando le parole

e nei tuoi occhi i miei sogni esplodono
nei tuoi occhi i miei sogni esplodono
nei tuoi occhi i miei sogni esplodono

luce delle ispirazioni
luce dei deserti
che riconosce e vedi gli alberi danzare
sai ferire le parole
trarle in salvo fino a diventare gesti
luce inestinguibile
luce di liberazione
scendi in strada qualunque strada
regala i tuoi occhi al mare
un bambino, i tramonti infiniti
ai poeti ai pazzi ai naviganti
perché di loro è il mondo
e non di chi li sta uccidendo
e fai che tutto sia difficile da imparare
che ci voglia attenzione sudore
impossibile da dominare...
impossibile da dominare...

Performed by Paolo Benvegnù

mercoledì 19 giugno 2013

The master




Il trauma della guerra durante la quale si è imparato a distinguere il tempo scomponendolo in lunghi giorni su spiagge assolate. Tornare a una vita fatta di quotidianità che non riesci più a capire: la vedi, passa davanti a te ma non riesci ad afferrarla. Anneghi tutto nell’alcool, quello stesso alcool che durante la guerra hai imparato a miscelare con una precisione distruttiva, rottamando ciò che distrugge davvero. Bevi, bevi, bevi e bevi ancora, non riuscendo mai a mantenere uno straccio di lavoro, mentre ti scopi una ragazza dietro l’altra per dimenticarne una sola precisa. Quando finisci dentro una storia, non ti rendi neppure conto di come diavolo tu ci sia finito, ma ormai è tardi: ti ci trovi impelagato e tutte le parole ti si appiccicano addosso senza riuscire a scrollartele di dosso. Chi ti parla, chi ti insegna e ha la presunzione di farlo, inventa le sue parole su parole su parole e viaggia in lungo e in largo basando la sua vita su una missione, su un preciso ordine di idee: l’opera di una vita, sotterrata in un deserto di altri pensieri. Sono parole che non valgono neppure la carta sulla quale si potrebbero stampare. Si stampano e poi si cambiano dopo averle dette, non tanto per lealtà intellettuale quanto piuttosto per attirare meglio. Non c’è scopo, non c’è una meta che rimane fissa. L’obbiettivo è attrarre quante più persone, riuscire a vivere andando più veloce possibile. Fissa un punto, e vacci a velocità supersonica. Quando ci arrivi scopri che l’orizzonte si è allontanato ancora di più, e allora vai oltre, vai oltre quel punto, ti spingi ancora più in là, per arrivare ancora una volta dove prima l’orizzonte si perdeva e da dove ora è già fuggito. Quando arrivi là, laddove la vita ti ha portato, scopri che ormai è tardi e non puoi più tornare indietro. Questo è quello che ti porta a capire la verità, e a buttartela alle spalle, perché niente è vero. Non tutte le parole che hai sentito e i metri che hai percorso avanti e indietro in una stanza.

martedì 18 giugno 2013

Non solo i cervelli fuggono dall'Italia

Breve riflessione sulle dichiarazioni del consigliere comunale Valandro sul ministro Kyenge (e relative presunte scuse)

