La vita è come il tennis vince chi serve meglio
Infinite Jest
(traduzione di Edoardo Nesi, Grazia Giua e Annalisa Villoresi, p. 1144)
Moriva,
il 16 dicembre 1991, Pier Vittorio Tondelli. Prolifico operatore
culturale, oltre che amatissimo scrittore, Tondelli aveva fondato nel
1990, insieme ad Alain Elkann ed Elisabetta Rasy, il quadrimestrale di
letteratura «Panta». Dopo la morte di Tondelli, nel comitato editoriale
di «Panta» subentrò lo scrittore statunitense Jay McInerney, che nel
1993 curò un numero dedicato ai nuovi narratori americani. Il volume
presentava i racconti di quindici autori all’epoca quasi tutti inediti
in Italia, fra cui Jennifer Egan, Jeff Eugenides, Mark Leyner, Donna
Tartt e William T. Vollmann, tradotti da scrittori italiani come Michele
Mari, Sandra Petrignani, Claudio Piersanti, Sandro Veronesi e Valeria
Viganò. Fra gli altri c’era anche, nella versione di Edoardo Albinati,
un racconto dal titolo
Per sempre lassù. Nella sua
introduzione, McInerney scriveva a proposito dell’autore di quel
racconto: «Uno sperimentatore postmodernista [...] furiosamente
creativo. [...] Le sue ambientazioni e le sue strategie narrative sono
varie, ma sempre attualissime» (McInerney 1994, 14). Sono probabilmente
le prime parole mai pubblicate in Italia a proposito di David Foster
Wallace.
Poco più che trentenne, Wallace era all’epoca uno scrittore di ottime
speranze. Aveva esordito venticinquenne, nel 1987, con un romanzo
ambizioso,
The Broom of the System, che aveva conquistato molti
lettori e aveva ricevuto un’accoglienza critica perplessa ma
affascinata, di cui resta emblematica la recensione sul «New York Times»
dell’autorevolissima Michiko Kakutani, secondo cui il giovane
romanziere aveva sì talento da vendere, però «il problema è che spesso
troviamo presunzione invece che vera intelligenza, verbosità invece che
eloquenza» (Kakutani 1986; traduzione mia). In seguito Wallace aveva
pubblicato su svariati periodici – da «Fiction» a «Harper’s», da
«Playboy» alla «Paris Review» – una serie di racconti in gran parte
confluiti nel 1989 in
Girl with Curious Hair, e si stava anche
affermando come saggista, con recensioni per i quotidiani più importanti
(«New York Times», «Washington Post», «Los Angeles Times» e altri),
lunghi articoli per riviste su temi che andavano dalla narrativa
contemporanea al tennis alla televisione e, nel 1990, un volume sul rap,
Signifying Rappers: Rap and Race in the Urban Present, scritto insieme a Mark Costello.
In Italia era praticamente sconosciuto. Poi uscì su «Panta» la traduzione di
Forever Overhead (in seguito incluso in
Brief Interviews with Hideous Men
e destinato a diventare un piccolo classico) e c’è chi dice di esserne
rimasto folgorato. Edoardo Nesi racconta: «Sin dalla prima pagina mi
parve che
Per sempre lassù fosse il Racconto Degli Anni 90,
straordinariamente capace com’era di catturare – in diretta – una specie
di “sfiorato” zeitgeist di quegli anni inafferrabili, e di farlo senza
volere» (Nesi 1996). E ancora, diversi anni dopo: «Io lo capii subito
che Wallace era di un’altra categoria rispetto a tutti. Fin da
Per sempre lassù, il suo primo racconto pubblicato in Italia. Su “Panta”. Fu quel miracoloso “Ciao” alla fine…» (Consonni 2011).
Il ghiaccio era rotto e, poco più di un anno dopo, uscì da Theoria
Nuovi narratori americani. Racconti della Post-generation, una selezione di nove racconti, tradotti da Cristiana Mennella e tratti dall’antologia curata da Michael Wexler e John Hulme
Voices of the Xiled, che comprendeva anche, di Wallace,
Ragazzina dai capelli curiosi. Cristiana Mennella, all’epoca a inizio carriera (aveva appena esordito, sempre per Theoria, con i
Marginalia
di Poe), negli anni successivi si sarebbe affermata come traduttrice
proprio di nuovi narratori americani (fra cui Saunders e Vollmann), ma
non avrebbe più avuto occasione di lavorare su Wallace, che, ricorda
oggi divertita, all’epoca le era sembrato «un poco fuori di testa»
(Mennella 2012).
Nel giro di pochi anni
Girl with Curious Hair sarebbe stato
tradotto altre due volte, da Francesco Piccolo per Einaudi e da Martina
Testa per minimum fax. Quest’ultima ebbe in seguito modo di raccontare
quanto la lettura di
Nuovi narratori americani l’avesse colpita, e avesse anche rappresentato per lei il primo incontro con Wallace:
Quando lessi Nuovi narratori americani non sapevo chi era David Foster Wallace, non avevo letto Infinite Jest,
non immaginavo che quello sarebbe diventato il mio libro di culto per
eccellenza, non immaginavo che Wallace stesso sarebbe diventato il mio
autore di culto e uno dei miei esseri umani preferiti sulla faccia della
terra; non mi sognavo neanche che sarei diventata una traduttrice e
un’editor (non sapevo neanche cosa volesse dire, editor), tantomeno che
avrei tradotto lui. E a dire il vero, il racconto di David Foster
Wallace contenuto nell’antologia [...] non era neanche fra i miei
preferiti. Era la storia di un ricco psicolabile iperviolento, e mi
sembrava che l’autore non fosse altro che un Bret Easton Ellis più
cerebrale e sborone (Testa 2006).