Al nord, è risaputo, la Lega Nord (o quel che ne resta) domina incontrastata nonostante già nel nome del partito sia presente un grave errore, o per lo meno una grave omissione. Lega, ok, Nord, appunto, ma quale nord? Se i dirigenti avessero voluto fare le cose a modo, il movimento si sarebbe dovuto chiamare “Lega Nord Italia”. Non è un mistero infatti che quello che per noi è nord sia allo stesso tempo sud per qualcun altro. Basta leggere lo stesso nome con gli occhi di una persona che abita per esempio a Berlino e il partito di Maroni diventa un ossimoro complicato del quale è difficile cogliere il significato. Quale Lega Nord se loro sono al sud, si chiederebbe il cittadino tedesco.
Questo per sottolineare quanto qualsiasi cosa possa essere relativa e quanto, allo stesso tempo, le parole dovrebbero essere usate con attenzione. Quest’ultime sono un’invenzione dell’uomo e come qualsiasi invenzione esse possono essere utilizzate nel modo giusto (la ruota quale ingranaggio di un mezzo per spostarsi) o nel modo sbagliato (la stessa ruota di cui sopra usata per lavarsi i denti). Nei giorni scorsi il consigliere comunale Dolores Valandro di Padova ha usato le parole a sua disposizione nel modo più sbagliatissimo possibile (l’errore è voluto per evidenziare il grado di gravità di tali parole):
“Mai nessuno che la stupri?”
riferendosi al ministro per l’integrazione Cecile Kyenge.
Tenendo presente che il consigliere comunale esercita la sua fede politica sotto la bandiera della Lega Nord (Italia), e che la frase sopra riportata è stata scritta (su Facebook) a seguito dell’ultima tornata elettorale, che ha visto la Lega Nord (Italia) perdere consensi nonché comuni, le parole hanno avuto una cassa di risonanza tale da non poter passare inosservate.
Non appena la notizia è stata raccolta da testate giornalistiche nazionali, il consigliere comunale si è prontamente scusata con la diretta interessata (che per inciso è una donna di colore), sebbene non di persona (e qui mi domando che tipo di scuse possano mai essere quelle rilasciate ai mezzi di stampa [scuse di circostanza per cercare di recuperare la propria figura pubblica, mi rispondo io]), sottolineando però quanto le sue esternazioni fossero solo il risultato di un momento di rabbia.
Non so cosa Dolores Valandro volesse ottenere con una dichiarazione del genere, ma quello che a me è parso di sentire è un estremo tentativo di trovare una scusante, del tipo: non nego di aver detto quelle parole, ma non potete condannarmi perché non lo dicevo sul serio, quando sono arrabbiata non sono io a parlare, è la rabbia. Ammesso e non concesso che tutta questa personale ricostruzione dei fatti sia veritiera, ovvero che quelle parole siano state dette davvero in un momento di rabbia e non perché il consigliere comunale le pensasse davvero (lo spero), questo non dovrebbe essere certo una scusante. La rabbia, se è il sentimento che ha parlato al posto del consigliere, è pur sempre di sua proprietà ed è di sua responsabilità. Non ci si può nascondere dietro la scusa della rabbia per giustificare parole come quelle sopra riportate.
La cosa che mi ha sconvolto, oltre al fatto che alcune compagne di partito abbiano avuto la faccia tosta di provare pure a giustificare Valandro dicendo che lei non aveva fatto altro che dire quello che il popolo pensava (ma il popolo, o per lo meno la maggior parte di esso, pensa pure che tutta la classe politica sia marcia, che i parlamentari e i senatori guadagnino troppo sia sotto forma di sussidi che di stipendi, eppure tutto questo non è stato esternato da Valandro), è soprattutto che da un certo punto di vista questa dichiarazione di “scusa” sia stata accolta dall’opinione pubblica senza battere ciglio. Forse era quanto ci si aspettava, era il massimo che Valandro potesse dire dopo avere messo il piede, o per meglio dire la lingua (ma questa parola porterebbe ad altri scandali a causa della parola che segue), in fallo. Quando l’ho ascoltata, alla radio in auto mentre tornavo a casa, la prima reazione è stata quella di disgusto, a livello viscerale in modo istintivo, poi riflettendoci bene, in un secondo momento dopo avere metabolizzato le informazioni, mi è parsa la più classica delle lavate di mano: Valandro ha chiesto scusa ma non si è assunta la responsabilità di quanto detto. Ha demandato la responsabilità di quelle parole alla sua Rabbia, dividendola da sé stessa.
Se da una parte le dichiarazioni iniziali di Valandro risultano essere un grave uso delle parole, le successive scuse sono un vergognoso utilizzo di dialettica per distogliere l’attenzione dell’ascoltatore dal vero senso del discorso. Sono due aspetti entrambi da condannare, ma se le prime frasi hanno alzato un fuoco di indignazione (giusto), le seconde, quelle che avrebbero dovuto rappresentare le “scuse” ufficiali, non hanno portato alla stessa indignazione. Molto probabilmente perché le seconde sono mascherate da un leggero velo retorica, mentre le prime si sono presentate nude e crude in tutta la loro violenza. Non voglio soffermarmi sulle prime, visto che tanto chiunque ci si può soffermare e tutti i maggiori organi di stampa lo hanno già fatto (come era doveroso fare) ma voglio porre uno sguardo più attento sulle presunte scuse. Queste, secondo me, sono davvero vergognose e sono l’ennesimo specchio di cosa sia oggi la realtà italiana.
In un paese che sembra essere allo sbando, con un tasso di disoccupazione in costante crescita e un peso fiscale sopra la media europea, tutti quanti paiono non avere altro obbiettivo, scusate il francesismo, di pararsi il culo. In Italia, come potrebbe avvenire benissimo in altri paesi, c’è una fuga incredibile non tanto di cervelli quanto piuttosto di sbagli. Se si ascoltano dichiarazioni e/o interviste sembrerebbe che nesssuno, qui, sbagli mai: non c’è nessuno che abbia l’onestà intellettuale di ammettere di avere sbagliato, in modo chiaro e semplice. C’è sempre una piccola postilla che cerca di giustificare o di evadere lo sbaglio. Il risultato è che in Italia, appunto, sembrerebbe che nessuno sbagli.
La rabbia di Valandro è solo l’ultimo esempio di questa propensione all’allontanamento dell’errore dalla propria responsabilità. Da un certo punto di vista è anche traballante e incerto come esempio, non si regge in piedi da solo: la rabbia non può essere usata come scusante, altrimenti chiunque fosse arrabbiato potrebbe essere giustificato a prendere in mano una pistola e sparare in testa a qualcuno. È vero, ho ucciso tizio, ma i miei gesti erano dettati da un momento di rabbia. Voi lo scagionereste una persona che dice una cosa del genere? Per quale motivo allora dovrei discolpare Valandro che si scusa dicendo che le sue parole erano solo il frutto di un momento di rabbia?
Le parole. Le parole. Le parole sono importanti! Avrei apprezzato maggiormente una dichiarazione più semplice, che non ammettesse difese, magari anche più corta: mi scuso, ho sbagliato. Punto. Fine. È un errore, uno solo. È grosso, grande, razzista e pure disgustoso. È già abbastanza ingombrante da solo, per quale motivo lo vuoi accompagnare con un altro errore, ovvero il non ammetterlo? Questo non è un caso isolato, è solo l’ultimo di una lunga serie. È sempre così, lo è da tempo ormai, e gli errori, gli sbagli, invece di essere per così dire smaltiti si accumulano. Si alza il tappeto e li si nasconde lì sotto.
Il capostipite di questo atteggiamento è senza dubbio l’onnipresente Silvio Berlusconi. In vita sua pare non avere mai sbagliato neppure a soffiarsi il naso e nel corso degli anni ha affinato uno stile tutto suo che lo ha reso famoso in tutto il mondo. Quando era ancora Presidente del Consiglio B. si rese protagonista di una serie di sfortunate dichiarazioni, sia a livello nazionale che internazionale, che in tutta onestà erano difficilmente digeribili da chiunque. Ognuna di queste dichiarazioni ha scatenato, nel suo campo di interessi, un polverone di malumori nonché di crisi diplomatiche assai ardue da gestire. L’autore, con un triplo salto carpiato all’indietro con annessa supercazzola alla toscana, si è fatto beffa di chiunque lo accusasse di inesistente diplomazia dicendo che le sue erano semplici battute, delle innocenti barzellette.
Non posso dire più niente, si lamentava, ora vengo attaccato anche quando faccio dell’ironia. Il problema è che se si prendessero queste parole per vere, cioè che quelle di B. erano solo delle battute, si rischierebbe di entrare in uno scenario assai pericoloso e dal quale sarebbe difficile uscire. Qualsiasi cosa, una volta detta, potrebbe essere dichiarata battuta, anche la più terribile. Dichiari guerra e poi, dopo avere visto cosa ne segue, ti appresti a dire: hey, stavo scherzando. In un mondo dove tutto può essere una battuta, così come ogni giustificazione viene accettata come metodo per sfuggire dall’ammissione di colpa, non esisterebbero errori, verrebbero cancellati ancor prima di chiamarli tali. Sarebbe un mondo idilliaco, un mondo perfetto. Almeno sembrerebbe così. Ma in un mondo del genere, dove nessuno sbaglia, come si farebbe a giudicare una persona? Se tutti fanno le cose in modo perfetto, in egual modo, nessuno commette alcun tipo di errore, chiunque, tutti, sono perfettamente uguali. In un’azienda che fabbrica cristalleria un impiegato modello sarebbe identico a un altro impiegato che in un giorno si fa cadere dalle mani decine e decine di bicchieri di vetro. Non per colpa sua, sia chiaro. Una volta il vetro era scivoloso, un’altra volta un rumore l’ha spaventato, un’altra volta ancora c’è stato un blackout, un’altra volta…
Allo stesso modo, traslando l’esempio sulla scena politica, come puoi giudicare un politico se nessun politico commette errori? A questo punto tutti i politici sarebbero uguali e la tua scelta sarebbe ininfluente, in quanto sarebbe del tutto casuale, come estrarre un nome da una miriade di nomi tenendo gli occhi chiusi.
È questo che mi preoccupa delle “scuse” del consigliere comunale Valandro, ovvero che si è scusata cercando di giustificarsi per non ammettere la sua colpa. Ha dato la colpa a qualcun altro, o a qualcos’altro, anche se la rabbia, quella che lei accusa di essere la causa delle sue parole, è pur sempre la sua. È l’inizio di un processo che porta ad assegnare la colpa di qualsiasi cosa a un soggetto esterno, che a sua volta la scarica a un altro soggetto, il quale la gira a un altro soggetto, e così via, all’infinito, fino a quando la colpa è talmente diluita da risultare inesistente. Ma la colpa ovviamente rimane, e alla fine è nostra, perché accettiamo a prescindere qualsiasi tipo di scusa per giustificare un errore. Per esempio: perché la Lega Nord si chiama ancora così se è al nord solo dell’Italia?

lunedì 17 giugno 2013

Hitler


(Non ci sono parole di Hitler. Ogni sua singola parola va condannata, e poi dimenticata.)

Più riguardo a Hitler

Il tempo è una breve distrazione tutta umana.

Lei, muta che non parla, esige che di fronte a lei si sia muti e non si parli.
Il discorso che non può essere compreso.
Pallida, tremula come fiamma sul punto di spegnersi e mai si spegne.

La carne escresce. Essa tende non alla purificazione, ma alla putrefazione. È il destino lineare di questo accumulo di tendini, organi molli, ossa calcificate, metabolismi incerti: questo è il corpo umano. La curvatura dello spazio della carne: escrescenza, putrefazione. In essa non v’è splendore, se non transitorio, rapide epidermidi, chiare, profumi che sfumano.

Ricordiamoci sempre che le generazioni future dimenticheranno, per certo, gli uomini che seguirono il proprio utile soltanto. Esalteranno invece gli eroi, coloro che hanno rinunciato alla proprio personale felicità per il bene comune.

Nelle stanze della villa si consuma sesso bagnato di champagne. L’accolita NSDAP: intrighi, ricatti sessuali – sesso, sesso, sesso.

Trova requie soltanto quando inietta morfina nel braccio fitto di lividi lungo la linea della vena bluastra. È asservito alla sostanza.

Geli gioca consumata a questa elastica perversione che è respingere dando speranze.

L’uomo fa un passo: è sul cornicione.
Vede la folla sottostante, agitata, gente che letteralmente si strappa i capelli. Dalle finestre dell’edificio della Borsa vengono lanciati piccoli fogli: azioni a valore zero. È una pioggia di carta che incanterebbe, se non fosse la tempesta della tragedia al suo culmine. Le strade di New York sono arterie intasata dal colesterolo finanziario. Tutto il sistema venoso collassa.

Il suicida vuole la vita ed è scontento delle condizioni che gliela hanno resa assolutamente insostenibile. Perciò non rinuncia affatto alla volontà di vivere, ma solo alla vita nella quale distrugge la propria immagine della vita.

State attenti al potere di un libro. Esso è una fenice. Bruciatelo nel buio e ne vedrete, improvvisa, la resurrezione. Esso non è quello che sembra. L’idea è immateriale, si consolida soltanto momentaneamente nella carta. Scivola, serpentina. Persiste. Resiste. Non c’è fiamma che la intacchi.

C’è una profonda analogia tra l’invidia, che è un’inclinazione naturale, e lo spionaggio, che è una funzione sociale. La spia va a caccia per conto di altri, come il cane; l’invidioso va a caccia per conto di se stesso, come il gatto.