Nella nota biografica che precedeva il suo racconto, Wallace veniva
presentato così: «Sta lavorando a qualcosa di lungo per Little, Brown
& Co. che ha tutta l’aria di
non essere pronto per la
scadenza, non è mai stato, in nessun luogo, per nessun motivo in ritardo
con qualcosa, ragion per cui è un po’ fuori fase, attualmente» (Wexter e
Hulme 1995, 39). Il qualcosa di lungo sarebbe diventato
Infinite Jest.
Negli Stati Uniti a quel punto David Foster Wallace era considerato
the next big thing,
il Nuovo Grande Scrittore che tutti attendevano. Come ha ricordato
David Lipsky a proposito dell’ambiente dell’editoria newyorkese, Wallace
aveva «fatto sì che un’intera città di editor e scrittori bercianti,
sgomitanti e pronti a gambizzare chiunque, si innamorasse di lui
perdutamente» (Lipsky 2011, 16). Il 1º febbraio 1996
Infinite Jest
era in libreria: 1079 pagine, 388 note, e in copertina un cielo
ingombro di nuvole che lasciava presagire tutto fuorché una lettura
serena. Anche questa volta le recensioni non furono unanimamente
positive. Michiko Kakutani scrisse che Wallace era «uno scrittore dal
talento virtuosistico che sembra in grado di fare qualunque cosa», però
scrisse pure che a tratti il romanzo sembrava «una scusa per fare
sfoggio del suo talento e svuotare la sua mente irrequieta» (Kakutani
1996; traduzione mia); e piuttosto simile fu il verdetto di Jay
McInerney (McInerney 1996). Ma
Infinite Jest si conquistò
subito un nutrito seguito di ferventi ammiratori, veri e propri fan che
in breve tempo ne fecero un libro di culto nel senso più pieno della
parola. Ne è segno fra molti il fatto che il sito
The Howling Fantods,
interamente dedicato alle opere di Wallace, venne fondato nel marzo
1997, quando l’utilizzo di massa di internet era ancora agli albori (il
dominio Google, ad esempio, fu registrato solo sei mesi dopo, il 15
settembre 1997).
Mentre nella maggior parte delle nazioni europee
Infinite Jest
veniva subito liquidato come intraducibile (in Germania il libro
sarebbe uscito solo nel 2009; in Francia non è ancora uscito ed è
annunciato per il 2014), l’Italia fu uno dei primi paesi a drizzare le
antenne, e nel giro di qualche mese diversi editori si misero sulle
tracce dei libri di Wallace. Fra le case editrici interessate, una fra
le candidate più plausibili pareva la Fanucci, dove Luca Briasco e
Mattia Carratello stavano fondando la collana «Avant Pop», il cui primo
titolo, pubblicato nel settembre 1998, fu l’antologia a cura di Larry
McCaffery
Schegge d’America. Nuove avanguardie letterarie. Era la terza raccolta uscita in Italia nel giro di pochi anni a includere un racconto di Wallace, in questo caso
Tri-Stan: I Sold Sissee Nar to Ecko (nella traduzione di Piergiorgio Nicolazzini e Maria Cristina Pietri), anch’esso destinato a confluire nel 1999 in
Brief Interviews with Hideous Men. Nella sua articolata rassegna in appendice all’edizione italiana dell’antologia, McCaffery parlava anche di
Girl with Curious Hair,
descrivendolo come uno dei libri più esplicitamente Avant Pop della
nuova letteratura americana (McCaffery 1998, 405-6); ci si poteva quindi
aspettare di trovare Wallace accanto a Vollmann e a Philip Dick nel
futuro catalogo della nuova collana di Fanucci, ma non andò così.
Marco Cassini, il direttore commerciale di minimum fax, ricorda:
«“Compralo, compralo che te lo fottono”, mi consigliava anni fa con
fraterno afflato, all’uscita di un reading di Ian McEwan, Sandro
Veronesi”» (Cassini 2003). E fu all’uscita del reading di Ian McEwan al
primo Festivaletteratura di Mantova che Sandro Veronesi chiese a Susanna
Basso di tradurre
Infinite Jest per la neonata Fandango (Basso
2012). Domenico Procacci aveva infatti acquistato i diritti italiani di
entrambi i romanzi di Wallace,
Infinite Jest e
The Broom of the System. Sul piatto restava la raccolta di racconti
Girl with Curious Hair.
Come ha raccontato Cassini sul sito della casa editrice (Cassini 2003),
minimum fax aveva firmato nel giugno 1997 un contratto per i diritti
italiani del libro. Nonostante ciò, nel settembre 1998 uscì da Einaudi
Stile libero (allora al secondo anno di vita)
La ragazza con i capelli strani, in una traduzione firmata da Francesco Piccolo da cui mancavano tre dei dieci racconti:
John Billy,
Here and There e
Westward the Course of the Empire Takes Its Way.
La spinosa situazione si risolse solo cinque anni più tardi, quando, in
seguito a un accordo stipulato fra minimum fax e l’agente di Wallace,
Einaudi ritirò dopo trenta mesi il suo libro dal commercio, e da minimum
fax uscì
La ragazza dai capelli strani in una nuova, più puntuale traduzione di Martina Testa che ripristinava i racconti mancanti.
Nel frattempo minimum fax aveva pubblicato altri quattro libri di Wallace: nel settembre 1998
Una cosa divertente che non farò mai più (traduzione di Gabriella D’Angelo e Francesco Piccolo) e nel maggio 1999
Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più) (traduzione di Vincenzo Ostuni, Christian Raimo e Martina Testa) – cioè la raccolta di saggi del 1997
A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again smembrata in due volumi -, nel giugno 2000
Il rap spiegato ai bianchi – cioè
Signifying Rappers nella traduzione di Martina Testa e Christian Raimo – e nell’aprile 2001 (nella traduzione di Martina Testa)
Verso occidente l’impero dirige il suo corso, cioè il racconto lungo (o romanzo breve)
Westward the Course of the Empire Takes Its Way non incluso nella traduzione di Martina Testa/Einaudi diGirl with Curious Hair.
Ricorda Martina Testa:
Ecco come sono diventata una traduttrice: nel 1998 ho comprato A Supposedly Fun Thing…
in una libreria internazionale di Roma: il primo pezzo mi ha lasciata
interdetta, il secondo mi ha tenuta sveglia quasi per tutta una notte,
il libro intero mi ha esaltata come forse non aveva mai fatto nessun
altro libro prima di allora; io e un mio amico abbiamo sentito dire che
una casa editrice cercava un traduttore proprio per quel libro; non
avevamo esperienza; gli abbiamo chiesto di farci provare; ci hanno fatto
provare; la prova gli è piaciuta (Testa 2008).
Martina Testa divenne poi, oltre che una delle principali traduttrici
di Wallace, anche la direttrice editoriale di minimum fax, e i libri di
quella casa editrice diedero un contributo fondamentale alla diffusione
di David Foster Wallace in Italia, ma il pezzo forte, quello più
atteso, restava
Infinite Jest.
Nell’autunno del 1997 Susanna Basso aveva ricevuto il libro. Aveva
subito pensato, ricorda oggi (Basso 2012), di non potersi concedere il
lunghissimo tempo e la dedizione assoluta che le parevano necessari per
tradurlo, e l’aveva proposto, riservandosi di farne poi la revisione, a
Grazia Giua, all’epoca una traduttrice giovane ma non priva di
esperienza, che aveva accettato.
Così, per nove mesi, assistita da Susanna Basso in un ruolo che oggi
definisce da coach (Giua 2012), Grazia Giua (che anni dopo sarebbe
diventata editor Einaudi) si dedicò anima e corpo a una traduzione che
la assorbì completamente e la pose di fronte a «insidie sconfinate».
Oltre a essere mastodontico – Wallace disse una volta che ai commessi
delle librerie sarebbe toccato aiutare chi lo comprava a caricarlo in
macchina (Bruni 1996) – il libro era scritto in una lingua enormemente
complessa, che costrinse la traduttrice non solo ripercorrere le
funambolesche evoluzioni di una sintassi acrobatica, ma anche a
impadronirsi di una miriade di lessici iperspecialistici:
Centinaia di pagine di appunti, centinaia, molte, di
mail. E i libri: compendi di fisica, di matematica, manuali sul tennis e
sul football americano, volumi sulla droghe, sintetiche e no, il Physician Desk Reference
e il prontuario farmaceutico (carpito a un sospettosissimo farmacista),
dizionari del cinema e di qualunque altra cosa. E i colloqui infiniti e
meravigliosi con gli informant, di ogni ordine grado e
professione, dai due lati dell’oceano. Non tutto mi è servito, e di
certo non mi è bastato, ma ricordo la sensazione – ossessiva, immagino;
delirante, mi dicevano – di vagare per scaffali, vetrine, palestre,
strade, mondo, e pensare, sempre, eh sì, questo mi può servire, questo
lo troverò, in qualche momento, a qualche punto, e allora mi servirà
(Giua 2008).
Il romanzo però prima o poi sarebbe dovuto uscire, e ben presto si
creò uno scollamento fra le esigenze della traduttrice, cui sembrava
necessario dedicare a quel lavoro un tempo e una cura maggiori di quelli
concessi dal suo contratto, e quelle dell’editore, Domenico Procacci, e
del direttore della collana «Mine vaganti» in cui il romanzo sarebbe
uscito, Sandro Veronesi, che non ritenevano di poter rimandare la
pubblicazione di un libro così atteso. Nel giro di qualche mese lo
scollamento sfociò in una rottura e, dopo aver tradotto le prime 385
pagine con relative torrenziali note, Grazia Giua fu rimpiazzata da
un’altra giovane traduttrice, Annalisa Villoresi, e dallo scrittore
Edoardo Nesi.
Una delle rarissime testimonianze di Annalisa Villoresi sul proprio
lavoro al romanzo si trova in un articolo pubblicato dal «Tirreno» il 23
dicembre 2000 in occasione dell’uscita del libro:
«Non è stato facile restituire in italiano lo slang e il
particolare stile letterario di Wallace – racconta la co-traduttrice –
soprattutto per me che ero alla prima esperienza». Trentacinque anni,
madre di due gemelle di 5, Villoresi è subentrata alla precedente
traduttrice romana [sic, ma Grazia Giua non è romana], lavorando da
marzo del 1998 fino ad agosto di quest’anno per circa sei ore al giorno.