Giuseppe Genna

venerdì 14 giugno 2013

Io non esisto

Sto, sto pensando a te
Come non ho mai
Pensato a te
E sinceramente come non ho mai
Pensato ad altro
E passerà così un altro inverno freddo
Poi magari con l’estate mi riscaldo
Tanto già lo so che non cambierà un cazzo
Io per te non esisto
Ed è inutile che mi asciughi
Le lacrime quando piango
Ed è inutile che mi abbracci
Solo per restarmi accanto
Tanto io per te
Io non esisto
Tanto io per te
Io non esisto
Sto, sto sognando te
E sinceramente non ho mai
Sognato di sognare altro
E passerà così un altro inverno freddo
Poi magari con l’estate mi riscaldo
Tanto già lo so che non cambierà un cazzo
Io per te non esisto
Ed è inutile che mi asciughi
Le lacrime quando piango
Ed è inutile che mi abbracci
Solo per restarmi intorno
Tanto io per te
Io non esisto
Tanto io per te
Io non esisto

Performed by Thegiornalisti

giovedì 13 giugno 2013

La scienza d'estate

La scienza d’estate, soprattutto con i bambini, è più faticosa di quella fatta durante tutto l’anno con qualsiasi persona. Arrivi a sera stravolta e vuoi solo riposarti, mentre la mattina pare invece arrivare sempre prima, sempre più in fretta.

mercoledì 12 giugno 2013

To Rome with love




Un’accozzaglia di storie una messa accanto all’altra, talmente caotiche da farti domandare: ma che cazzo…? È lontano l’Allen di Midnight in Paris, così come pure quello di Vicky Christina Barcelona tanto che questo omaggio del maestro all’ennesima città europea appare come quello più debole, sia sotto l’aspetto del significato, del messaggio da dare, sia per quanto riguarda la costruzione della storia. Già il fatto che sia l’unico portato sullo schermo con storie separate, la cui unica linea guida pare essere l’ambientazione romana, potrebbe suggerire quanto la vena inventiva di Allen si sia allentata notevolmente nel partorire un lavoro inerente Roma. Non c’è niente che riesca a trattenere l’attenzione sullo schermo, neppure la presenza stessa di Allen in scena, né il gioco di riconoscere luoghi o facce di attori noti del passato e presente. Pure Benigni pare svogliato a livelli indescrivibili, e Ornella Muti è tutta un sorriso largo a faccia piena. L’unica porzione di storia che potrebbe essere interessante è quella che accomuna Alec Baldwin, Jesse Eisenberg e Ellen Page. Dico: potrebbe. L’alternanza con le altre storie insipide e soporifere mi hanno alla fine condotto tra le braccia di Morfeo. Ronf ronf.

martedì 11 giugno 2013

Le Cose Cambiano

Le cose cambiano. Le cose, si spera, cambino. Per farlo serve tutto, anche quel poco che potrebbe sembrare niente. Quindi nel mio piccolo faccio quel che posso, ovvero: non fingo di non vedere. Guardo, guardo e vedo. Vedo e ascolto. Nel farlo invito tutti, chiunque, a farlo e a condividerlo, perché se le cose cambiano, cambiano davvero solo se non le ignoriamo. Le cose cambiano quando decidiamo di vederle cambiate, di cambiarle. 

Le cose cambiano, quindi:


lunedì 10 giugno 2013

La neve cade sui cedri

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La prospettiva della morte in autunno, diceva era irrilevante in confronto alla felice percezione che essa aveva di partecipare alla vita dell’albero. Lì in America, spiegava, aveva paura della morte, la vita era separata dall’Essere. Una giapponese, invece, deve capire che la vita comprende la morte, e una volta avvertita la verità di questo principio conquista la tranquillità.

Ma non le era risultato difficile, la sera delle nozze, cacciare totalmente dal cervello Ishmael. Ci si era intrufolato, per così dire, soltanto per caso, perché i momenti romantici si collegano tutti l’uno all’altro, che lo si voglio o no, anche quando certe persone sono ormai morte da tempo.

Lui era sempre a corto di parole, fino dai tempi in cui non le padroneggiava un granché, ma lei sembrava capace di un silenzio che dentro di sé lui non sapeva trovare.

Era bello, baciarsi così dentro l’albero, perciò lo fecero per un’altra mezz’ora. Con la pioggia che cadeva, fuori, e il muschio morbido sotto la schiena, lui chiuse gli occhi e inspirò a fondo il profumo di lei attraverso le narici. Si disse che non sarebbe mai più stato così felice, e l’idea che tutto ciò stesse succedendo e che di conseguenza, per quanto a lungo lui potesse vivere, non sarebbe mai più successo nello stesso modo, gli fece sentire una specie di fitta di dolore.

Era fuori, in mezzo ai suoi raccoglitori, a selezionare fragole nei bidoni, quando una più generale sensazione di vertigini e nausea che avvertiva da tutto il mattino si era precisata in quella che la terra gli si stesse inclinando sotto i piedi. Era arretrato e aveva fatto un ultimo tentativo disperato di scrollarsi di dosso quello che gli stava succedendo, ma il cielo era parso ammassarglisi attorno alla testa, la terra si era distorta e lui era cascato a testa all’ingiù in un bidone di fragole.

Era così che gli aveva insegnato suo padre: maggiore è la compostezza, più si è scoperti, più appare manifesta la verità della propria vita intima. Che piacevole paradosso.

Sapeva già da tempo che cos’è una prova dura, aveva spiegato: la sua vita era difficile da un pezzo. Sapeva che cosa significa essere vivi senza veramente esserlo; che cosa significa essere invisibili.

È meglio accettare la vecchiaia, la morte, l’ingiustizia, i cimenti per quello che sono: tante componenti della vita.

Negare che la vita abbia un lato oscuro sarebbe come fingere che il freddo dell’inverno sia più o meno soltanto un’illusione temporanea, una tappa sulla strada della più elevata “realtà” di un’estate lunga, calda, piacevole. Perché poi si sarebbe scoperto che anche l’estate non è affatto più reale della neve che si scioglie d’inverno.

“Lo so chi sono”, aveva risposto lei. “So esattamente chi sono”, aveva dichiarato una seconda volta, ma non erano che altre parole cariche di incertezza; altre parole di cui pentirsi. Sarebbe stato meglio il silenzio.

Era cosciente del fossato che separava il suo modo di vivere dalla sua realtà.

Aveva scoperto a diciassette anni che poteva modellare il comportamento di un maschio a suo piacimento: era una forza che si basava sul suo aspetto.

“Che cosa crede che sia a indurre un uomo a mentire? Crede che uno debba mentire se non ha niente che gli imponga di farlo? Una bugia è in ogni caso una copertura, una cosa che si dice quando non si vuole che venga fuori la verità.”

Il cuore di ciascuno di noi rimane misterioso in eterno, in quanto dotato di una volontà sua propria.

Si mise a scrivere e, facendolo, capì un’altra cosa: che la casualità governa ogni angolo dell’universo tranne i recessi del cuore umano.

David Guterson

venerdì 7 giugno 2013

Animali

Vado in letargo anch’io con tutti gli animali nei mesi invernali
Vado a sognare Dio insieme a tutti gli animali che sono speciali
Compresi gli gnu
E fammi stendere
Fammi rotolare su e giù
E fammi arrendere
Fammi respirare tu
Sai come mi va
Voglio migrare anch’io insieme agli uccelli in posti più caldi
Voglio sognare Dio
Insieme a Gesù
E fammi stendere
Fammi rotolare su e giù
E fammi arrendere
Fammi respirare tu
Sai come mi va
Sai come mi va
Lasciami dormire non ho voglia di guidare guida tu
Lasciami dormire sono stanco di parlare parla tu

Performed by Thegiornalisti

giovedì 6 giugno 2013

Quando di notte ti sveglio

Quando di notte ti sveglio perché mi si è rotto qualcosa dentro: non è l'alba, non è il tramonto. Nessuno dei due ha voglia di andare al pronto soccorso.

mercoledì 5 giugno 2013

The rum diary



Porto Rico in una discesa nelle viscere della pazzia fatta d’alcool e droga. Un giro vorticoso in un riff di chitarra graffiante e ballerino, dove chi si lascia prendere troppo la mano finisce per spezzarsi la vita e ritrovarsi ammaccato/a con occhi gonfi e capelli sporchi. C’è chi muore chiuso dentro un cesso, stuprato fino allo stremo; chi si ammala fin sulla punta dell’uccello e si rifugia in un ritrovato illegale di bevanda super super super super acolica; chi si innamora e perde ogni cognizione della realtà, fino a spiarla da un cannocchiale dalla spiaggia puntandolo dritto verso il mare: c’è la vita ricca pronta a distruggere il paradiso terrestre sfruttato fino all’osso.
Il giornale è una fuffa, una truffa. Solo i combattimenti tra galli promettono soldi capaci di rimettere in piedi ciò che sarebbe equo e onesto, così come la scrittura che finalmente sgorga dall’anima, anche quando le lingue diventano lunghe come quella del diavolo, quando tutto quanto sembra perduto e c’è la puzza dei bastardi, ma il profumo della verità: l’odore dell’inchiostro.
Non cambierà niente, ma su una 500 scassata che fa i gradini di scale cittadine, ci si prende in amicizie che danno fuoco a volti di poliziotti invecchiati sull’isola, e si diventerà ladri per potersene finalmente andare o tornare. Peccato: la giustizia avrebbe voluto un altro finale, ma è la realtà a dettare la sceneggiatura. Tristezza in tramonto con foto in bianco e nero.