«Avevo smesso di lavorare per stare con le mie figlie ma ora, dopo
questa esperienza, spero di avere altre occasioni. Non credevo che sarei
riuscita a tradurre un romanzo così complesso in così poco tempo». Lo
stesso Nesi definisce «sorprendente» il risultato e aggiunge: «Annalisa è
stata bravissima, ha fatto un grande lavoro soprattutto con notevole e
costante impegno». Lo scrittore imprenditore pratese, che deve a
Procacci anche la realizzazione del suo primo film Fughe da fermo nelle
sale a marzo, si è occupato della “ripulitura” (Bernacchioni 2000).
Da parte sua, così racconta Edoardo Nesi:
Pur potendomi appoggiare a una prima traduzione di Annalisa Villoresi e Grazia Giua, tradurre in italiano Infinite Jest
mi è costato l’inverno e la primavera e l’estate 2000, e per varie
ragioni: l’estrema complessità della trama che si supera e si ripiega e
si rincorre continuamente; le dozzine di vividissimi personaggi e le
loro complesse interazioni; la lingua ricchissima dell’autore, le lunghe
dissertazioni tennistiche e farmacologiche e chimiche e
cinematografiche con uso continuo di termini specialistici; la frequente
coniazione di nuove parole in americano; l’uso di prefissi greci legati
a oscuri termini medici; la decisione di non aggiungere note di
traduzione non assolutamente necessarie per via delle moltissime pagine
di note al testo già scritte dall’autore; la presenza nel romanzo di
numerosissimi refusi d’autore poiché ben pochi dei personaggi sanno
parlare o persino pensare in un inglese corretto (Nesi 2001).
Intanto, nel novembre 1999, da Fandango era arrivato in libreria
La scopa del sistema,
il primo romanzo di Wallace, in un’edizione che si segnalava, oltre che
per la bella illustrazione di Gianluigi Toccafondo in copertina, per
una quarta genialmente essenziale, appena tre parole: «Mi manca
chiunque». La traduzione era di Sergio Claudio Perroni, che oggi ricorda
i mesi dedicati a lavorare su quella scrittura «di straordinaria
intelligenza» come un periodo molto felice, una delle pochissime
occasioni nella sua carriera (già all’epoca ben avviata) in cui
l’estrema difficoltà non fu per lui «una rottura di scatole» ma «un
enorme piacere» (Perroni 2012). E poi, il 10 dicembre 2000, dopo più di
tre anni di lavorazione complessiva, finalmente uscì
Infinite Jest.
All’interno del volume la traduzione era accreditata a «Edoardo Nesi
con la collaborazione di Annalisa Villoresi e Grazia Giua», ma in
copertina c’era scritto: «Traduzione di Edoardo Nesi». Da quel momento
nel parlare comune Nesi sarebbe stato
il traduttore di
Infinite Jest.
Nel giro di due o tre anni appena, giusto gli anni di fine millennio,
in Italia Wallace era così passato dallo status di sconosciuto a quello
di autore di primo piano, sebbene ancora letto solo da un pubblico di
nicchia, con ben otto volumi usciti fra il settembre 1998 e l’aprile
2001. L’apice di questa fulminea consacrazione fu probabilmente la
lettura integrale di
Infinite Jest (una non-stop di 72 ore)
organizzata da Fandango al cinema Politecnico di Roma fra il 15 e il 17
dicembre 2000, quando, fra l’apertura di Alessandro Baricco e la
chiusura di Fernanda Pivano, a leggere il romanzo si alternarono decine e
decine di persone, celebri o meno.
Ancor più sorprendente è dunque, soprattutto col senno di poi, che
fino ad allora fra i traduttori di Wallace ben pochi fossero
professionisti affermati. Edoardo Nesi, che stava mietendo i primi
successi come romanziere, aveva tradotto solo cinque libri (di Malcolm
Lowry, Michael Hornburg, Buster Keaton, Stephen King e Quentin
Tarantino), e dopo
Infinite Jest non avrebbe quasi più tradotto. Quanto allo scrittore e sceneggiatore Francesco Piccolo (che aveva firmato
La ragazza con i capelli strani per Einaudi e, insieme a Gabriella D’Angelo,
Una cosa divertente che non farò mai più
per minimum fax) non aveva tradotto nessun altro libro e non ne avrebbe
tradotti altri. Martina Testa, che invece come traduttrice avrebbe poi
fatto molta strada, era allora alle primissime armi (il che non le aveva
impedito di meritare e vincere insieme a Christian Raimo il Premio
Procida – Isola di Arturo per
Il rap spiegato ai bianchi, un libro decisamente arduo da rendere in italiano), e alle primissime armi erano anche Raimo e Ostuni.
Le eccezioni erano Sergio Claudio Perroni – che aveva già in
curriculum una ventina di romanzi, di autori come Highsmith, Ellroy,
Vonnegut, Houellebecq e Moody – e soprattutto Ottavio Fatica, che aveva
alle spalle una lunga esperienza con classici della stazza di Kipling,
Stevenson, Conrad, James e molti altri. Ma forse Fatica, quando nel 1999
Paolo Repetti di Einaudi «Stile libero» affidò a lui e Giovanna Granato
Brief Interviews with Hideous Men, non trovò Wallace
particolarmente nelle proprie corde, perché riservò per sé solo pochi
racconti e lasciò gli altri alla co-traduttrice, che oggi ricorda:
C’è un episodio significativo di com’è stato per me tradurre Wallace. Mentre lavoravo al primo racconto, La persona depressa,
all’improvviso è saltato il computer e si è cancellato tutto. E io,
come nulla fosse, ho subito ricominciato da zero. Tradurre quel racconto
aveva prodotto in me questa sensazione di abbandono totale. Si trattava
di lasciarsi travolgere dal vortice della sua scrittura, abbassare le
difese, lasciarsi andare e, semplicemente, seguire la luce chiarissima
che emanava dalle sue pagine (Granato 2013).