martedì 4 giugno 2013

Acqua in bocca, ovvero tradurre l’infinito

La vita è come il tennis vince chi serve meglio
Infinite Jest
(traduzione di Edoardo Nesi, Grazia Giua e Annalisa Villoresi, p. 1144)
Acqua in bocca
Moriva, il 16 dicembre 1991, Pier Vittorio Tondelli. Prolifico operatore culturale, oltre che amatissimo scrittore, Tondelli aveva fondato nel 1990, insieme ad Alain Elkann ed Elisabetta Rasy, il quadrimestrale di letteratura «Panta». Dopo la morte di Tondelli, nel comitato editoriale di «Panta» subentrò lo scrittore statunitense Jay McInerney, che nel 1993 curò un numero dedicato ai nuovi narratori americani. Il volume presentava i racconti di quindici autori all’epoca quasi tutti inediti in Italia, fra cui Jennifer Egan, Jeff Eugenides, Mark Leyner, Donna Tartt e William T. Vollmann, tradotti da scrittori italiani come Michele Mari, Sandra Petrignani, Claudio Piersanti, Sandro Veronesi e Valeria Viganò. Fra gli altri c’era anche, nella versione di Edoardo Albinati, un racconto dal titolo Per sempre lassù. Nella sua introduzione, McInerney scriveva a proposito dell’autore di quel racconto: «Uno sperimentatore postmodernista [...] furiosamente creativo. [...] Le sue ambientazioni e le sue strategie narrative sono varie, ma sempre attualissime» (McInerney 1994, 14). Sono probabilmente le prime parole mai pubblicate in Italia a proposito di David Foster Wallace.
Poco più che trentenne, Wallace era all’epoca uno scrittore di ottime speranze. Aveva esordito venticinquenne, nel 1987, con un romanzo ambizioso, The Broom of the System, che aveva conquistato molti lettori e aveva ricevuto un’accoglienza critica perplessa ma affascinata, di cui resta emblematica la recensione sul «New York Times» dell’autorevolissima Michiko Kakutani, secondo cui il giovane romanziere aveva sì talento da vendere, però «il problema è che spesso troviamo presunzione invece che vera intelligenza, verbosità invece che eloquenza» (Kakutani 1986; traduzione mia). In seguito Wallace aveva pubblicato su svariati periodici – da «Fiction» a «Harper’s», da «Playboy» alla «Paris Review» – una serie di racconti in gran parte confluiti nel 1989 in Girl with Curious Hair, e si stava anche affermando come saggista, con recensioni per i quotidiani più importanti («New York Times», «Washington Post», «Los Angeles Times» e altri), lunghi articoli per riviste su temi che andavano dalla narrativa contemporanea al tennis alla televisione e, nel 1990, un volume sul rap, Signifying Rappers: Rap and Race in the Urban Present, scritto insieme a Mark Costello.
In Italia era praticamente sconosciuto. Poi uscì su «Panta» la traduzione di Forever Overhead (in seguito incluso in Brief Interviews with Hideous Men e destinato a diventare un piccolo classico) e c’è chi dice di esserne rimasto folgorato. Edoardo Nesi racconta: «Sin dalla prima pagina mi parve che Per sempre lassù fosse il Racconto Degli Anni 90, straordinariamente capace com’era di catturare – in diretta – una specie di “sfiorato” zeitgeist di quegli anni inafferrabili, e di farlo senza volere» (Nesi 1996). E ancora, diversi anni dopo: «Io lo capii subito che Wallace era di un’altra categoria rispetto a tutti. Fin da Per sempre lassù, il suo primo racconto pubblicato in Italia. Su “Panta”. Fu quel miracoloso “Ciao” alla fine…» (Consonni 2011).
Il ghiaccio era rotto e, poco più di un anno dopo, uscì da Theoria Nuovi narratori americani. Racconti della Post-generation, una selezione di nove racconti, tradotti da Cristiana Mennella e tratti dall’antologia curata da Michael Wexler e John Hulme Voices of the Xiled, che comprendeva anche, di Wallace, Ragazzina dai capelli curiosi. Cristiana Mennella, all’epoca a inizio carriera (aveva appena esordito, sempre per Theoria, con i Marginalia di Poe), negli anni successivi si sarebbe affermata come traduttrice proprio di nuovi narratori americani (fra cui Saunders e Vollmann), ma non avrebbe più avuto occasione di lavorare su Wallace, che, ricorda oggi divertita, all’epoca le era sembrato «un poco fuori di testa» (Mennella 2012).
Nel giro di pochi anni Girl with Curious Hair sarebbe stato tradotto altre due volte, da Francesco Piccolo per Einaudi e da Martina Testa per minimum fax. Quest’ultima ebbe in seguito modo di raccontare quanto la lettura di Nuovi narratori americani l’avesse colpita, e avesse anche rappresentato per lei il primo incontro con Wallace:
Quando lessi Nuovi narratori americani non sapevo chi era David Foster Wallace, non avevo letto Infinite Jest, non immaginavo che quello sarebbe diventato il mio libro di culto per eccellenza, non immaginavo che Wallace stesso sarebbe diventato il mio autore di culto e uno dei miei esseri umani preferiti sulla faccia della terra; non mi sognavo neanche che sarei diventata una traduttrice e un’editor (non sapevo neanche cosa volesse dire, editor), tantomeno che avrei tradotto lui. E a dire il vero, il racconto di David Foster Wallace contenuto nell’antologia [...] non era neanche fra i miei preferiti. Era la storia di un ricco psicolabile iperviolento, e mi sembrava che l’autore non fosse altro che un Bret Easton Ellis più cerebrale e sborone (Testa 2006).
Nella nota biografica che precedeva il suo racconto, Wallace veniva presentato così: «Sta lavorando a qualcosa di lungo per Little, Brown & Co. che ha tutta l’aria di non essere pronto per la scadenza, non è mai stato, in nessun luogo, per nessun motivo in ritardo con qualcosa, ragion per cui è un po’ fuori fase, attualmente» (Wexter e Hulme 1995, 39). Il qualcosa di lungo sarebbe diventato Infinite Jest.
Negli Stati Uniti a quel punto David Foster Wallace era considerato the next big thing, il Nuovo Grande Scrittore che tutti attendevano. Come ha ricordato David Lipsky a proposito dell’ambiente dell’editoria newyorkese, Wallace aveva «fatto sì che un’intera città di editor e scrittori bercianti, sgomitanti e pronti a gambizzare chiunque, si innamorasse di lui perdutamente» (Lipsky 2011, 16). Il 1º febbraio 1996 Infinite Jest era in libreria: 1079 pagine, 388 note, e in copertina un cielo ingombro di nuvole che lasciava presagire tutto fuorché una lettura serena. Anche questa volta le recensioni non furono unanimamente positive. Michiko Kakutani scrisse che Wallace era «uno scrittore dal talento virtuosistico che sembra in grado di fare qualunque cosa», però scrisse pure che a tratti il romanzo sembrava «una scusa per fare sfoggio del suo talento e svuotare la sua mente irrequieta» (Kakutani 1996; traduzione mia); e piuttosto simile fu il verdetto di Jay McInerney (McInerney 1996). Ma Infinite Jest si conquistò subito un nutrito seguito di ferventi ammiratori, veri e propri fan che in breve tempo ne fecero un libro di culto nel senso più pieno della parola. Ne è segno fra molti il fatto che il sito The Howling Fantods, interamente dedicato alle opere di Wallace, venne fondato nel marzo 1997, quando l’utilizzo di massa di internet era ancora agli albori (il dominio Google, ad esempio, fu registrato solo sei mesi dopo, il 15 settembre 1997).
Mentre nella maggior parte delle nazioni europee Infinite Jest veniva subito liquidato come intraducibile (in Germania il libro sarebbe uscito solo nel 2009; in Francia non è ancora uscito ed è annunciato per il 2014), l’Italia fu uno dei primi paesi a drizzare le antenne, e nel giro di qualche mese diversi editori si misero sulle tracce dei libri di Wallace. Fra le case editrici interessate, una fra le candidate più plausibili pareva la Fanucci, dove Luca Briasco e Mattia Carratello stavano fondando la collana «Avant Pop», il cui primo titolo, pubblicato nel settembre 1998, fu l’antologia a cura di Larry McCaffery Schegge d’America. Nuove avanguardie letterarie. Era la terza raccolta uscita in Italia nel giro di pochi anni a includere un racconto di Wallace, in questo caso Tri-Stan: I Sold Sissee Nar to Ecko (nella traduzione di Piergiorgio Nicolazzini e Maria Cristina Pietri), anch’esso destinato a confluire nel 1999 in Brief Interviews with Hideous Men. Nella sua articolata rassegna in appendice all’edizione italiana dell’antologia, McCaffery parlava anche di Girl with Curious Hair, descrivendolo come uno dei libri più esplicitamente Avant Pop della nuova letteratura americana (McCaffery 1998, 405-6); ci si poteva quindi aspettare di trovare Wallace accanto a Vollmann e a Philip Dick nel futuro catalogo della nuova collana di Fanucci, ma non andò così.
Marco Cassini, il direttore commerciale di minimum fax, ricorda: «“Compralo, compralo che te lo fottono”, mi consigliava anni fa con fraterno afflato, all’uscita di un reading di Ian McEwan, Sandro Veronesi”» (Cassini 2003). E fu all’uscita del reading di Ian McEwan al primo Festivaletteratura di Mantova che Sandro Veronesi chiese a Susanna Basso di tradurre Infinite Jest per la neonata Fandango (Basso 2012). Domenico Procacci aveva infatti acquistato i diritti italiani di entrambi i romanzi di Wallace, Infinite Jest e The Broom of the System. Sul piatto restava la raccolta di racconti Girl with Curious Hair. Come ha raccontato Cassini sul sito della casa editrice (Cassini 2003), minimum fax aveva firmato nel giugno 1997 un contratto per i diritti italiani del libro. Nonostante ciò, nel settembre 1998 uscì da Einaudi Stile libero (allora al secondo anno di vita) La ragazza con i capelli strani, in una traduzione firmata da Francesco Piccolo da cui mancavano tre dei dieci racconti: John Billy, Here and There e Westward the Course of the Empire Takes Its Way. La spinosa situazione si risolse solo cinque anni più tardi, quando, in seguito a un accordo stipulato fra minimum fax e l’agente di Wallace, Einaudi ritirò dopo trenta mesi il suo libro dal commercio, e da minimum fax uscì La ragazza dai capelli strani in una nuova, più puntuale traduzione di Martina Testa che ripristinava i racconti mancanti.
Nel frattempo minimum fax aveva pubblicato altri quattro libri di Wallace: nel settembre 1998 Una cosa divertente che non farò mai più (traduzione di Gabriella D’Angelo e Francesco Piccolo) e nel maggio 1999 Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più) (traduzione di Vincenzo Ostuni, Christian Raimo e Martina Testa) – cioè la raccolta di saggi del 1997 A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again smembrata in due volumi -, nel giugno 2000 Il rap spiegato ai bianchi – cioè Signifying Rappers nella traduzione di Martina Testa e Christian Raimo – e nell’aprile 2001 (nella traduzione di Martina Testa) Verso occidente l’impero dirige il suo corso, cioè il racconto lungo (o romanzo breve) Westward the Course of the Empire Takes Its Way non incluso nella traduzione di Martina Testa/Einaudi diGirl with Curious Hair.
Ricorda Martina Testa:
Ecco come sono diventata una traduttrice: nel 1998 ho comprato A Supposedly Fun Thing… in una libreria internazionale di Roma: il primo pezzo mi ha lasciata interdetta, il secondo mi ha tenuta sveglia quasi per tutta una notte, il libro intero mi ha esaltata come forse non aveva mai fatto nessun altro libro prima di allora; io e un mio amico abbiamo sentito dire che una casa editrice cercava un traduttore proprio per quel libro; non avevamo esperienza; gli abbiamo chiesto di farci provare; ci hanno fatto provare; la prova gli è piaciuta (Testa 2008).
Martina Testa divenne poi, oltre che una delle principali traduttrici di Wallace, anche la direttrice editoriale di minimum fax, e i libri di quella casa editrice diedero un contributo fondamentale alla diffusione di David Foster Wallace in Italia, ma il pezzo forte, quello più atteso, restava Infinite Jest.
Nell’autunno del 1997 Susanna Basso aveva ricevuto il libro. Aveva subito pensato, ricorda oggi (Basso 2012), di non potersi concedere il lunghissimo tempo e la dedizione assoluta che le parevano necessari per tradurlo, e l’aveva proposto, riservandosi di farne poi la revisione, a Grazia Giua, all’epoca una traduttrice giovane ma non priva di esperienza, che aveva accettato.
Così, per nove mesi, assistita da Susanna Basso in un ruolo che oggi definisce da coach (Giua 2012), Grazia Giua (che anni dopo sarebbe diventata editor Einaudi) si dedicò anima e corpo a una traduzione che la assorbì completamente e la pose di fronte a «insidie sconfinate». Oltre a essere mastodontico – Wallace disse una volta che ai commessi delle librerie sarebbe toccato aiutare chi lo comprava a caricarlo in macchina (Bruni 1996) – il libro era scritto in una lingua enormemente complessa, che costrinse la traduttrice non solo ripercorrere le funambolesche evoluzioni di una sintassi acrobatica, ma anche a impadronirsi di una miriade di lessici iperspecialistici:
Centinaia di pagine di appunti, centinaia, molte, di mail. E i libri: compendi di fisica, di matematica, manuali sul tennis e sul football americano, volumi sulla droghe, sintetiche e no, il Physician Desk Reference e il prontuario farmaceutico (carpito a un sospettosissimo farmacista), dizionari del cinema e di qualunque altra cosa. E i colloqui infiniti e meravigliosi con gli informant, di ogni ordine grado e professione, dai due lati dell’oceano. Non tutto mi è servito, e di certo non mi è bastato, ma ricordo la sensazione – ossessiva, immagino; delirante, mi dicevano – di vagare per scaffali, vetrine, palestre, strade, mondo, e pensare, sempre, eh sì, questo mi può servire, questo lo troverò, in qualche momento, a qualche punto, e allora mi servirà (Giua 2008).
Il romanzo però prima o poi sarebbe dovuto uscire, e ben presto si creò uno scollamento fra le esigenze della traduttrice, cui sembrava necessario dedicare a quel lavoro un tempo e una cura maggiori di quelli concessi dal suo contratto, e quelle dell’editore, Domenico Procacci, e del direttore della collana «Mine vaganti» in cui il romanzo sarebbe uscito, Sandro Veronesi, che non ritenevano di poter rimandare la pubblicazione di un libro così atteso. Nel giro di qualche mese lo scollamento sfociò in una rottura e, dopo aver tradotto le prime 385 pagine con relative torrenziali note, Grazia Giua fu rimpiazzata da un’altra giovane traduttrice, Annalisa Villoresi, e dallo scrittore Edoardo Nesi.
Una delle rarissime testimonianze di Annalisa Villoresi sul proprio lavoro al romanzo si trova in un articolo pubblicato dal «Tirreno» il 23 dicembre 2000 in occasione dell’uscita del libro:
«Non è stato facile restituire in italiano lo slang e il particolare stile letterario di Wallace – racconta la co-traduttrice – soprattutto per me che ero alla prima esperienza». Trentacinque anni, madre di due gemelle di 5, Villoresi è subentrata alla precedente traduttrice romana [sic, ma Grazia Giua non è romana], lavorando da marzo del 1998 fino ad agosto di quest’anno per circa sei ore al giorno. «Avevo smesso di lavorare per stare con le mie figlie ma ora, dopo questa esperienza, spero di avere altre occasioni. Non credevo che sarei riuscita a tradurre un romanzo così complesso in così poco tempo». Lo stesso Nesi definisce «sorprendente» il risultato e aggiunge: «Annalisa è stata bravissima, ha fatto un grande lavoro soprattutto con notevole e costante impegno». Lo scrittore imprenditore pratese, che deve a Procacci anche la realizzazione del suo primo film Fughe da fermo nelle sale a marzo, si è occupato della “ripulitura” (Bernacchioni 2000).
Da parte sua, così racconta Edoardo Nesi:
Pur potendomi appoggiare a una prima traduzione di Annalisa Villoresi e Grazia Giua, tradurre in italiano Infinite Jest mi è costato l’inverno e la primavera e l’estate 2000, e per varie ragioni: l’estrema complessità della trama che si supera e si ripiega e si rincorre continuamente; le dozzine di vividissimi personaggi e le loro complesse interazioni; la lingua ricchissima dell’autore, le lunghe dissertazioni tennistiche e farmacologiche e chimiche e cinematografiche con uso continuo di termini specialistici; la frequente coniazione di nuove parole in americano; l’uso di prefissi greci legati a oscuri termini medici; la decisione di non aggiungere note di traduzione non assolutamente necessarie per via delle moltissime pagine di note al testo già scritte dall’autore; la presenza nel romanzo di numerosissimi refusi d’autore poiché ben pochi dei personaggi sanno parlare o persino pensare in un inglese corretto (Nesi 2001).
Intanto, nel novembre 1999, da Fandango era arrivato in libreria La scopa del sistema, il primo romanzo di Wallace, in un’edizione che si segnalava, oltre che per la bella illustrazione di Gianluigi Toccafondo in copertina, per una quarta genialmente essenziale, appena tre parole: «Mi manca chiunque». La traduzione era di Sergio Claudio Perroni, che oggi ricorda i mesi dedicati a lavorare su quella scrittura «di straordinaria intelligenza» come un periodo molto felice, una delle pochissime occasioni nella sua carriera (già all’epoca ben avviata) in cui l’estrema difficoltà non fu per lui «una rottura di scatole» ma «un enorme piacere» (Perroni 2012). E poi, il 10 dicembre 2000, dopo più di tre anni di lavorazione complessiva, finalmente uscì Infinite Jest. All’interno del volume la traduzione era accreditata a «Edoardo Nesi con la collaborazione di Annalisa Villoresi e Grazia Giua», ma in copertina c’era scritto: «Traduzione di Edoardo Nesi». Da quel momento nel parlare comune Nesi sarebbe stato il traduttore di Infinite Jest.
Nel giro di due o tre anni appena, giusto gli anni di fine millennio, in Italia Wallace era così passato dallo status di sconosciuto a quello di autore di primo piano, sebbene ancora letto solo da un pubblico di nicchia, con ben otto volumi usciti fra il settembre 1998 e l’aprile 2001. L’apice di questa fulminea consacrazione fu probabilmente la lettura integrale di Infinite Jest (una non-stop di 72 ore) organizzata da Fandango al cinema Politecnico di Roma fra il 15 e il 17 dicembre 2000, quando, fra l’apertura di Alessandro Baricco e la chiusura di Fernanda Pivano, a leggere il romanzo si alternarono decine e decine di persone, celebri o meno.
Ancor più sorprendente è dunque, soprattutto col senno di poi, che fino ad allora fra i traduttori di Wallace ben pochi fossero professionisti affermati. Edoardo Nesi, che stava mietendo i primi successi come romanziere, aveva tradotto solo cinque libri (di Malcolm Lowry, Michael Hornburg, Buster Keaton, Stephen King e Quentin Tarantino), e dopo Infinite Jest non avrebbe quasi più tradotto. Quanto allo scrittore e sceneggiatore Francesco Piccolo (che aveva firmato La ragazza con i capelli strani per Einaudi e, insieme a Gabriella D’Angelo, Una cosa divertente che non farò mai più per minimum fax) non aveva tradotto nessun altro libro e non ne avrebbe tradotti altri. Martina Testa, che invece come traduttrice avrebbe poi fatto molta strada, era allora alle primissime armi (il che non le aveva impedito di meritare e vincere insieme a Christian Raimo il Premio Procida – Isola di Arturo per Il rap spiegato ai bianchi, un libro decisamente arduo da rendere in italiano), e alle primissime armi erano anche Raimo e Ostuni.
Le eccezioni erano Sergio Claudio Perroni – che aveva già in curriculum una ventina di romanzi, di autori come Highsmith, Ellroy, Vonnegut, Houellebecq e Moody – e soprattutto Ottavio Fatica, che aveva alle spalle una lunga esperienza con classici della stazza di Kipling, Stevenson, Conrad, James e molti altri. Ma forse Fatica, quando nel 1999 Paolo Repetti di Einaudi «Stile libero» affidò a lui e Giovanna Granato Brief Interviews with Hideous Men, non trovò Wallace particolarmente nelle proprie corde, perché riservò per sé solo pochi racconti e lasciò gli altri alla co-traduttrice, che oggi ricorda:
C’è un episodio significativo di com’è stato per me tradurre Wallace. Mentre lavoravo al primo racconto, La persona depressa, all’improvviso è saltato il computer e si è cancellato tutto. E io, come nulla fosse, ho subito ricominciato da zero. Tradurre quel racconto aveva prodotto in me questa sensazione di abbandono totale. Si trattava di lasciarsi travolgere dal vortice della sua scrittura, abbassare le difese, lasciarsi andare e, semplicemente, seguire la luce chiarissima che emanava dalle sue pagine (Granato 2013).
Quel libro comprendeva anche un racconto che all’epoca a Fatica e Granato parve intraducibile, Datum Centurio. Così, come era già accaduto nel caso di La ragazza con i capelli strani, e come purtroppo spesso accade nelle edizioni italiane di raccolte di racconti straniere, si decise di tralasciarli (e, di conseguenza, per non alterare troppo la struttura del libro, di tralasciare anche la Breve intervista n. 59 e Tri-Stan, già uscito nell’antologia di Fanucci Schegge d’America), una scelta da cui fra l’altro si evince come all’epoca Wallace non avesse ancora quello statuto di classico contemporaneo che oggi ci appare scontato.
Esauritasi così l’intera backlist, negli anni fra il 2002 e il 2007 il ritmo delle uscite rallentò. Furono però gli anni in cui, come ricorda Martina Testa, in Italia la fama dello scrittore si consolidò:
All’inizio c’è stato un lentissimo crescendo di attenzione. Nei primi anni Duemila, per dire, la raccolta di saggi Tennis, tv, trigonometria, tornado si vendeva così poco che a un certo punto rischiammo di doverne macerare qualche centinaio di copie. A partire dalla nostra edizione della Ragazza dai capelli strani (2003), che andò subito molto bene, ci è sembrato che l’interesse del pubblico crescesse, anche nei confronti degli altri titoli, che infatti, nel corso degli anni, non sono mai andati fuori catalogo. Probabilmente è stato in quel periodo che si è verificato il fatidico “passaparola dei lettori” (Gregorio 2011).
Fu in questo periodo che Einaudi riuscì ad aggiudicarsi le nuove uscite – nel 2004 la raccolta di racconti Oblivion, tradotta da Giovanna Granato come Oblio, e nel 2006 la raccolta di saggi Consider the Lobster, tradotta da Adelaide Cioni e Matteo Colombo come Considera l’aragosta – e ad acquistare i diritti di Infinite Jest e della Scopa del sistema (che non erano stati rinnovati a Fandango), per poi ripubblicare i due romanzi nella collana «Stile libero Big» rispettivamente nel 2006 e nel 2008, senza apportarvi alcuna correzione o modifica. Presso la casa editrice di divulgazione scientifica Codice uscì invece nel 2005 Tutto, e di più, la traduzione (di Giuseppe Strazzeri e Fabio Paracchini) dell’impegnativo saggio di logica matematica Everything and More: a Compact History of Infinity.
Wallace aveva ormai, grazie a Infinite Jest ma forse ancor più a La scopa del sistema, un’affezionata platea di lettori italiani, e non a caso fu proprio in Italia che lo scrittore fece una delle sue rarissime apparizioni al di fuori degli Stati Uniti, intervenendo nel 2006 – insieme a Nathan Englander, Jeffrey Eugenides, Jonathan Franzen e Zadie Smith – al festival Le conversazioni a Capri, organizzato da Antonio Monda. Ricordò in seguito Martina Testa, che in quell’occasione fu la sua interprete:
Continuava a dire che eravamo vecchi amici (anche se in realtà ci eravamo incontrati solo due o tre volte, e detti poco più che ciao). Mi dava pacche sulle spalle, mi abbracciava, mi scroccava sigarette con un sorriso imbarazzato (aveva smesso di masticare tabacco, ma ancora non poteva fare a meno della nicotina) e mi chiedeva di stargli vicino; una volta, quando mi sembrava di aver combinato un disastro nel fare da interprete a un altro autore, si mise subito a rassicurarmi del fatto che ero andata benissimo. Nonostante si facesse un gran parlare di quanto era a disagio in mezzo alla gente, in realtà aveva un calore e una dolcezza che sarebbero rari da trovare in chiunque – figuriamoci poi in un genio, o nel tuo scrittore preferito (Testa 2008).
Era la fine di giugno – scrisse diversi anni dopo Antonio Monda – nell’atmosfera rilassata del festival Le conversazioni a Capri, e nessuno, neanche tra i più intimi, poteva immaginare che quel viaggio avrebbe rappresentato uno degli ultimi momenti di serenità della sua esistenza destinata a spezzarsi tragicamente due anni dopo (Monda 2011).
E in effetti, quando il 12 settembre 2008 lo scrittore fu trovato dalla moglie Karen Green impiccato nel patio della loro casa di Claremont, in California, furono in molti a sentirsene personalmente feriti. Come scrisse all’epoca Nicola Lagioia:
Il suicidio di David Foster Wallace ha lasciato scioccata un’intera generazione di lettori. Al di là dei coccodrilli e del tran tran dignitosamente ordinario di una breve commemorazione mediatica, le autostrade telematiche sono state rapidamente invase da messaggi pieni di sgomento e di dolore autentico. Sui siti internet, nei blog, nei forum di discussione e poi, fuori dalla rete, nelle conversazioni tra appassionati (spesso molto giovani) di letteratura contemporanea: «è morto uno di noi…», «lo sentivo vicino come un fratello…», «adesso mi sento persino più solo di prima…», «si può provare tanto dispiacere per una persona che non si è mai frequentata fuori dalla pagina?» (Lagioia 2008).
Un’impressione confermata dalla testimonianza di Tommaso Pincio:
Vengo a sapere che David Foster Wallace si è impiccato. [...] Poco dopo squilla il telefono. Un amico vuole commentare il fatto. Siamo entrambi sconcertati, affranti. Nessuno dei due può dire di aver conosciuto Wallace, eppure ci è naturale parlarne come di una persona cara (Pincio 2011, 108).
E se lettori e critici si sentirono toccati così nell’intimo dalla morte improvvisa di uno scrittore che sentivano insolitamente vicino, tanto più si sentirono chiamate in causa le persone che avevano tradotto, editato o pubblicato i suoi libri. Data l’intricata storia editoriale di Wallace in Italia, non stupisce che più d’uno si sia sentito in quel momento di poter rivendicare una sorta di primogenitura, o comunque un legame privilegiato con lo scrittore scomparso. In un paginone interamente dedicato a Wallace, ad esempio, l’«Unità» affiancava, sotto il poco felice titolo La maratona della memoria, una serie di trafiletti commemorativi. Procacci, direttore editoriale di Fandango, dichiarava: «Non l’ha mai saputo, D.F.W., e ormai non lo saprà mai, ma una piccola casa editrice, la nostra, la Fandango Libri, è nata per pubblicare un suo lavoro, il monumentale Infinite Jest» (Procacci 2008); e a fianco Veronesi:
Io credo che Infinite Jest sia il più grande romanzo che sia stato scritto nel dopoguerra. [...] Averne fortemente voluto la traduzione, aver fondato una casa editrice, con Procacci, praticamente a questo scopo, rappresenta probabilmente il mio più alto merito letterario; averne organizzato la lettura integrale, nel dicembre del 2000, al Politecnico di Roma, una delle cose più belle che abbia fatto nella vita (Veronesi 2008);
e Cassini, direttore commerciale di minimum fax: «Eravamo i primi folli editori al mondo a voler pubblicare un suo libro al di fuori dell’America e infatti ne comprammo i diritti per cinquecentomila lire» (Cassini 2008). Anche Fernanda Pivano parlò di lui, sul «Corriere della Sera», come di «un altro amico, dolce, fragile e generoso che se ne va», inserendolo in una sorta di genealogia di scrittori suicidi suoi amici, da Pavese a Hemingway a Wallace (Pivano 2008). Martina Testa scrisse sul sito di minimum fax:
Nessuno è stato altrettanto difficile e gratificante. Su nessuno mi sono impegnata con tanto amore. Ogni volta che ho tradotto qualcosa di suo, gli ho mandato delle domande. Lui rispondeva con riluttanza, era in difficoltà, continuava a dire che una certa storia era impossibile da tradurre in maniera dignitosa e fedele – il che a volte mi faceva venire da piangere; e poi scriveva pagine intere per spiegarmi una singola parola o una singola frase, e concludeva dichiarando la sua totale fiducia nelle mie capacità di traduttrice – il che, di nuovo, mi faceva venire le lacrime agli occhi (Testa 2008).
Come negli Stati Uniti, anche in Italia si tennero eventi in sua memoria, il principale dei quali si svolse il 12 ottobre (a un mese dalla morte) al Teatro Ghione di Roma. In quell’occasione si ritrovarono tutti gli editori italiani di Wallace (minimum fax, Fandango, Einaudi e Codice), molti suoi traduttori e diversi scrittori che si consideravano suoi «compagni di strada». Cominciò poi, come inevitabilmente capita in casi simili, una nuova fioritura di edizioni italiane. Minimum fax, che proprio in quel momento stava celebrando il quindicennale della casa editrice con la speciale collana «I Quindici», nel 2008 ripubblicò in questa nuova veste, arricchita da una grafica molto curata e da nuovi apparati ed «extra», La ragazza dai capelli strani (con Brave persone in appendice, un estratto da quello che in seguito sarebbe diventato Il re pallido), nel 2009 Burned Children of America (un’antologia di nuovi narratori americani, uscita la prima volta nel 2001, che si chiudeva con il racconto di Wallace Incarnazioni di bambini bruciati, da cui il titolo) e nel 2010 Una cosa divertente che non farò mai più. Seguirono le nuove edizioni di tutti i libri di Wallace nei «Sotterranei».
Einaudi alle riedizioni affiancò alcuni inediti. Uno degli ultimi testi scritti da Wallace era una conferenza, un commencement address (ossia una prolusione) pronunciato di fronte ai neolaureati del Kenyon College il 15 maggio 2005. Qualche mese dopo la morte dell’autore, la Little, Brown & Co. (che a partire da Infinite Jest era diventata la casa editrice di Wallace) lo aveva pubblicato col titolo This Is Water. Some Thoughts, Delivered on a Significant Occasion, about Living a Compassionate Life. In quel volumetto a ogni singola frase del breve e intenso discorso era riservata un’intera pagina, così che le parole dell’autore venivano a trovarsi circondate da grandi spazi bianchi, una sorta di aura che trasmetteva al lettore la sensazione di avere fra le mani un testo sapienziale, o magari, come ebbe a scrivere Zadie Smith, «un librettino di self-help da leggere al cesso» (Smith 2010, 378).