Quel libro comprendeva anche un racconto che all’epoca a Fatica e Granato parve intraducibile,
Datum Centurio. Così, come era già accaduto nel caso di
La ragazza con i capelli strani,
e come purtroppo spesso accade nelle edizioni italiane di raccolte di
racconti straniere, si decise di tralasciarli (e, di conseguenza, per
non alterare troppo la struttura del libro, di tralasciare anche la
Breve intervista n. 59 e
Tri-Stan, già uscito nell’antologia di Fanucci
Schegge d’America),
una scelta da cui fra l’altro si evince come all’epoca Wallace non
avesse ancora quello statuto di classico contemporaneo che oggi ci
appare scontato.
Esauritasi così l’intera backlist, negli anni fra il 2002 e il 2007
il ritmo delle uscite rallentò. Furono però gli anni in cui, come
ricorda Martina Testa, in Italia la fama dello scrittore si consolidò:
All’inizio c’è stato un lentissimo crescendo di attenzione. Nei primi anni Duemila, per dire, la raccolta di saggi Tennis, tv, trigonometria, tornado
si vendeva così poco che a un certo punto rischiammo di doverne
macerare qualche centinaio di copie. A partire dalla nostra edizione
della Ragazza dai capelli strani (2003), che andò subito molto
bene, ci è sembrato che l’interesse del pubblico crescesse, anche nei
confronti degli altri titoli, che infatti, nel corso degli anni, non
sono mai andati fuori catalogo. Probabilmente è stato in quel periodo
che si è verificato il fatidico “passaparola dei lettori” (Gregorio
2011).
Fu in questo periodo che Einaudi riuscì ad aggiudicarsi le nuove uscite – nel 2004 la raccolta di racconti
Oblivion, tradotta da Giovanna Granato come
Oblio, e nel 2006 la raccolta di saggi
Consider the Lobster, tradotta da Adelaide Cioni e Matteo Colombo come
Considera l’aragosta – e ad acquistare i diritti di
Infinite Jest e della
Scopa del sistema
(che non erano stati rinnovati a Fandango), per poi ripubblicare i due
romanzi nella collana «Stile libero Big» rispettivamente nel 2006 e nel
2008, senza apportarvi alcuna correzione o modifica. Presso la casa
editrice di divulgazione scientifica Codice uscì invece nel 2005
Tutto, e di più, la traduzione (di Giuseppe Strazzeri e Fabio Paracchini) dell’impegnativo saggio di logica matematica
Everything and More: a Compact History of Infinity.
Wallace aveva ormai, grazie a
Infinite Jest ma forse ancor più a
La scopa del sistema,
un’affezionata platea di lettori italiani, e non a caso fu proprio in
Italia che lo scrittore fece una delle sue rarissime apparizioni al di
fuori degli Stati Uniti, intervenendo nel 2006 – insieme a Nathan
Englander, Jeffrey Eugenides, Jonathan Franzen e Zadie Smith – al
festival Le conversazioni a Capri, organizzato da Antonio Monda. Ricordò
in seguito Martina Testa, che in quell’occasione fu la sua interprete:
Continuava a dire che eravamo vecchi amici (anche se in
realtà ci eravamo incontrati solo due o tre volte, e detti poco più che
ciao). Mi dava pacche sulle spalle, mi abbracciava, mi scroccava
sigarette con un sorriso imbarazzato (aveva smesso di masticare tabacco,
ma ancora non poteva fare a meno della nicotina) e mi chiedeva di
stargli vicino; una volta, quando mi sembrava di aver combinato un
disastro nel fare da interprete a un altro autore, si mise subito a
rassicurarmi del fatto che ero andata benissimo. Nonostante si facesse
un gran parlare di quanto era a disagio in mezzo alla gente, in realtà
aveva un calore e una dolcezza che sarebbero rari da trovare in chiunque
– figuriamoci poi in un genio, o nel tuo scrittore preferito (Testa
2008).
Era la fine di giugno – scrisse diversi anni dopo Antonio
Monda – nell’atmosfera rilassata del festival Le conversazioni a Capri,
e nessuno, neanche tra i più intimi, poteva immaginare che quel viaggio
avrebbe rappresentato uno degli ultimi momenti di serenità della sua
esistenza destinata a spezzarsi tragicamente due anni dopo (Monda 2011).
E in effetti, quando il 12 settembre 2008 lo scrittore fu trovato
dalla moglie Karen Green impiccato nel patio della loro casa di
Claremont, in California, furono in molti a sentirsene personalmente
feriti. Come scrisse all’epoca Nicola Lagioia:
Il suicidio di David Foster Wallace ha lasciato scioccata
un’intera generazione di lettori. Al di là dei coccodrilli e del tran
tran dignitosamente ordinario di una breve commemorazione mediatica, le
autostrade telematiche sono state rapidamente invase da messaggi pieni
di sgomento e di dolore autentico. Sui siti internet, nei blog, nei
forum di discussione e poi, fuori dalla rete, nelle conversazioni tra
appassionati (spesso molto giovani) di letteratura contemporanea: «è
morto uno di noi…», «lo sentivo vicino come un fratello…», «adesso mi
sento persino più solo di prima…», «si può provare tanto dispiacere per
una persona che non si è mai frequentata fuori dalla pagina?» (Lagioia
2008).
Un’impressione confermata dalla testimonianza di Tommaso Pincio:
Vengo a sapere che David Foster Wallace si è impiccato.
[...] Poco dopo squilla il telefono. Un amico vuole commentare il fatto.
Siamo entrambi sconcertati, affranti. Nessuno dei due può dire di aver
conosciuto Wallace, eppure ci è naturale parlarne come di una persona
cara (Pincio 2011, 108).
E se lettori e critici si sentirono toccati così nell’intimo dalla
morte improvvisa di uno scrittore che sentivano insolitamente vicino,
tanto più si sentirono chiamate in causa le persone che avevano
tradotto, editato o pubblicato i suoi libri. Data l’intricata storia
editoriale di Wallace in Italia, non stupisce che più d’uno si sia
sentito in quel momento di poter rivendicare una sorta di primogenitura,
o comunque un legame privilegiato con lo scrittore scomparso. In un
paginone interamente dedicato a Wallace, ad esempio, l’«Unità»
affiancava, sotto il poco felice titolo
La maratona della memoria,
una serie di trafiletti commemorativi. Procacci, direttore editoriale
di Fandango, dichiarava: «Non l’ha mai saputo, D.F.W., e ormai non lo
saprà mai, ma una piccola casa editrice, la nostra, la Fandango Libri, è
nata per pubblicare un suo lavoro, il monumentale Infinite Jest»
(Procacci 2008); e a fianco Veronesi:
Io credo che Infinite Jest sia il più grande
romanzo che sia stato scritto nel dopoguerra. [...] Averne fortemente
voluto la traduzione, aver fondato una casa editrice, con Procacci,
praticamente a questo scopo, rappresenta probabilmente il mio più alto
merito letterario; averne organizzato la lettura integrale, nel dicembre
del 2000, al Politecnico di Roma, una delle cose più belle che abbia
fatto nella vita (Veronesi 2008);
e Cassini, direttore commerciale di minimum fax: «Eravamo i primi
folli editori al mondo a voler pubblicare un suo libro al di fuori
dell’America e infatti ne comprammo i diritti per cinquecentomila lire»
(Cassini 2008). Anche Fernanda Pivano parlò di lui, sul «Corriere della
Sera», come di «un altro amico, dolce, fragile e generoso che se ne va»,
inserendolo in una sorta di genealogia di scrittori suicidi suoi amici,
da Pavese a Hemingway a Wallace (Pivano 2008). Martina Testa scrisse
sul sito di minimum fax:
Nessuno è stato altrettanto difficile e gratificante. Su
nessuno mi sono impegnata con tanto amore. Ogni volta che ho tradotto
qualcosa di suo, gli ho mandato delle domande. Lui rispondeva con
riluttanza, era in difficoltà, continuava a dire che una certa storia
era impossibile da tradurre in maniera dignitosa e fedele – il che a
volte mi faceva venire da piangere; e poi scriveva pagine intere per
spiegarmi una singola parola o una singola frase, e concludeva
dichiarando la sua totale fiducia nelle mie capacità di traduttrice – il
che, di nuovo, mi faceva venire le lacrime agli occhi (Testa 2008).
Come negli Stati Uniti, anche in Italia si tennero eventi in sua
memoria, il principale dei quali si svolse il 12 ottobre (a un mese
dalla morte) al Teatro Ghione di Roma. In quell’occasione si ritrovarono
tutti gli editori italiani di Wallace (minimum fax, Fandango, Einaudi e
Codice), molti suoi traduttori e diversi scrittori che si consideravano
suoi «compagni di strada». Cominciò poi, come inevitabilmente capita in
casi simili, una nuova fioritura di edizioni italiane. Minimum fax, che
proprio in quel momento stava celebrando il quindicennale della casa
editrice con la speciale collana «I Quindici», nel 2008 ripubblicò in
questa nuova veste, arricchita da una grafica molto curata e da nuovi
apparati ed «extra»,
La ragazza dai capelli strani (con
Brave persone in appendice, un estratto da quello che in seguito sarebbe diventato
Il re pallido), nel 2009
Burned Children of America (un’antologia di nuovi narratori americani, uscita la prima volta nel 2001, che si chiudeva con il racconto di Wallace
Incarnazioni di bambini bruciati, da cui il titolo) e nel 2010
Una cosa divertente che non farò mai più. Seguirono le nuove edizioni di tutti i libri di Wallace nei «Sotterranei».
Einaudi alle riedizioni affiancò alcuni inediti. Uno degli ultimi testi scritti da Wallace era una conferenza, un
commencement address
(ossia una prolusione) pronunciato di fronte ai neolaureati del Kenyon
College il 15 maggio 2005. Qualche mese dopo la morte dell’autore, la
Little, Brown & Co. (che a partire da
Infinite Jest era diventata la casa editrice di Wallace) lo aveva pubblicato col titolo
This Is Water. Some Thoughts, Delivered on a Significant Occasion, about Living a Compassionate Life.