L’insolita scelta editoriale della Little, Brown & Co. si inseriva in quella che qualcuno definì la «beatificazione» di David Foster Wallace (Salis 2011), uno scrittore che, se agli esordi era stato considerato un epigono dei postmodernisti, un ironico acrobata delle parole (Bajani 1999), col tempo si era spostato sempre più verso una concezione morale, se non esplicitamente spirituale, della letteratura (un’evoluzione già ben compresa nel 1998 da Mattia Carratello nella sua lucidissima postfazione a La ragazza con i capelli strani), e che proprio per questo aveva suscitato nei suoi lettori un coinvolgimento così viscerale. In un articolo su «Slate», Nathan Heller si era chiesto perché Wallace ispirasse una tale devozione nei suoi ammiratori, e al termine di un’approfondita analisi delle sue opere si era risposto:
È stato l’intellettuale del 21° secolo che ha insegnato ai lettori a provare sentimenti, lo scrittore che ha spiegato come sia possibile vivere in modo ricettivo e umano senza rinnegare una cultura pesantemente, eminentemente critica (Heller 2011; traduzione mia).
Anche Tim Jacobs, su «Rain Taxi», aveva azzardato una risposta: «Non era Gandhi e non è morto per i vostri peccati, ma i concetti di servizio e di sacrificio personale, soprattutto nell’ambito della scrittura, li prendeva palesemente sul serio» (Jacobs 2008-2009; traduzione mia).
In questo contesto Einaudi «Stile libero» preferì non incoraggiare ulteriormente una lettura di Wallace che molti ritengono fuorviante, o comunque dannosa. Wallace era sì un genio, precisa ad esempio Martina Testa, ma
penso che connotarlo come una specie di unicum, di “monstrum”, di prodigio sia inopportuno, non giovi alla percezione che il pubblico ha di lui, gli faccia più male che bene, e personalmente non vorrei contribuire ad alimentare in nessun modo l’aura quasi mitica che ormai lo circonda (Testa 2012).
Sulla stessa posizione Giovanna Granato, la traduttrice di This Is Water: «È un errore farne un culto perché non era l’immagine che lui voleva dare di sé» (Granato 2013). La casa editrice italiana decise dunque di far uscire, in concomitanza col primo anniversario della morte dell’autore, il discorso intitolato Questa è l’acqua in un omonimo volume, curato da Luca Briasco, che recuperava anche cinque racconti, perlopiù giovanili, ancora inediti in Italia (e tuttora uncollected negli Stati Uniti), fra cui il primo in assoluto mai pubblicato da Wallace (nel 1984), Il pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta, in cui lo scrittore raccontava l’insorgere della depressione e della dipendenza dai farmaci.
C’era però in cantiere un inedito ben più importante. Alle Conversazioni a Capri Wallace aveva letto un brano di prosa chiamato Estratto senza titolo da un qualcosa di più lungo che ancora non è neanche lontanamente scritto (pubblicato all’epoca in una plaquette con a fronte una traduzione di Martina Testa). Quel brano era poi stato ritrovato, insieme a centinaia di altre pagine, sulla scrivania di Wallace il giorno del suo suicidio (Max 2009; Pietsch 2011). Quelle pagine erano il dattiloscritto incompiuto di quello che avrebbe dovuto diventare il suo terzo romanzo e, dopo un lungo e complesso lavoro di riordinamento e collazione da parte di Michael Pietsch (l’editor di Little, Brown & Co. che già aveva lavorato a Infinite Jest), sarebbero uscite nel 2011 col titolo The Pale King. Einaudi affidò anche questo libro a Giovanna Granato, che ricorda:
La difficoltà più superficiale, ma molto fastidiosa è stata dover cercare tantissimi riferimenti, cosa che porta via un sacco tempo. Invece non è difficile la struttura della frase, perché la sua scrittura, per quanto complessa e piena di meandri, non è mai ambigua, è lucida e solida. Le sue architetture verbali sono di una solidità mostruosa. Il difficile è restituire il grandissimo spessore che si cela sotto quelle che possono anche apparire storielle in cui non succede niente di che. Le strutture sono ripetitive ma leggere e limpidissime, la difficoltà sta sotto, nella fittissima rete dei riferimenti che danno un senso profondo al tutto. Affrontare la lunghezza delle frasi è solo una cosa muscolare. Basta allenarsi, fare un respiro profondo e buttarsi nel vortice. La sua scrittura non dà grandi margini di movimento, perciò devi per forza essere letterale. È tutto troppo solido, non si lascia scalfire (Granato 2013).
In questo caso però, racconta ancora la traduttrice, c’era una difficoltà più profonda:
Lavorare al Re pallido è stato come mettere le mani nella carne viva, dovendo affrontare in molte parti un testo “sporco”, non ancora ripulito dall’autore con la sua solita cura maniacale. Mi capitava di provare un imbarazzo da voyeur, come trovandomi a vedere quello che lui non avrebbe voluto farci vedere, il corpo nudo della sua scrittura. È stato pesantissimo dal punto di vista psicologico. Anche perché in passato Wallace non aveva mai scritto in modo così nudamente autobiografico. È stato come camminare costantemente sui confini di un territorio in cui non mi sembrava giusto entrare, intrattenendo con l’autore un rapporto personale, mentre non deve essere così. Per questo ho cercato di avere il massimo rispetto del testo, trattandolo non tanto come un romanzo, ma come un documento. Perciò, dove la scrittura è sporca, è stata lasciata sporca. In questo caso la resa è stata ancora più letterale del solito, e mi sono data la regola di non correggere anche laddove evidentemente Wallace in un secondo tempo sarebbe intervenuto. Ad esempio, di solito la punteggiatura è meravigliosa, perfetta, chiarissima. In questo caso invece a volte non lo era, ma non è stata toccata. In questo l’Einaudi, e soprattutto Alessandra Montrucchio, che ha fatto la revisione e mi ha aiutata nelle ricerche sui termini tecnici, mi hanno sostenuta molto (Granato 2013).
Con Il re pallido può dirsi conclusa la grande stagione editoriale di David Foster Wallace in Italia, sebbene altre nuove uscite ci siano state e continueranno probabilmente a esserci. Nel 2012 da Einaudi è stato pubblicato, ancora in una traduzione di Giovanna Granato, e con grande successo, Il tennis come esperienza religiosa, che raccoglie due reportage, uno inedito in Italia, Democrazia e commercio agli US Open, e uno, già uscito nel 2010 da Casagrande in una traduzione di Matteo Campagnoli, dal titolo Roger Federer come esperienza religiosa. Per il 2013 sono annunciate diverse novità di non poco conto: Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, ovvero la prima biografia di Wallace, scritta da D. T. Max e tradotta da Alessandro Mari; la traduzione di Giovanna Granato dei saggi uncollected pubblicati nel 2012 da Little, Brown & Co. col titolo Both Flesh and Not; una nuova edizione di Brevi interviste con uomini schifosi che finalmente recupera i tre racconti mancanti; una nuova edizione del Re pallido (negli «Einaudi Tascabili») che presenta in appendice le quattro nuove scene inserite nel paperback dell’edizione statunitense; e infine una nuova edizione di Infinite Jest in cui sono stati corretti i numerosi refusi presenti nelle edizioni cartacee (solo in e-book, un assaggio di quella che sarà l’edizione speciale per il ventennale del libro nel 2016).
Da minimum fax invece è in uscita la traduzione delle Conversations with David Foster Wallace curate da Stephen J. Burn (2012), una raccolta delle non molte ma preziose interviste rilasciate nel corso degli anni da Wallace, fra cui, essenziali e citatissime, quelle di Larry McCaffery per la «Review of Contemporary Fiction» (1993) e di Laura Miller per «Salon» (1996). Resta da tradurre la tesi di laurea in filosofia del 1985 Fate, Time, and Language: An Essay on Free Will (Columbia University Press, 2010), e ben poco altro.
Oggi, a vent’anni dalla prima comparsa di un suo testo in Italia, e a cinque dalla morte, la popolarità e l’influenza David Foster Wallace nel nostro paese non accennano a diminuire. Lo dimostrano, oltre alle molte nuove uscite annunciate, la nascita nell’aprile 2011 del sito Archivio David Foster Wallace Italia e la pubblicazione di alcuni saggi critici e libri di interviste (Pennacchio 2009; Lipsky 2011; Susca 2012; Karmodi 2012), nonché di un «diario del dolore» scritto subito dopo la sua morte (Infinite Loss di Salvatore Toscano, 2009). E se è certamente vero che la sua scomparsa tragica e prematura ha contribuito a trasformare lo scrittore in una sorta di personaggio leggendario – e non è certo la prima volta che succede: basti pensare, senza scomodare le rockstar, al caso per certi versi analogo di Roberto Bolaño, e da noi a Sergio Atzeni o, fra i traduttori, Angelo Morino -, non si può non riconoscere che, se per tanti lettori e scrittori del nostro paese Wallace è diventato un punto di riferimento, il merito va anche ai traduttori. Ci troviamo di fronte a un felice paradosso: un autore che molti consideravano intraducibile (e che si considerava intraducibile) è stato non solo tradotto ma tradotto con grandissima fortuna.
I termini della sfida li aveva spiegati lui stesso nell’intervista rilasciata a «Salon» in occasione dell’uscita di Infinite Jest:
Il progetto che vale la pena portare avanti è fare della roba che mantenga la ricchezza e il coraggio e la difficoltà emotiva e intellettuale dell’avanguardia, roba che costringa il lettore ad affrontare le cose invece di ignorarle, ma farlo in modo tale che sia anche piacevole da leggere. Allora il lettore sente che qualcuno sta parlando con lui invece di mettersi in posa (Miller 1996; traduzione mia).
È una sfida che, nonostante le tortuosità, e talvolta le ambigue opacità, delle vicende editoriali di David Foster Wallace in Italia, i traduttori hanno vinto.

di Norman Gobetti

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