In quel volumetto a ogni singola frase del breve e intenso discorso era
riservata un’intera pagina, così che le parole dell’autore venivano a
trovarsi circondate da grandi spazi bianchi, una sorta di aura che
trasmetteva al lettore la sensazione di avere fra le mani un testo
sapienziale, o magari, come ebbe a scrivere Zadie Smith, «un librettino
di self-help da leggere al cesso» (Smith 2010, 378).
L’insolita scelta editoriale della Little, Brown & Co. si
inseriva in quella che qualcuno definì la «beatificazione» di David
Foster Wallace (Salis 2011), uno scrittore che, se agli esordi era stato
considerato un epigono dei postmodernisti, un ironico acrobata delle
parole (Bajani 1999), col tempo si era spostato sempre più verso una
concezione morale, se non esplicitamente spirituale, della letteratura
(un’evoluzione già ben compresa nel 1998 da Mattia Carratello nella sua
lucidissima postfazione a
La ragazza con i capelli strani), e
che proprio per questo aveva suscitato nei suoi lettori un
coinvolgimento così viscerale. In un articolo su «Slate», Nathan Heller
si era chiesto perché Wallace ispirasse una tale devozione nei suoi
ammiratori, e al termine di un’approfondita analisi delle sue opere si
era risposto:
È stato l’intellettuale del 21° secolo che ha insegnato
ai lettori a provare sentimenti, lo scrittore che ha spiegato come sia
possibile vivere in modo ricettivo e umano senza rinnegare una cultura
pesantemente, eminentemente critica (Heller 2011; traduzione mia).
Anche Tim Jacobs, su «Rain Taxi», aveva azzardato una risposta: «Non
era Gandhi e non è morto per i vostri peccati, ma i concetti di servizio
e di sacrificio personale, soprattutto nell’ambito della scrittura, li
prendeva palesemente sul serio» (Jacobs 2008-2009; traduzione mia).
In questo contesto Einaudi «Stile libero» preferì non incoraggiare
ulteriormente una lettura di Wallace che molti ritengono fuorviante, o
comunque dannosa. Wallace era sì un genio, precisa ad esempio Martina
Testa, ma
penso che connotarlo come una specie di unicum, di
“monstrum”, di prodigio sia inopportuno, non giovi alla percezione che
il pubblico ha di lui, gli faccia più male che bene, e personalmente non
vorrei contribuire ad alimentare in nessun modo l’aura quasi mitica che
ormai lo circonda (Testa 2012).
Sulla stessa posizione Giovanna Granato, la traduttrice di
This Is Water:
«È un errore farne un culto perché non era l’immagine che lui voleva
dare di sé» (Granato 2013). La casa editrice italiana decise dunque di
far uscire, in concomitanza col primo anniversario della morte
dell’autore, il discorso intitolato
Questa è l’acqua in un
omonimo volume, curato da Luca Briasco, che recuperava anche cinque
racconti, perlopiù giovanili, ancora inediti in Italia (e tuttora
uncollected negli Stati Uniti), fra cui il primo in assoluto mai pubblicato da Wallace (nel 1984),
Il pianeta Trillafon in relazione alla Cosa Brutta, in cui lo scrittore raccontava l’insorgere della depressione e della dipendenza dai farmaci.
C’era però in cantiere un inedito ben più importante. Alle Conversazioni a Capri Wallace aveva letto un brano di prosa chiamato
Estratto senza titolo da un qualcosa di più lungo che ancora non è neanche lontanamente scritto
(pubblicato all’epoca in una plaquette con a fronte una traduzione di
Martina Testa). Quel brano era poi stato ritrovato, insieme a centinaia
di altre pagine, sulla scrivania di Wallace il giorno del suo suicidio
(Max 2009; Pietsch 2011). Quelle pagine erano il dattiloscritto
incompiuto di quello che avrebbe dovuto diventare il suo terzo romanzo
e, dopo un lungo e complesso lavoro di riordinamento e collazione da
parte di Michael Pietsch (l’editor di Little, Brown & Co. che già
aveva lavorato a
Infinite Jest), sarebbero uscite nel 2011 col titolo The Pale King. Einaudi affidò anche questo libro a Giovanna Granato, che ricorda:
La difficoltà più superficiale, ma molto fastidiosa è
stata dover cercare tantissimi riferimenti, cosa che porta via un sacco
tempo. Invece non è difficile la struttura della frase, perché la sua
scrittura, per quanto complessa e piena di meandri, non è mai ambigua, è
lucida e solida. Le sue architetture verbali sono di una solidità
mostruosa. Il difficile è restituire il grandissimo spessore che si cela
sotto quelle che possono anche apparire storielle in cui non succede
niente di che. Le strutture sono ripetitive ma leggere e limpidissime,
la difficoltà sta sotto, nella fittissima rete dei riferimenti che danno
un senso profondo al tutto. Affrontare la lunghezza delle frasi è solo
una cosa muscolare. Basta allenarsi, fare un respiro profondo e buttarsi
nel vortice. La sua scrittura non dà grandi margini di movimento,
perciò devi per forza essere letterale. È tutto troppo solido, non si
lascia scalfire (Granato 2013).
In questo caso però, racconta ancora la traduttrice, c’era una difficoltà più profonda:
Lavorare al Re pallido è stato come mettere le
mani nella carne viva, dovendo affrontare in molte parti un testo
“sporco”, non ancora ripulito dall’autore con la sua solita cura
maniacale. Mi capitava di provare un imbarazzo da voyeur, come
trovandomi a vedere quello che lui non avrebbe voluto farci vedere, il
corpo nudo della sua scrittura. È stato pesantissimo dal punto di vista
psicologico. Anche perché in passato Wallace non aveva mai scritto in
modo così nudamente autobiografico. È stato come camminare costantemente
sui confini di un territorio in cui non mi sembrava giusto entrare,
intrattenendo con l’autore un rapporto personale, mentre non deve essere
così. Per questo ho cercato di avere il massimo rispetto del testo,
trattandolo non tanto come un romanzo, ma come un documento. Perciò,
dove la scrittura è sporca, è stata lasciata sporca. In questo caso la
resa è stata ancora più letterale del solito, e mi sono data la regola
di non correggere anche laddove evidentemente Wallace in un secondo
tempo sarebbe intervenuto. Ad esempio, di solito la punteggiatura è
meravigliosa, perfetta, chiarissima. In questo caso invece a volte non
lo era, ma non è stata toccata. In questo l’Einaudi, e soprattutto
Alessandra Montrucchio, che ha fatto la revisione e mi ha aiutata nelle
ricerche sui termini tecnici, mi hanno sostenuta molto (Granato 2013).
Con
Il re pallido può dirsi conclusa la grande stagione
editoriale di David Foster Wallace in Italia, sebbene altre nuove uscite
ci siano state e continueranno probabilmente a esserci. Nel 2012 da
Einaudi è stato pubblicato, ancora in una traduzione di Giovanna
Granato, e con grande successo,
Il tennis come esperienza religiosa, che raccoglie due reportage, uno inedito in Italia,
Democrazia e commercio agli US Open, e uno, già uscito nel 2010 da Casagrande in una traduzione di Matteo Campagnoli, dal titolo
Roger Federer come esperienza religiosa. Per il 2013 sono annunciate diverse novità di non poco conto:
Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi,
ovvero la prima biografia di Wallace, scritta da D. T. Max e tradotta
da Alessandro Mari; la traduzione di Giovanna Granato dei saggi
uncollected pubblicati nel 2012 da Little, Brown & Co. col titolo
Both Flesh and Not; una nuova edizione di
Brevi interviste con uomini schifosi che finalmente recupera i tre racconti mancanti; una nuova edizione del
Re pallido
(negli «Einaudi Tascabili») che presenta in appendice le quattro nuove
scene inserite nel paperback dell’edizione statunitense; e infine una
nuova edizione di
Infinite Jest in cui sono stati corretti i
numerosi refusi presenti nelle edizioni cartacee (solo in e-book, un
assaggio di quella che sarà l’edizione speciale per il ventennale del
libro nel 2016).
Da minimum fax invece è in uscita la traduzione delle
Conversations with David Foster Wallace
curate da Stephen J. Burn (2012), una raccolta delle non molte ma
preziose interviste rilasciate nel corso degli anni da Wallace, fra cui,
essenziali e citatissime, quelle di Larry McCaffery per la «Review of
Contemporary Fiction» (1993) e di Laura Miller per «Salon» (1996). Resta
da tradurre la tesi di laurea in filosofia del 1985
Fate, Time, and Language: An Essay on Free Will (Columbia University Press, 2010), e ben poco altro.
Oggi, a vent’anni dalla prima comparsa di un suo testo in Italia, e a
cinque dalla morte, la popolarità e l’influenza David Foster Wallace
nel nostro paese non accennano a diminuire. Lo dimostrano, oltre alle
molte nuove uscite annunciate, la nascita nell’aprile 2011 del sito
Archivio David Foster Wallace Italia e la pubblicazione di alcuni saggi
critici e libri di interviste (Pennacchio 2009; Lipsky 2011; Susca 2012;
Karmodi 2012), nonché di un «diario del dolore» scritto subito dopo la
sua morte (
Infinite Loss di Salvatore Toscano, 2009). E se è
certamente vero che la sua scomparsa tragica e prematura ha contribuito a
trasformare lo scrittore in una sorta di personaggio leggendario – e
non è certo la prima volta che succede: basti pensare, senza scomodare
le rockstar, al caso per certi versi analogo di Roberto Bolaño, e da noi
a Sergio Atzeni o, fra i traduttori, Angelo Morino -, non si può non
riconoscere che, se per tanti lettori e scrittori del nostro paese
Wallace è diventato un punto di riferimento, il merito va anche ai
traduttori. Ci troviamo di fronte a un felice paradosso: un autore che
molti consideravano intraducibile (e che si considerava intraducibile) è
stato non solo tradotto ma tradotto con grandissima fortuna.
I termini della sfida li aveva spiegati lui stesso nell’intervista rilasciata a «Salon» in occasione dell’uscita di
Infinite Jest:
Il progetto che vale la pena portare avanti è fare della
roba che mantenga la ricchezza e il coraggio e la difficoltà emotiva e
intellettuale dell’avanguardia, roba che costringa il lettore ad
affrontare le cose invece di ignorarle, ma farlo in modo tale che sia
anche piacevole da leggere. Allora il lettore sente che qualcuno sta
parlando con lui invece di mettersi in posa (Miller 1996; traduzione
mia).
È una sfida che, nonostante le tortuosità, e talvolta le ambigue
opacità, delle vicende editoriali di David Foster Wallace in Italia, i
traduttori hanno vinto.
di Norman Gobetti
Trovato qui: Tradurre